Ti chiamavi Aquila 7

Ti confesso che non mi ricordo la tua faccia, ma la tua gentilezza e la tua sigla, quelle sì. Fai parte dei miei ricordi di lavoro, dei momenti più complicati, quando arrivava il momento di volare a Roma e c’erano i bambini – anzi, le ragazze – da accompagnare a scuola. Erano inverni (forse anche altre stagioni, ma io ho ricordi d’inverno) pieni di fumi e di pioggia, di vita complicata ma anche piena. Piena di lavoro, ma non solo; è un modo di stare a Milano che ora mi pare sia un po’ cambiato e tu certamente lo sapevi, te ne eri accorto; perché i taxisti si accorgono di un sacco di cose, hanno una memoria che assorbe, giorno dopo giorno, le facce le abitudini, i tic, dei loro clienti. Io ero una tua cliente abituale: c’eri tu e c’erano altre due sigle – sempre 8585, perché con i taxi ero abitudinaria e l’8585 non aveva mai bucato una corsa, una consegna, un affidamento. E io a voi affidavo abbastanza sovente i miei figli che dovevano andare a scuola, quando gli orari – miei e loro – non combaciavano. E sapevo che con i taxisti erano al sicuro… E se ci fosse stato qualche inghippo, qualcosa di irregolare, sarei stata subito avvertita. Un bel sollievo per una che lavora, che fa un lavoro non proprio tranquillo e che ha tre figli da crescere, per questo tu sei stato un aiuto prezioso e una sicurezza.

Perché i taxisti hanno l’occhio lungo e vedono anche quello di cui i loro passeggeri non si accorgono, generalmente. Invece tu questa volta, forse eri di corsa, ma non hai visto che cosa c’era dietro gli occhi di quello lì, o se hai visto non ci hai fatto caso, altrimenti non sarei qui a scriverti; a scrivere che ti penserò anche se sono lontana da Milano e dai suoi taxisti, qui in mezzo a questa campagna bella. Addio Aquila 7!

Brunello on the road

La giornata è frizzante con pochi gradi in meno, rispetto alla solita temperatura tiepida di questo pseudo-inverno; un bel po’ di gente sta concludendo l’ultima giornata di Benvenuto Brunello, dove sono stati consumati tutti i riti dovuti. Un giro di boa annuale per rassicurare gli animi, un vero e proprio esame di maturità che alcuni svolgono da privatisti. Per tutti una data da segnare sul calendario.

Leggo un articolo sul Corriere della Sera in cui si danno un po’ di numeri sull’andamento dell’occupazione in agricoltura. Ne hanno parlato in occasione del 32° convegno internazionale sull’agricoltura biodinamica che per la prima volta vedo recensito su cinque colonne in un quotidiano così conservatore e ligio alle ortodossie. Avrei molti commenti, ma preferisco uscire per una camminata e mettere alla prova il mio titubante ginocchio.

Camminare vuol dire apprezzare il mondo circostante; mi succede persino a Milano o in altre città, mi capita nelle periferie industriali (ormai dismesse) alla Mario Sironi. A maggior ragione una camminata è quanto di più godibile nella campagna molto pettinata e ammansita che mi circonda … “Coltivare in modo etico per creare lavoro e qualità” è all’incirca il titolo del Corriere e penso che se lo hanno scritto è perché c’è già una filiera di interessi pronti a trarre profitto e vantaggi da questo modo nuovo che nuovo non è. Qualche tempo fa parlando con il sindaco di questo paese gli dicevo che sarebbe un colpo grosso fare di Montalcino un’enclave del “bio”; non è un’idea (solo) mia, sono ben più di dieci anni che ne parlano i produttori di Brunello che hanno scelto la via della naturalità, ma certo che se tutta questa zona fosse ‘organic’ sarebbe la prima al mondo a compiere una scelta così netta e così piena di futuro. Il premio sarebbe un balzo della reputazione e del fatturato complessivo, per non parlare dell’attrazione che una scelta così radicale eserciterebbe sul turismo di alta qualità (e sugli investimenti).

Un po’ immalinconita dalla consapevolezza che qui non basterebbe il mitico “nudge” per mandare in porto una scelta del genere, perché mancano proprio i presupposti per  un’evoluzione di quella portata (che farebbe epoca e incoronerebbe Montalcino e il suo vino in modo definitivo e clamoroso), mi concentro sulla luce che illumina le cose e le creature, rendendole uniche ed effimere allo stesso tempo.DSCN8916DSCN8918DSCN8919DSCN8922DSCN8925DSCN8927

La finestra di Brunello

Ai (bei?) tempi della pubblicità – quella degna di questo nome, ora in piena evoluzione – come pubblicitari italiani eravamo talmente consapevoli dell’arretratezza del nostro paese, da cercare in continuazione ispirazione e modelli nel mondo anglosassone (solo in un secondo tempo anche nella vicina Francia), per proporre ai nostri clienti – cioè ai clienti delle agenzie in cui lavoravamo – annunci, spot cinema e tv, affissioni, nonché quell’insieme di attività chiamate below the line, degni di strategie avanzate, in grado di cambiare davvero la situazione dei prodotti che ci erano stati affidati.

Commettevamo però due peccati d’ingenuità: il primo era quello di considerare gli imprenditori italiani più maturi e colti di quanto non fossero nella realtà delle cose; ma il secondo era forse più grave, per dei professionisti della comunicazione, ed era quello di dimenticare la totale assenza di sense of humour degli italiani tutti. Sense of humour che era – è ancora – il tono e lo stile della comunicazione anglosassone, a cominciare dalla pubblicità e le consente di non scivolare nella mielosità.

Solo una cultura dotata di molta autoironia, infatti, poteva e può permettersi certi ads e certi messaggi che nel nostro paese così “controverso” sarebbero suonati melensi. A questo riflettevo, pensando all’imminente ouverture di “Benvenuto Brunello”. E mi veniva in mente la pagina di una campagna pubblicitaria (americana) di un’auto che non ricordo (sono passati parecchi anni), con un visual singolare, bellissimo e impossibile, con un messaggio che lo sottolineava. L’immagine infatti ritraeva (alla lettera) fotograficamente, ma con uno stile ‘botticelliano’, la suddetta auto, in un prato fiorito all’inverosimile, sotto un cielo stellato (e con la luna), in cui però trovava posto anche un sole perfetto, in un clima da sogno quale può essere evocato solo da un abile ritoccatore capace di rendere fotograficamente plausibile una situazione di real unreal, e dare corpo ai sogni più straordinari.

Il perché di questo ricordo, apparentemente slegato da questo appuntamento annuale con un vino conosciuto davvero in tutto il mondo (anche solo di nome), è presto detto, ma non altrettanto facilmente. Per abitudine, per deformazione professionale – anche se non lavoro più in quel settore, certe cose mi restano appiccicate – sono abituata a ‘vedere’ istintivamente certi aspetti di luoghi e situazioni, in modo piuttosto immaginifico, e … sì, per me il Brunello è anche un prodotto; ma un prodotto speciale(come un’opera d’autore) da tenere al riparo dalla pubblicità, come tutti i grandi vini (non le marche, però: c’è  differenza, tra le due cose). Perché un grande vino trova “da solo” il suo posto nella nostra immaginazione, inserendosi nel mondo immaginato da ciascuno di noi e in quello di ogni suo potenziale consumatore / conoscitore, in modo singolare e molto personale. Proprio in modo irreale, come fosse evocato da immagini – come quella che ho sommariamente raccontato qui sopra – che danno corpo più a sentimenti (spesso sfuggenti) che a sensazioni organolettiche. Una bottiglia può (proprio come un libro, per esempio) anche essere solo acquistata, per il piacere di possederla, e tenuta lì, magari non per collezionismo. Per pura emozione. Come quella che proviamo ascoltando musica o quando ci affacciamo a una finestra e guardiamo un paesaggio che ci ispira.DSCN8836.

 

Mi sento un Leone

Ma non gli si scaricano mai le batterie?, ho chiesto alla Gianna, sapendo già che cosa avrei letto nel suo sguardo – devozione, complicità, affetto, ammirazione e stanchezza -: un miscuglio di sentimenti forti, con l’aggiunta di qualcosa che la maggior parte delle (rare) coppie unite e solidali non conosce; qualcosa che ha a che fare con il lavoro e non solo con la vita normale di una normale coppia di coniugi.

Un uomo speciale PFL, un ragazzo ultraottantenne, con un passato pieno e ricco che è come una pacciamatura per le sue idee. Quando vado a trovarlo (nel suo esilio dorato, come ama dire della sua casa) mi ritrovo in un tempo speciale. Mi vien voglia di fermarmi lì, autoesiliarmi, continuare ad ascoltare e a scambiare; perché il Leone era dentro a quel mondo fatto di uomini, idee, aziende, visioni, soldi, che ha visto e fatto crescere la modernità che abbiamo (in molti) conosciuta e che ora sta implodendo. Un tempo finito, ma non solo a causa di quei disastri dell’economia che sono figli della corruzione. Perché è anche stato consumato e sfinito da tutti quelli che in questi trenta ultimi anni hanno negato il valore delle idee e l’impegno quotidiano del lavoro, facendosi largo senza reali ispirazioni e senza nemmeno sapere che direzione prendere.

Quando invece si vive di idee sono queste che alimentano le batterie e se la Gianna gli solleva la coda di capelli alla Lagerfeld, non è per controllare che il cavetto sia attaccato. Mentre conversiamo, pian piano questo mondo così sbriciolato è sostituito da un altro; l’ironia abbonda, la speranza fa parte della visione del mio amico (“mi preparo anche al viaggio dei viaggi”) che ha avuto una vita piena e che si è divertito molto e molto ha amato: per questo ha idee e anche la forza di metterle in atto. E’ di un’altra idea – tutt’altro che banale – che mi vuole parlare e io lo metto in guardia: qui ti ascoltano, orecchiano senza capire molto, scopiazzano e affidano tutto a “un amico di tessera”, senza preoccuparsi di capacità, esperienza o proprietà intellettuale, perché le idee son poche e i bisogni non finiscono mai … Ma lui è un leone e va avanti.

Io torno a casa e guardo la luna quasi piena – ogni volta penso al Leopardi e a quanto ha usato la luna per cantarci la sua dolente canzone – e quasi sulla soglia di casa mia sento il richiamo di un cane; due passi in più e scopro un uomo che sta preparandosi a una notte all’addiaccio, sotto gli archi umidi della via medievale, con un grosso cane che ha abbaiato per avvertirmi. Ha l’aria di un pellegrino, forse lo è e mi domando se conosce l’Abbazia di Sant’Antimo. Scambio due parole di saluto, mentre penso se non ci sia un modo per ospitarlo al coperto – è quasi vecchio e il cane è come lui – ma rinuncio perché non so come comportarmi. L’indomani, sarà mia figlia (“hai visto quell’uomo che ha dormito qui fuori”) a ripropormi la questione, a farmi sentire in debito e spingermi a un gesto di tardivo riconoscimento, mentre mi scuso per non averlo fatto prima. L’uomo mi ringrazia (“Lei è la provvidenza divina”) con un tratto di dignità persino elegante. Non so perché ma ripenso a Leone e alla sua sorridente pervicacia, e poi alla luna, che non è un’utopia. DSCN8817

Una sera con Furore

A cosa serve leggere libri – in particolare i romanzi -? Mi rispondevo mentalmente da sola lo scorso giovedì sera, mentre mi tornava in mente la trama di “Furore”, (ovvero The grapes of Wrath, tradotto impropriamente come ‘grappoli di odio’) …Mi rispondevo mentalmente, ricordando la situazione da cui prende le mosse il romanzo di Steinbeck e accostandola all’assemblea gremita – ma tranquilla (tranquilla, ma non supina) – a cui stavo partecipando, e riflettevo sugli eterogenei interessi che riguardavano sia i partecipanti presenti, sia i molti soggetti coinvolti assenti. Che cosa c’entra la lettura di libri con le centrali geotemiche che la regione prevede di installare tra Amiata e Montalcino?

E a che serve leggere i romanzi? A capire meglio e a vivere come proprie le esperienze degli altri; o a riconoscere le situazioni e le loro dinamiche, anche quando sono meno palesi, forse . Chi ha l’abitudine all’informazione non sempre utilizza quella che gli viene dai romanzi che ha letto. Questi solo apparentemente ci rappresentano una finzione; perché chi scrive romanzi ci mette sempre un pezzetto della propria storia o di quelle che ha visto accadergli intorno. Perché le storie degli uomini si inseguono, sospinte da pulsioni identiche, e a saper distinguere ci sono anche i buoni e i cattivi. L’altra sera proprio Furore mi tornava alla memoria, una lettura giovanile che mi aveva turbato nel profondo; mi aveva angosciata l’idea di quelle famiglie spossessate, costrette a lasciare una vita e andare via senza speranza e senza futuro. 

Di certo il contesto in cui mi trovavo non aveva le tinte drammatiche di quel romanzo (che peraltro non è pura fantasia, bensì una storia che ci riporta ai tempi della grande crisi negli Stati Uniti); ma continuava a farmelo tornare in mente e dati i tempi che stiamo attraversando mi sono chiesta se qualcosa lì sospeso a mezz’aria, o dietro agli occhi attenti di quelli che ascoltavano senza un mormorio o un gesto di polemica, mi aveva suscitato il ricordo di quel libro così lontano.

Non rileggerò subito Furore, ma lo cerco e me lo tengo a portata di mano. E’ una lettura scomoda e pesante, fatta di questi tempi, ma è persino un libro con un lieto fine, anche se non per tutti i protagonisti della storia. E sono convinta che rileggere quel libro – corposo e apparentemente inattuale – aumenterà la mia capacità di capire.

Annegare in un bicchier d’acqua, con una fetta di salame in mano

La chiamano “bomba d’acqua”, perché ormai ciò che conta è la parola – che fa audience -: perché i fatti li abbiamo ormai dimenticati, da tempo; non i fatti staordinari (che ormai si chiamano ordinariamente eventi, come se fossero attività spettacolari costruite per richiamare l’attenzione di un pubblico), tipo alluvioni, smottamenti, crolli, frane, sprofondamenti, eruzioni, allagamenti, terremoti, maremoti; ma penso proprio a tutte le attività quotidiane di manutenzione di un paese – il fare, appunto – che dovrebbe metterci al riparo dalle catastrofi da cui siamo quotidianamente colpiti. Riparare, pulire, rimettere in sesto, aggiustare, risistemare, restaurare, riordinare, ricollegare, consolidare: sono diventati verbi troppo umili per piacere a un mondo di cui leggiamo le gesta, qualche volta i gestacci, sui giornali o (chi ce l’ha e la guarda) in televisione.

Mentre la gente normale si accinge a rivoltare il cappotto (chi ce l’ha ancora), seguendo involontariamente le linee guida della decrescita (in)felice – così come ce l’ha ammanita il buon professore Latouche -, il milione circa di individui che vivono spensieratamente questa stagione di retroversioni, facendo affari d’oro alle spalle di un paese che pare un animale moribondo assalito da saprofiti, elabora progetti fantasiosi che solo tre anni fa sarebbero stati catalogati come assurdità impensabili.

Apprendo che pare si stia considerando di aprire un Eataly nel complesso del Santa Maria della Scala a Siena, dove i prodi amministratori senesi (e dintorni) non sono finora mai riusciti ad accordarsi per un progetto museale adeguato alla grandezza morale e spirituale del luogo. Se questa notizia sfiorasse anche solo da lontano la verità delle cose, sarebbe un rilancio singolare del pellegrinaggio sulla Via Francigena. 

I nuovi pellegrini (la parola intesa nell’accezione lombarda) verrebbero comunicati con l’opportuna fetta di finocchiona (fatta con maiali importati dagli allevamenti intensivi tedeschi), mentre il paese (la provincia di Siena come parte di un tutto) affoga in un bicchier d’acqua piovana DSCN8785