Quando, anni fa, a un tale con cui stavo chiacchierando di lavoro avevo mostrato un’affichette che illustrava i libri di Garcia Marquez, mentre gli stavo raccontando il primo incontro con il grande scrittore, cogliendomi di sorpresa, questi mi chiese “e chi è ‘sto Garcia Marquez?”. Io avevo risposto che era un signore con una moglie che si chiamava Mercedes ma non era un’auto. Era una battuta, venuta lì per lì, una forma di esasperazione trattenuta, per la sua non conoscenza di un personaggio che aveva acceso l’immaginazione di almeno due generazioni di lettori, e non solo; una battuta solo a metà, perché forse lui è rimasto con l’idea dell’auto e io non me la sono sentita di impegnarmi raccontandogli di Macondo, della casa di calle Fuego a Città del Messico, dei racconti raminghi, né del premio Nobel. Tagliai corto poi, non ricordo bene come. Nel frattempo Gabo è morto e ora la Mercedes, quella che non era un’auto – quella a cui veniva dedicato ogni libro in pubblicazione (“para Mecedes por supuesto”) – lo ha raggiunto in un immaginario magico almeno quanto quello che Garcia Marquez aveva saputo raccontarci con i libri.
Ma quasi dappertutto e anche nei luoghi dove vive quell’uomo che mi fece la sorprendente domanda, la Mercedes è solo e sempre stata un’auto che sfreccia per strada e pochissimi, sentendo questo nome, sospetterebbero oggi che si possa trattare di una donna.
Io invece, fino agli anni del liceo quando ho sentito dire Mercedes ho sempre pensato all’amica che abitava sul mio stesso pianerottolo di casa, la figlia dei vicini più grande di me di tre anni, che nonostante la differenza d’età – rilevante in quella stagione della vita – è stata ideatrice e complice di terribili marachelle, ma anche organizzatrice di balli e commedie con cui abbiamo intrattenuto i vicini di casa (con me protagonista “in scena” e lei nel ruolo di regista). Mai avevo sentito citare Maria de la Mercedes, né avrei sospettato che quel nome fosse traducibile come mercede in quanto perdono, o pagamento. Quanto alle auto, ce n’erano talmente poche in circolazione ed erano così lontane dal mio mondo di ragazzina, che non sapevo nemmeno che ce ne fossero di varie ‘marche’. Per dire come fosse diverso da quello contemporaneo il paesaggio cittadino di quel tempo, devo ricordare le botteghe con i cassetti dal frontalino in vetro per mostrare il contenuto, la pasta alimentare sciolta, devo ricordarmi dello zucchero venduto nella carta blu (carta-da-zucchero) che veniva anche applicata, umida, sui lividi che ci procuravamo noi ragazzini cadendo e giocando, devo pensare al latte venduto in bottiglie di vetro spesso, a rendere, con il coperchietto argenteo su cui era impressa la data di scadenza.
(Solo molti anni dopo, quel nome ha acquisito la consistenza di un’auto, forse addirittura ascoltando Janis Joplin cantare Mercedes Benz; ma la mia amica dell’adolescenza era ormai un ricordo lontano, travolto da nuovi incontri e altre storie).
Con la Mercedes ci si vedeva tutti i giorni; avevamo orari e compiti di scuola un po’ diversi – lei alle medie e io ancora alle elementari dalle suore. Io avevo una gran passione per il ballo e lei possedeva un grammofono; i suoi genitori erano ricchi, ma moderatamente, come si usava allora, senza auto né accessori lussuosi. Suo padre aveva una fabbrica di occhiali da sole, e sono convinta che potrebbe anche tornarmi in mente il nome. L’agiatezza si concretizzava nelle vacanze al mare in albergo, e nell’appartamento con un locale in più – quello che ora chiamiamo soggiorno – che aveva un balcone in pietra affacciantesi su via Venini; e da quel balcone, un giorno, la Mercedes mi convinse a sputare mentre passava una signora con cappello ad ala larga e un’ondeggiante gonna godè. L’idea era che lo sputo finisse sull’ala del cappello, ma io sbagliando i tempi e sbavando con qualche esitazione andai a colpire proprio la gonna: la donna – ricordo ancora lo sgomento che mi prese – alzando di scatto la testa ci colse sul fatto e salì inviperita fino al secondo piano. Ci andò bene perché eravamo sole in casa, i genitori erano via e io pulii diligentemente la gonna, che mi sembrava elegantissima, sotto gli occhi inferociti della vittima a cui chiesi umilmente scusa. Quella volta la Mercedes fece la parte dello chaperon a cui ero sfuggita di mano, ma ci sono state molte altre occasioni di complicità con quell’amica più grande, che però poi frequentai a intermittenza, perché crescendo io facevo anche altre amicizie e soprattutto mi si delineava un percorso diverso da quello suo; lei intanto si allontanava, tanto che non ricordo nemmeno che scuola frequentasse alle superiori. A un certo punto suo padre morì d’infarto – lo ricordo disteso, sul letto matrimoniale, ma non ho memoria di lacrime della mia amica, né di un clima di lutto, quasi come se quella morte fosse stata naturale e pienamente accettata. Da quel lutto passo repentinamente, quasi non ci sia stato niente in mezzo, a un matrimonio della Mercedes con il ricco proprietario della filanda di Roubaix, un matrimonio lontano invisibile e forse combinato, in un luogo molto a nord, e mi rimane il ricordo di sua madre che, ormai sola, veniva a prendere il tè da noi e a mia madre raccontava che la Mercedes ora viveva in un’importante famiglia, dove la madre del marito aveva sempre con sé un gran mazzo di chiavi che aprivano (e chiudevano, a me veniva in mente) tutte le porte di casa, armadi e dispense inclusi.
Sul nostro stesso piano, in via Venini, abitava un medico ortopedico con l’hobby della scultura: aveva ritratto la mia amica modellandone una testa in terracotta; era il suo dono di matrimonio. La testa, molto somigliante all’originale e la scritta alla base – Mercedes -, mi sono tornate in mente diverse volte – il ricordo si intreccia con altri di anni diversi e meno lontani, quasi ne fosse il capostipite.
Consultando testi che raccontano la storia dell’industria in Europa, ho letto che la filanda Motte a Roubaix è stata la più grande e importante di Francia e, vittima della crisi industriale di quel settore, ha chiuso l’attività nel 1981. Restaurati e recuperati successivamente, gli edifici della filanda ospitano dal 1991 gli Archives Nationales du monde du Travail; le foto dei luoghi mostrano un complesso enorme, monumentale, e mi chiedo se da qualche parte vi sia rimasto un pezzetto della vita della Mercedes con cui ho ballato e giocato in via Venini, prima di capire che sarei andata via di lì.
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Storia di una storia d’amore
E’ andata così. In tempi che a pensarci ora pare siano trascorsi cent’anni, ma invece era solo il 1985 (forse il 1984?), lavoravo felicemente in una grande casa editrice, da cinque o sei anni; la terra ruotava regolarmente su sé stessa e si muoveva nello spazio senza troppi trambusti straordinari. Ero atterrata in quel posto di lavoro esule dal mondo – decisamente più eccitante – della pubblicità. L’unica mia affinità iniziale con l’ambiente erano i libri, cioè il prodotto – come dicevo io, ma guai a chiamarli così in casa editrice perché prodotto’ e ‘mercato’ per autori, funzionari, editor e compagnia bella erano due parole volgari, che non si addicevano all’aureola di cui i libri erano circonfusi -. L’unico con cui ci si poteva esprimere liberamente in tale modo era l’editore. Cioè colui che mi aveva assunta, sapendo che ero anche una che leggeva molto e con molto gusto.
All’inizio mi era sembrato un ambiente un po’ datato, pieno di gente che ‘se la tirava’ per il solo fatto di essere lì, e che a ogni parola che ricordava il mondo più disincantato e vivace della pubblicità non mancava di uscirsene con chiose che segnavano la distanza tra cultura e “incultura”. Ma lavorando, giorno dopo giorno, avevo apprezzato un impegno che mi faceva crescere e che, grazie alla molteplicità di incontri e conoscenze, mi apriva finestre mai immaginate prima di allora. Lavorando avevo a che fare sia con giornalisti sia con autori di libri e il rapporto con questi ultimi era ogni volta ricco di sorprese e di imprevisti originali.
Nel 1982 la casa editrice aveva acquisito Marquez, autore a cui aveva fatto lungamente la posta; non conosco i particolari (né i costi) di quell’acquisizione prestigiosa, ma ricordo bene, invece i tempi del Macondo – a Milano – locale simbolo di resistenza trasgressiva delle generazioni sessantottine. E ricordo bene che la notizia dell’acquisizione a me rinverdì ricordi di quegli anni un po’ barricaderi aggiungendo un’emozione personale all’idea di un autore lontano dai territori abituali della casa editrice, che pareva vivesse in un suo mondo piuttosto circoscritto – amici registi, amici giornalisti, Fidel Castro e così via -. Avevo un mio vissuto che andava oltre il suo mitico “Cent’anni” e l’autore, nonostante la sua grandezza, mi evocava storie e ricordi privati; per il resto era lavoro. Marquez arrivava da noi, fresco di un Nobel che andava sottolineato, in occasione della pubblicazione di “Cronaca di una morte annunciata”. La sua agente aveva scelto la casa editrice che era in grado di mettere a disposizione del nuovo libro in uscita investimenti e organizzazione tali da rinverdire un mito che rischiava di rimanere legato a un libro così ‘unico’ che tutto quello che veniva dopo restava un po’ nell’ombra, con possibile flessione delle vendite degli altri titoli. Ma ora c’era il Nobel che dava l’occasione per dire qualcosa di diverso in libreria.
Quell’anno era tornato in Italia per qualche mese un vecchio amico – un autentico talento della grafica – ne avevo approfittato per affidargli il tema e chiedergli di disegnare un’affichette da regalare ai lettori nel loro luogo, la libreria e di offrire loro così un’antologia visiva di Marquez, un messaggio per raccontare l’autore di molti libri, non solo i mitici “Cent’anni di solitudine”. L’affichette fu un successo, era eloquente e delicata, con il Gabo, sintetizzato in un ritratto scuro e misterioso, che si affaccia tra pagine – simbolo, colorate e lievi, a raccontare una storia, forse addirittura a scriverla. Di quel lavoro mi è rimasto quello che viene chiamato definitivo, perché l’affichette andò a ruba e sparì anche dal mio ufficio.
Andò così che Marquez, che aveva apprezzato molto quella sintesi visiva della sua poetica, e che amava molto le nuove copertine che rivestivano tutti i suoi titoli nelle nostre edizioni, volle conoscermi personalmente, quando stava per uscire il suo nuovo libro (“El amor en los tiempos del còlera”). Nessuno, in casa editrice lo aveva mai incontrato di persona e l’editore arrivò affannato e felice nel mio ufficio ad annunciarmi che dovevo partire immediatamente per Barcellona, dove il nostro autore era ospite della sua agente, per sentire dalla sua viva voce quello che aveva da dirmi.
L’ufficio della Carmen Balcells era in Diagonal, dove arrivai in una tarda mattinata ed ero quasi più intrigata all’idea di conoscere una donna di cui avevo sentito parlare in termini straordinari – la Mamà Grande, l’aveva ribattezzata forse lo stesso Marquez -, non solo come agente, la Carmen era una consigliera ascoltatissima, e curava gli interessi di tutti i più importanti autori di lingua spagnola; avrei imparato, negli anni, che era anche molto lungimirante, anche per conto di quelli che amava e stimava -. Da una stanzetta si affacciò il Gabo, proprio come due anni prima dalle pagine dell’affichette disegnata dall’amico americano. Che cosa l’aveva spinto a incontrarmi?
Aveva una storia da raccontarmi, a proposito del suoi “Amor en los tiempos del còlera”; amava moltissimo le copertine che la casa editrice aveva creato per i suoi libri, le amava talmente che le voleva per tutte le edizioni dei libri, in tutto il mondo. Gli spiegai che da noi c’era un ufficio, con alcuni talenti, veri artisti che lavoravano alle copertine di tutti i libri pubblicati; gli dissi anche che le illustrazioni delle sue copertine erano state ricercate e scelte dall’editore in persona; lo sapeva già e gli piaceva molto quella con l’amorino in primo piano che stavamo mandando in stampa con il libro in uscita, ma voleva una modifica e non voleva essere frainteso. Gli era piaciuta anche l’affichette con cui avevamo celebrato il Nobel e non voleva la sua richiesta venisse interpretata come un’intrusione, un’invasione di campo nel lavoro creativo di altri, e mi raccontò il suo desiderio.
Ai tempi del colera, i battelli che solcavano i corsi d’acqua nella foresta, quando avevano a bordo un malato alzavano una bandiera gialla; questo gli era stato raccontato quando era piccolo e questo particolare gli sarebbe piaciuto inserire ‘nel racconto’ che l’illustrazione della copertina evocava – un corso d’acqua in mezzo a vegetazione tropicale, un amorino in agguato in una radura lì accanto – . Ma non voleva invadere il lavoro di altri e mi chiedeva di scegliere insieme a lui come inserire “il barco” che avrebbe potuto figurare in modo naturale nell’illustrazione e come appiccicargli anche la bandiera del colera, però senza ferire chi già aveva lavorato. Con garbo.
Mentre lui mi raccontava i suoi pensieri, io pensavo a quante volte mi era capitato di incontrare persone che non avevano avuto scrupoli a intervenire nel lavoro pensato da altri, fare modifiche, usarlo come proprio, cambiarne il significato …
Una flor para la Carmen
Troppe volte mi ritrovo a leggere con rammarico e un po’ incredula la notizia della scomparsa di qualcuno che ho conosciuto in anni intensi, in casa editrice; del resto una grande casa editrice è un vero e proprio palcoscenico in cui entrano – qualche volta irrompono – i personaggi più diversi. L’altro ieri, quando ho appreso della morte di Carmen Balcells è stato un po’ come se fosse morto un’altra volta Gabriel Garcia Marquez.
Negli uffici dell’agenzia letteraria della Carmen, allo storico indirizzo di Diagonal, avevo incontrato per la prima volta il grande Gabo, che aveva chiesto di vedermi per discutere dal vivo le copertine dei suoi libri (che voleva uguali, in tutto il mondo e in tutte le lingue in cui erano tradotti, a quella che il mio editore gli aveva proposto). Un incontro che aveva eccitato tutta la casa editrice, perché l’autore era stato conquistato, ma nessuno – nemmeno l’editore in persona – l’aveva conosciuto personalmente.
Lui indossava abiti vagamente contadineschi, di un marrone intenso e caldo, come gli occhi, i baffoni, i capelli … tutto, proprio come l’avevo fatto disegnare da un amico, per una bellissima affichette realizzata in occasione del Nobel che gli era stato conferito; era, insomma, esattamente come appariva nella mia immaginazione, o come alcuni dei suoi personaggi.
Ma la Carmen – grandi gonne, toni spenti, capelli raccolti, aria paciosa che non traeva in inganno – era un concentrato di energia, di intelligenza costruttiva, di dinamismo tutt’altro che scontato. Una persona da ascoltare e da guardare fino in fondo, per scoprirne sfumature e filigrana. Una donna che non dava niente per scontato e che dominava i suoi amatissimi autori. Di salute instabile e sguardo attento, mi avrebbe aiutata enormemente, negli anni successivi a fare le scelte giuste per Marquez che si fidava e affidava alla sua intelligenza.
L’ultima volta che l’avevo incontrata, nel suo ufficio sulla Diagonal, ero andata a Barcellona per presentarle la donna che si sarebbe occupata dei suoi autori e ci eravamo salutate con la promessa di una sua visita a Siena, per vedere i paesaggi di questa campagna, “se la salute me lo permetterà”. Una volta di più per imparare che certe promesse vanno coltivate alacremente, se si spera davvero che siano esaudite.
De Gatos se trata
Verso una nuova Gattoterapia, con un pensiero segreto a Sinè e ai suoi gatti.
Quando ho parlato a Gabo Marquez del poeta cubano che avevo ospitato in Toscana a Fonterenza, e delle poesie che aveva dedicato a ognuno di noi (perfino all’incidente d’auto in cui avremmo potuto morire tutti insieme), mi sono impappinata sul nome, che non riuscivo a ricordare; ma quando gli ho citato la poesia gattofila e cosmicamente triste che Pablo Armando Fernandez aveva scritto, al Gabo si illuminarono gli occhi, riconoscendolo come “el hombre electrico!”, sì, un uomo con occhi elettrico-magnetici!
“Si me preguntan: donde està El Dorado? / podrìa responder: Està en el antifaz de Bastet, deidad de los felinos. / y en las siemprevivas, / en una calle alegre entre la flor del agua / y el verano … e poi … Es Zaida entre la yerba / juguetando / a ser la gata eterna / de la luna, / a ser su rìo / que corre / y lento va al encuentro / del gato azul / que colme sus quimeras.
Ho sempre pensato che l’inizio e la chiusa di questa poesia racchiudano la vita vissuta dai gatti, anche quella che essi vivono conto terzi, cioè la nostra vita. Anche se non sono in grado di razionalizzare questo pensiero … Questi versi mi ritornano in mente ogni volta che guardo un gatto e ne osservo comportamenti ed espressioni. E la poesia di Pablo Armando mi è tornata in mente quando ieri ho pubblicato sul mio profilo FB le foto del gattone ‘in carica’ a Fonterenza, il podere che ha emozionato le nostre vite e quelle di molti che ho conosciuto. Di tutti quelli che hanno percepito l’atmosfera speciale e il magnetismo del luogo.
I gatti, che hanno abitato il podere anche più intensamente degli umani fino a intridersi dello spirito del luogo e impersonarlo, sono stati una presenza continua, con sovrapposizioni caotiche (ricordo nidiate frenetiche e invasive, oltre alle mamme gatte, come Frisby, che hanno figliato per anni, spargendo la loro prole nei boschi e nei dintorni, fino a colonizzare parzialmente il vicino paese di Sant’Angelo in Colle). Una quindicina di anni fa c’è anche stato un gatto guercio, di pelo lungo e grigio, che aveva l’abitudine di arrampicarsi addosso ai visitatori, con effusioni imbarazzanti. Poi una pattuglia di gatti ninja, battaglieri e corpulenti, che bussavano sfacciatamente alla piccola finestra che dà sul tetto a nord chiedendo cibo e minacciando ritorsioni con zampate unghiute.
Per diciassette anni è venuto in visita da Milano gatto Abril, cacciatore di topi e ahimè pure di uccelletti, fino a morire vecchio e afflitto da numerosissimi orribili acciacchi ed essere sepolto in un luogo che al momento non svelo. Presenza costante, sentinella del mattino, ombra bianca dotata di poteri speciali, consigliere e consolatore, con un miagolio apparentemente buttato lì commentava un pensiero pensato a occhi chiusi, che magari uno non osava neppure dire a se stesso; ma lui, dotato di telepatia, sapeva. Poi c’è (ancora ne avverto la presenza silenziosa e felpata) Matilde, che ho sempre – nel mio immaginario – associata al realismo magico e alla poetica della Cronica de una muerte anunciada: nera, magra, lustra di pelo, sinuosa, aveva il vezzo camminando sul tetto, di voltarsi a guardarti allontanandosi da te, per poi arrampicarsi sui regoli delle finestre, per chiedere di entrare, magari infastidita (o impaurita ) dai cani che l’hanno inseguita innumerevoli volte in un’interpretazione esagitata e furibonda di entrambi i generi (canino e gattesco). E ora c’è Tom che sta studiando da gatto di famiglia e si lascia fare carezze pesanti da una bimba piccola e curiosa, in attesa di essere acquisito nelle vesti di custode di un suo imminente animalismo.
E mano a mano che ne scrivo – Gatti di Fonterenza – mi appare come un pamphlet (saranno stati una cinquantina, i mici, finora?), pieno di episodi, screzi, avventure, buffonate, tenerezze e magie. De gatos se trata …
Chocolate crossing
L’impatto è così forte, repentino, esteso, da lasciarmi senza fiato. Ma non priva di consapevolezza. E’ stato come se la nebulosa di pensieri che si stavano addensando nella mia testa fosse così sgradevole da farmi perdere le misure della realtà e piombare in terra, come un salame – dicevano quando ero piccola – sei caduta come un salame. E il mio primo pensiero è andato all’appuntamento di lunedì mattina, dopodomani, con impegni precisi (tutto che funzionava come un orologio, nonostante tutto). Tutti i miei pensieri sono rimasti contusi, mentre tre o quattro uomini ciondolavano sul marciapiede di fronte, davanti al circolo Arci, guardandosi bene dall’avvicinarsi – chissà mai che dovessero chinarsi e aiutare ‘una di fora’, passata al team dei vecchi, con l’aggravante di pensare -. E’ un nero intorno alla trentina ad avvicinarsi chiedendomi se mi sono fatta male e se può fare qualcosa. Osservo la giacca in pelle color cacao – un bomber? un chiodo?, mi domando – mentre ascolto le reazioni del mio corpo … il ginocchio destro polarizza la mia attenzione e mi pare il punto più preoccupante, anche ricordando i suoi precedenti . Del ghiaccio, subito, per favore … ah l’arnica per bocca ci vorrebbe; arriva una donna che riconosco, è la barista dell’Arci, e intanto mi domando che fine ha fatto il nero col chiodo (o il bomber) e come mai non torna con un po’ di ghiaccio. E’ a lei che serve il ghiaccio?, mi chiede la barista: io sono ancora seduta sul marciapiede, intanto si è fermata un’auto e una ragazza gentile, con accento dell’est mi promette di rimanere finché mi alzo. Capisco che la barista non si è fidata della richiesta del nero (si sa mai: da loro c’è la guerra, c’è l’Ebola e comunque non capiscono la nostra lingua e nemmeno il nostro modo di fare). Comunque il nero rispunta dal bar, i tipi che ciondolavano si sono percettibilmente avvicinati, forse per capire se ci sarà spettacolo e di che genere, la ragazza dell’est mi strattona piano per convincermi ad alzarmi. Il nero è pragmatico: mi consegna il ghiaccio chiuso in uno shopper bianco, io mi ci tampono il ginocchio mentre sento che mi spunta un bernoccolo in testa; la ragazza dell’est mi consegna le chiavi dell’auto che mi erano sfuggite cadendo.
Mentre i tipi dell’Arci si dondolano con aria assente, mi chiedo se qualcuno mi ha spinta, per cadere così di colpo; ringrazio la ragazza dell’est e mi rimetto faticosamente in piedi. Mi guardo le scarpe che ho acquistato un paio di anni fa a Saint Vincent e capisco che è tempo di buttarle via, anche se paiono ancora buone: sono loro che mi hanno tradita. Penso a quello che mi aveva detto la signora che me le aveva vendute, mettendomi in guardia. Forse le scarpe hanno una vita propria? Credo che solo Nabokov saprebbe descrivere questa scena, cogliendone la dinamica in profondità, con quel modo di guardare fino in fondo l’evolversi delle situazioni, ma solo Marquez sarebbe in grado di rispondere ai pensieri di quelle scarpe e scriverci un racconto.
Camino Real
Fiumi di inchiostro, ma anche di lacrime, lacrime di nostalgia, per un tempo che visto da qui pare ormai irraggiungibile. Un tempo che non tornerà mai più, nemmeno per i figli. Il terremoto in Messico, di cui ho sentito stasera alla radio, con Città del Messico già scossa dalla morte del grande Gabo mi ha fatto tornare in mente la sua raccomandazione per la scelta dell’albergo – “Macché Sheraton, porta ancora i segni dell’ultimo terremoto, ha crepe profonde sessanta centimetri; devi andare al Camino Real, è l’unico albergo sicuro, e ricordati la città è costruita sugli orti galleggianti degli antichi abitanti che vi coltivavano il mais, anzi il teosinte – l’antico grano basico (forse l’equivalente del nostro triticum progenitore del frumento) – ed è su quelle colture interrate che hanno costruito i grattacieli odierni”. Marquez mi guarda dalla maquette posata su una libreria qui accanto; capisco, gurdandolo, che sono troppo impressionata da questa morte divenuta il punto alla fine di una frase. Resta il consiglio: dormire al Camino Real, che è anche un bel nome, reale in tutti i sensi, anche quelli sconsigliati dal buon senso …
Pensieri Piccanti
Mentre la luce calava, per giungere a gustare la saporita pasta di Ilaria, siamo passati attraverso una nutrita (e nutrientissima) batteria di assaggi. Su tutti, tre “frutti dell’orto”, di un orto raffinato e speciale, a mollo nell’olio debitamente affettati, erano lì a ricordarci, in tricolore, che il mondo (vegetale) è ricco e creativo. E straordinariamente piccante.
Mentre la luce calava, filtrando tra le forme di un ricco giardino – pieno di ricordi – in undici eravamo a parlare, tutti insieme. Poteva quasi sembrare un trattato sulle ragioni di una scelta comune, pur diversamente motivata. Mi veniva da pensare che non c’era un toscano che non avrebbe potuto concludere, ascoltando, perché, in tanti, allora abbiamo scelto questa terra, e di quali pensieri, allora, ha arricchito le nostre vite.