Insalata era nell’orto

Chi vive in città non ha elementi per mitizzare il lavoro della terra – produrre cibo e bellezza, sostanzialmente – ; poi quando ti ci avvicini, ti accorgi dei suoi molteplici significati, incluso quello – indimenticabile – del paesaggio. Forse di quest’ultimo dato, noi di città siamo più consapevoli di chi nel paesaggio è vissuto da sempre, e perciò lo trova (doppiamente) naturale.

Poi, quando vieni a stare in campagna, ti riappropri dei sapori delle cose. Io che vivo in una delle campagne più famose del vino, sono tornata a gustarlo (il vino) doppiamente, sia perché tra i duecentocinquanta circa Brunello e Rosso posso scegliere quello che mi somiglia di più, sia perché conosco (e ammiro!) il lavoro della vigna, pur non avendolo praticato.

Penso che per apprezzare fino in fondo il vino e l’olio e gli altri alimenti di cui la terra e gli uomini sono capaci, bisogna avere la conoscenza del lavoro necessario a produrli. E un pomodoro – è quasi banale affermarlo – è tanto più buono se te lo dà l’uomo che ha seminato, innaffiato e zappato, per ottenerlo. E a proposito di semina, ho ancora ricordi di semi messi al sole, per farli asciugare, perché saranno messi nella terra l’anno successivo a quello in cui si è consumato il frutto da cui provengono.

Ma tutto questo non piace all’Europa, che sta studiando una legge per proibire l’uso di semi non acquistati (dagli amici degli amici, I assume) dalle aziende produttrici (ma non è madre natura a produrre i semi?), non solo per prodotti che saranno messi in commercio, ma anche per l’uso nel proprio privatissimo orticello, nel frutteto, nel piccolo campo personale.

Mi sembra che le multinazionali, dopo aver esperito altri settori, abbiano messo gli occhi sul ‘food’, consapevoli che l’informazione sempre più capillare e diffusa sta mettendo ogni cittadino in condizione di scegliere che cosa e come consumare – a partire dal cibo -.

Forse avremo ragioni meno poetiche per canticchiare “maramao” cui non mancava l’insalata (“era nell’orto”), domandandoci “perché sei morto?”, o forse, di questa canzoncina un po’ sciocchina, i produttori di sementi (ma non è Madre Natura a detenere il copyright?) faranno un jingle per uno spot che vende i semi di qualche brand amico degli amici della UE.DSCN5576DSCN5578DSCN5584

Parla del paesaggio, Mariù

“Sì: parla di paesaggio, Mariù, parlamene; dimmi che illusione non è, dimmi che ci pensi anche tu”. Lo canterellavo (mentalmente) durante un pranzo molto cordiale, invitata da un signore che conosce l’uso di mondo e che conosce bene la mia forma mentis; quindi sa di poter contare su di me. Continuava a tornarmi in mente quel popolare refrain, perché intorno al tavolo sedevano altre persone a cui avrei voluto canticchiarlo – con parole mie – nell’imminenza di un seminario importante, in cui tutti loro potrebbero avvantaggiarsi e mettere in bella evidenza il meglio del loro fare.

Pensavo intanto anche al bellissimo libro di John LeCarré (Il Nostro Traditore Tipo Mondadori), un libro che i produttori di vini di alta gamma dovrebbero leggere*, perché è più eloquente di una ricerca motivazionale (ma anche perché è davvero appassionante!). Dentro c’è tutto, e quando scrivo tutto, lo penso davvero. Naturalmente bisogna avere la pazienza di leggerselo, di chiosarlo per bene, e poi farci su una bella riflessione; quel libro spazza via tutte le banalità che possiamo avere in testa (perché Le Carré sa un sacco di cose interessanti). Però bisogna avere la pazienza di leggerlo.

E con il tempo, ho scoperto che spesso i produttori dei vini più straordinari sono impazienti; è davvero paradossale, perché devono subire i capricci del tempo, attendere che venga il bello e sperare che non infierisca; la vite stessa, come tutte le creature dotate di forte personalità (e non servili), fa un po’ i comodi suoi; quando finalmente, dopo tante tribolazioni, come quelle che toccano a un genitore per crescere un figlio – ma concentrate in tre stagioni – esprime sé stessa e riesci finalmente a portare un po’ d’uva giusta in cantina, devi rimetterti in stand by, per capire se (e quando!) si mettono in moto quelle strane entità che fanno girare la testa alla natura e (come direbbero i piemontesi) la mandano “in cimbali”**; insomma, questi signori qui devono davvero esercitare l’arte della pazienza a tutto campo …Il vino racconta

Però poi – quando si tratta di applicarsi a qualcosa che non è strettamente legato alla loro creatività e al vendere, diventano insofferenti e – mi pare – con rare eccezioni non trovano  la pazienza residua per chiudere il cerchio (o l’ellissi) poggiando il loro prezioso nettare su un gradino più alto. Ci pensavo – a Le Carré e a Mariù, e alla bellezza dei paesaggi intorno a Sant’Angelo – durante questo interessante pranzo, pieno di chiacchiere e occhi intensi.

* ne ho una copia e posso prestarla. **così dicono a Cuneo.

Grandina la verità

Cala il sole dopo la grandineLa regola vorrebbe – se ho capito (tuttavia non imparato) bene la lezione – che si stesse zitti. Perché molti pensano che la gente (così genericamente indicata), col tempo, dimentichi.
Perciò se succede qualcosa di sgradevole – ad esempio una grandinata tosta – meglio stare zitti, stringersi nelle spalle, farsi avanti solo se l’eventuale prospettiva di indennizzi, contributi straordinari (di questi tempi?) diventa fondata.
Perciò il tempo è sempre “nella norma”, così pure le temperature medie stagionali (quest’anno sarà davvero dura sostenerlo), l’estate “perfetta”, le precipitazioni solo qualche volta “un po’ al di sopra (o al di sotto) della media”…e così via cantando e fischiettando.
La scarsa frequentazione della letteratura, dei grandi classici, ma anche delle letture d’evasione, toglie da sempre il senso dell’epica all’imprenditore agricolo(con poche eccezioni).
Naturalmente continuo ad esprimere un parere personale, ma lo faccio con profonda convinzione, maturata in anni passati a studiare il messaggio migliore – il più convincente, efficace ed economico – per vendere prodotti (i più disparati, ma con una netta prevalenza di beni e servizi legati a una matrice culturale). E perché me ne rammarico, qui, ora? Ma perché dopo anni di rincorsa al cosiddetto ‘valore aggiunto’ (di cui hanno cianciato plotoni di politici, di pseudo comunicatori, di pseudo giornalisti, di pseudo qualsiasi cosa, purché non si trattasse di un lavoro in cui devi davvero faticare), il senso dell’epico abbonda, quando si ha un rapporto vero con la terra, cioè non mediato da chi lo racconta senza sapere e senza averlo vissuto.

Ogni giorno del contadino, dell’agricoltore, dell’imprenditore agricolo (piccolo o grande che sia) ha il cuore in gola, e già il solo raccontarlo – pianamente – a quelli che la terra la intuiscono da lontano, solo quando gli arriva nel piatto con quello che mangiano, o nel bicchiere con ciò che bevono; raccontarla cioè a quelli che fino a ieri chiamavamo consumatori e oggi ancora non sappiamo bene come chiamare, né come sollecitarne l’attenzione; già il solo raccontare ciò che succede sotto il cielo, vale oro.

Vi siete accorti di quanta sete di verità, di cose autentiche, di concretezza, c’è nelle aspettative della gente? E non pensate che il turista “straniero” sia diverso, cioè uno scemo pronto a farsi raccontare le fiabe, perché non è così. Anche lo “straniero”, soprattutto se gli piace l’Italia, cioè un paese pieno di stimoli culturali apprezza il racconto della verità, soprattutto quando gli comunica come sia stato faticoso e complicato e avventuroso il cammino che abbiamo percorso per mettergli nel bicchiere qualche goccia del nettare sublime che ora sta assaggiando: quello che beve è il lieto fine di un’epica storia.

Il Mese delle Rose e delle Donne Coraggiose.

Dedico queste rose, mandate a memoria in uno di questi giorni – in questo maggio pazzesco – fradice di pioggia, sbattute dal vento, eppure lì, impavide a fare il loro mestiere di rose, che abbelliscono i poggi, frammiste al cisto e alle sorgenti ginestre, e ai timidi gladioli selvatici; le dedico a tre donne inglesi. Una si chiama Ingrid Loyau-Kennett, delle altre due non conosco il nome, ma so quello che hanno fatto le tre donne coraggiose. Hanno affrontato i terroristi armati (coperti del sangue del soldato che avevano appena massacrato) hanno cercato di soccorrere la vittima e hanno parlato con gli assassini, affrontandoli con calma e con un pensiero in mente – un unico pensiero – “meglio che succeda a me, piuttosto che ai bambini che stanno uscendo da scuola, qui accanto”. Questo pensiero, che è l’essenza della solidarietà, è esattamente agli antipodi dello sguardo opaco dei due uomini sfuggiti ai primi due assalti dell’osceno picconatore di Milano. Sfuggiti all’assalto, soccorsi, barricati poi nel tepore delle loro case, invece di preoccuparsi di chi avrebbe potuto trovarsi sul percorso dell’orrido Kabobo, non hanno dato l’allarme, magari ritenendo di “risparmiarsi una grana” e giustificando l’omissione con lo choc.

Si tratta, non solo di due pensieri diversi, ma anche di due modi diametralmente opposti di stare al mondo e di vivere la propria vita. Chissà perché, i giornali hanno parlato – giustamente – del coraggio delle tre donne, ma non si sono soffermati sull’indifferenza – o la paura, o la viltà – dei due uomini aggrediti e sfuggiti all’aggressione del picconatore. Non mi stupisce il coraggio solidale delle tre donne inglesi; mi allarma la reazione egoistica dei due sopravvissuti di Milano.

rosa canina

Il Talismano di Montalcino ce lo dà Adriano

Camminare, correre, marciare, ma anche passeggiare e vagare, guardando boschi, ulivi, vigne e campagna: il vero Talismano di Montalcino.

Ripesco tra le carte rimescolate da un trasloco più laborioso del previsto, una scheda manoscritta, arrivata sul mio tavolo indirettamente (ma non per questo l’ho trovata meno gradita); la scheda è intestata Adriano Brunelli e da lui anche siglata.

Mi hanno colpito – molto – la perorazione che segue a date di vittorie e risultati comunque molto significativi, conseguiti da Adriano Brunelli, e poi l’amore e la passione che vi si intuiscono. Brunelli è un podista, Brunelli è un montalcinese affezionato alla sua terra, Brunelli ha un nipote a cui evidentemente vuole molto bene, Brunelli sta anche meditando (obtorto collo) di appendere le scarpette a un chiodo, per – diciamo così – raggiunti limiti di età. Intendiamoci, al chiodo, il Brunelli Adriano, ci appende le scarpette che indossa per gareggiare, ma non credo proprio che abbia intenzione di mettersi in poltrona a fumare la pipa…

Leggiamo infatti il messaggio che dedica al nipote:” ...vorrei semplicemente dire, confermare, trasmettere, in primis al mio nipotino, che correre, camminare, marciare, nei nostri boschi e nelle nostre campagne, facendo attività sportiva costante – meglio se non agonistica, fa bene, decisamente bene!!! Indipendentemente da quello che la vita ci riserva o ci riserverà, sia come salute che come ‘percorso’, camminare e correre nei nostri boschi e nelle nostre campagne aiuta e fa bene comunque…”.

Un piccolo motivo di soddisfazione per una come me, che ha potuto sentire  personalmente quanto sia vero il detto “muovere il culo per muovere le idee” creato da un famoso terapeuta.

Ma soddisfazione ulteriore mi viene dal constatare come un montalcinese docg – e non una gallina faraona qualsiasi – ritrovi nell’essenza della sua terra stimoli mentali e morali, piacere e passione, tali da volerli comunicare al nipotino, a garanzia e auspicio per una vita migliore.

Insomma l’Adriano Brunelli ci consegna il vero talismano di Montalcino: boschi, colline, natura invidiabile – da tutelare e valorizzare – da dedicare a chi ha il vero privilegio di capirla, traendone così pensieri buoni e belli, un talismano per la vita, capace di migliorarla anche in tempi più bui!

E se Adriano Brunelli lo dice al nipotino, ci sarà pure una buona ragione!

Vipera sarà lei

Spiace mostrarla così, nello squallore della morte. Ma mostrarla è importante, perché questa è una delle forme più comuni della vipera nostrana – vipera Ursinii, o dell’Orsini, che la studiò un secolo fa – .Piccina, con tutte le caratteristiche della sua specie (coda che si rastrema bruscamente, mandibola marcata, testa triangolare e un’elegante livrea beige e caffélatte, adatta a mimetizzarla tra le pietre.

Era venuta in visita, o addirittura era nativa di Sant’Angelo, dove si possono trovare numerosi anfratti idonei ad accoglierla. Dicono che il suo morso – certo non benefico – non sia eccessivamente pericoloso, tuttavia è meglio evitare l’esperienza. In ogni caso è una creatura timida che rifugge i contatti con gli umani. Questa ha, invece, incontrato l’uomo della sua vita, che l’ha uccisa. Forse l’avrei fatto anch’io, forse no; bastava prendere un rametto e agganciarla, poi lanciarla nel paesaggio sottostante e lasciare che emigrasse altrove, a nutrirsi di topi e ranocchi (e lucertole).

Molti anni fa, le prime volte che ho visitato questi luoghi, la natura era assai più selvatica. A parte gli insetti enormi, mai visti prima, tra cui un tipo di vedova nera tipico proprio di questo versante, ho incontrato serpi e serpenti di svariati tipi; ho potuto imparare i nomi con cui i locali li chiamano, e apprezzarne le diversità.

Fino ad allora l’idea di serpe era abbastanza aliena, sconosciuta perciò spaventosa, ma frequentando la campagna e i contadini – e in seguito osservando le mie figlie che hanno confidenza con gli animali (tutti!) – ho imparato a guardare serenamente anche le creature che strisciano, vipere incluse. Di solito assai meno pericolose degli uomini (e delle donne).visitorviperetta gentilevipera sarà lei

Assalto all’arma bianca

Mentre la mediocrità della politica lascia per metà esterrefatti e per l’altra esasperati, ogni tanto qualcuno evoca Bava Beccaris e i fatti di Milano. Un’evocazione sinistra e magari inutile; la mancanza di idee di questi uomini che ci propongono quotidiane polemiche sui comportamenti – di “destra” e di “sinistra” (ammesso che queste catalogazioni abbiano ancora un senso) – anziché deprimere mi fa scattare la voglia di fare. Saranno le mie ave operose a muovere questi sentimenti? Conservo – esattamente come gli argenti, con lo stesso riguardo – gli strumenti del fare quotidiano che stavano nella cucina di casa mia. Rappresentano ai miei occhi quel fare giorno dopo giorno che rende esperti, artigiani, artisti. Prodromo del “foodfashionfurniture“, cuore del made in Italy qualche volta storpiato, qualche volta un po’ tradito. Questi sono i veri attrezzi per assaltare all’arma bianca e sbarcare alla conquista dell’universo mondo.armi bianche
strumento

L’insostenibile pesantezza. Del gas.

Alti, sulla campagna, si son levati mugugni – divisivi e un po’ esasperati – nell’apprendere che tra i vantaggi della vita rurale non si può annoverare la ‘sostenibilità’, almeno non quella energetica, o almeno non per ciò che riguarda i cittadini. Scoprire che il costo del gas per riscaldarsi, cucinare e lavarsi(!) è di sei volte circa quello che si paga mediamente in altri luoghi, per le stesse bisogne, dà l’idea di essere finiti in Nuova Zelanda.
Di esservi finiti, non in quanto emigranti, in fuga alla ricerca di posti di lavoro o semplicemente di un sistema partitico e politico meno avidi e arroganti, bensì di essersi già reincarnati (da vivi) in una pecora e di stare tra le mani di un tosatore in un ‘corral’ di quei luoghi (forse meno belli, ma magari più sereni dell’Italia contemporanea).
Inoltre, essere colti dal sospetto (gente di malafede, siamo!) che l’azienda erogatrice di tale costosa (sebbene volatile) sostanza sia una delle fin troppo famose “partecipate” (quelle che costituiscono il vero costo della politica), magari presieduta da qualche persona vocata a presiedere la qualsiasi, mette davvero di cattivo umore; e non avevamo bisogno di queste consapevolezze per deprimerci e per aver voglia di emigrare (almeno sei mesi e un giorno all’anno in qualche ameno paese, dove le tasse incidono meno, ovvero il giusto) prendendo la residenza là dove conviene di più, eludendo il fisco nostrano, come fanno tantissimi personaggi più o meno di spicco (e magari addirittura in odore di governo), tanto chi vuoi che vada a sindacare dove sei residente?

Sì, mi rendo conto, il periodo è un po’ lungo, ma anche l’impudenza di cui si fa cenno è tanta, troppa, Dà l’idea che comunque non sia possibile sfuggire a questa tentacolare caccia al soldo, praticata ovunque, ma nella rarefazione campagnola più visibile e vistosa. Di certo non lascia percepire quell’afflato nei confronti dei cittadini e quella preoccupazione per il loro benessere che vengono spesi, da destra a sinistra, con sovrana indifferenza verso il concetto di corrispondenza dei fatti rispetto agli annunci. Perché di leggero, qui oggi, di sostenibile, vi son solo le parole.

Un’altra Abbazia, un altro tempo

Quando ho letto della trasferta in Abbazia, di questo strano governo, mi son venute in mente delle immagini – piuttosto buffe, nonostante tutto – di matrimoni in crisi, con coppie che fanno un viaggetto per tentare di superare la noia (o il disgusto?) dell’unione che non funziona, alla ricerca di un diversivo improbabile, per sanare contrasti insanabili.

Conosco i luoghi, che hanno un loro charme e poi sono politicamente corretti; pare che la Toscana abbia una funzione taumaturgica, o almeno tale dote le viene attribuita. Ci sono cose, però che ho trovato ‘disturbanti’, a cominciare dal tone of voice con cui si esprime il luogo dell’auspicabile miracolo.

Cominciamo con il nome – Abbazia -. Mi pare che quel luogo non lo sia più, ma che sia (o aspiri a essere) una sede per convegni o per attività residenziali (mi ritorna in mente il programma europeo chiamato “Convention Bureau“, finanziato dall’EU, e un po’ maliziosamente – lo ammetto – mi sono chiesta se la proprietà vi ha attinto).

Perché mi faccio queste domande? Semplice: sento blaterare quotidianamente di turismo e benefici economici di cui esso sarebbe foriero; poi osservo gli arredi, le ambientazioni, il ‘restauro’ (ristrutturazione?) di Spineta e ci ritrovo le stesse banalizzazioni che mi è capitato di incontrare nei luoghi la cui gestione era finita nel giro della politica. Dovunque la stessa assenza di visione – né carne, né pesce -, la stessa incapacità di essere altro, se non un luogo da parvenu, esattamente come gli ospiti pervenuti, pur prendendo atto delle ovvie eccezioni.

Questi pensieri vaganti mi hanno riportato il ricordo di ben altri anni e di altre crisi – che parevano meno fasulle e spudorate di quella che ci stanno facendo vivere -; i primi anni settanta, quelli della crisi energetica, quando – forse grazie all’età giovane – tutto sembrava più trasparente e meno asimmetrico.

Allora lavoravo in pubblicità, che allora era un settore brillante, dove si sfornavano idee (ma non a casaccio), e già allora l’Italia era un paese arretrato, rispetto alla comunicazione, soprattutto per assenza di cultura, di istruzione e di formazione professionale. Chi aveva la fortuna di lavorare in un ambiente internazionale, acquisiva più strumenti specifici e generali, e poteva toccare con mano la situazione di miopia generale in cui versava l’imprenditoria (anestetizzata da finanziamenti pubblici e da intrallazzi con la politica).

Una delle circostanze in cui – da italiana – dovetti fare i conti con la mentalità paesana del nostro paese e l’urgenza di mettersi a lavorare diversamente, fu proprio durante un seminario che Philips – la multinazionale di cui ero uno dei direttori creativi in un’agenzia europea – organizzò, per alzare il livello di integrazione delle politiche di marketing tra le aziende (conglomerate) del proprio gruppo.

Innanzi tutto la sede: un’Abbazia cistercense – vera e funzionante (ricordo la grande biblioteca) – l’Abbazia di Royaumont, fondata da San Luigi, condotta da una fondazione creata da una coppia di mecenati (Isabel e Henry Gouin) per promuovere il progresso delle scienze umane; sostenuta da eminenti personalità che lo facevano per passione civile e pro bono (!).

Poi gli ambienti e l’accoglienza: monacali ed efficienti. La mensa: o mangi la minestra o salti anche se non dalla finestra. Infine il lavoro: sereno e ben ritmato.

Che c’entra questo scarno ricordo autobiografico con lo “spogliatoio” del governo? Poco, anzi niente. Quello che mi turba è toccare la pochezza di questa gita fuori porta con litigio: organizzata per acquisire sintonia(?), conoscenza reciproca(?), oppure  – in mancanza di ben altre concretezze pure urgenti – per far fare due chiacchiere al bar sport (di berlusconiana memoria) ai poveri cittadini che non sanno più per che santo voteranno?

Nel frattempo i marines sono sbarcati a Sigonella e mi pare che stia per alzarsi il sipario su un’ulteriore tragicommedia.

Invito a Pranzo con Morellino

Per una che ha passato un bel po’ della propria vita tra un vernissage e un pranzo (per motivi di lavoro e non per scelta), far la figura della ‘morta di fame’ è piuttosto paradossale. Ma succede ogni volta che giunge un invito da Francesca Colombini e per non sfigurare troppo, mi autodenuncio, preventivamente. Perché a casa di Francesca il cibo ha un tocco particolare.

Si assaggia la tradizione, ma raffinata dall’uso di famiglia; una famiglia che viene da lontano. A cominciare dal luogo in cui mi reco – uno dei primi che ho conosciuto a Montalcino, quasi quarant’anni fa -, qui tutto viene da lontano. La strada che coincide con un ramo della via Francigena (anche se non lo sai, capisci che di lì son passati in molti passati in molti, e non per caso). Strada di crinale, uno dei luoghi in cui sento nel profondo di essere in Toscana e la cosa ha un senso – per me, milanese di ritorno, e incallita -,  quasi una vibrazione.

Il cibo, come sempre, è semplice e intenso: ravioli ripieni di erba squisita (la mia domanda, ammetto un po’ inopportuna “fatti in casa?”, è ricambiata con un’occhiataccia); polpettine (potrei persino junghianamente pensare alla sincronicità tanto mi richiamano i mondeghili di meneghina memoria) e salsiccioli appena vestiti con una lieve semi-bechamelle profumata e non invadente) e un contorno che sarebbe già un piatto a sé – una macedonia di verdurine di bella presenza e gusto fine, più zucchini fritti ma morbidi). Insomma, una goduria. Frutta+caffè.

E poi, ovviamente, il vino:prima-durante-dopo, come mi accade quando (raramente, perché vivo sola e sola non bevo) bevo. Meno male che mi ero preventivamente autodenunciata.

Infine mi sono trattenuta, dal trattenermi a cena; così, almeno, speriamo che me la cavo, senza rimetterci la faccia!interno, ora di pranzomorellino al davanzaleconversazioneIl vino raccontavicino e lontano