La mattinata si annunciava pallosissima: ben due professori universitari e tre tecnici di un’azienda specializzatissima. Più giornalista romano de Roma che avrebbe introdotto gli interventi (e chissà che sicumera!). La stanzona era già piena zeppa alle nove – che era sì l’ora d’inizio, ma non vuol dire – tutti o quasi puntualissimi. Poco cazzeggio e alcuni utili convenevoli.
Alle nove e trenta si parte e il viaggio nel vigneto, con digressioni varie, spegne persino i sussurri. Io mi perdo, perché mentre questi parlano, spiegano e raccontano, e poi alla fine tornano da capo per un lieto fine – o quasi – della bio storia, i miei piedi, subito seguiti dalla mia testa stanno calpestando ghiaia, pozzanghere, erba, stralci, il bordo del bosco, la radura pallida di brina e crocchiante, le foglie fradice che si sfanno nella terra, rametti e briciole di resti organici; deiezioni piccine, impronte, fili solitari di erba ingiallita, qualche fiore coraggioso, ghiande semisfatte, le foglie cesellate della quercia venute da lontano, quelle del fico (così profumate che paiono Penhaligon’s), brandelli di corteccia scarnificata dalle intemperie. Poi fango che si incolla nel Vibram, portando con sé pezzettini di vita – questo lo sapevo da sempre! – in una transumanza senza stagioni … Si affaccia nella mia testa un lombrico che fa ciao con una visibile mano; sciamano altri protozoi, qualche coleottero semi addormentato, intuisco funghi che sospirano e batteri che squittiscono sommessamente. E’ la storia naturale, quella imparata dalla prof Grandori, al liceo; uscita dalla teoria e sciorinata in slides commentate da uomini passionali che ci tengono con il fiato sospeso – tra un rischio e una storia d’amore; tra una trappola e un richiamo, per un disordine sessuale dichiarato senza reticenze -.
E’, finalmente, la biodiversità, la natura perfetta che pare imperfetta: insetti a iosa che mi ricordano un altro tempo; quello della mia gioventù cittadina, quando tutto questo mi faceva schifo e mi pareva sporco; quando la terra non esisteva nel mio immaginario, se non nei quadri e negli affreschi – debitamente sublimata, pettinata e divenuta scenario, decoro, ornamento pastellato -.
Il fotogramma si è ribaltato (non è una dissolvenza, è un vero e proprio stacco) va di scena la campagna, quella che ora l’altra metà (abbondante) d’Italia inizia a percepire – ma non chiaramente e non nei suoi ritmi veri – leggendo le pagine dei quotidiani o in tv, con le infinite pippe su cibo, vino e dintorni; tenute, scritte e filmate senza sapere chi abita lì sotto – tra le radici della vigna, ai piedi del fico, sotto il sottobosco, dentro quei buchetti nella terra, tra un filo d’erba quasi blu e un rametto secco che no, invece è la muta di una creatura … Guarda dove metti i piedi e ascolta questi suoni che salgono da lì sotto, se vuoi sentire la voce di chi ci abita e conoscere la sua storia.