La scena si apre su una sfilata di Armani. Siamo in via Borgonuovo e tutto è bianco: il colore dei grandi pannelli fluttuanti creano quinte suggestive che saranno il fondale della sfilata. Non era un ambiente che frequentavo normalmente, anche se modelle e fotografi – grandi, grandissimi fotografi; belle e famosissime modelle – facevano parte della mia vita professionale.
L’invito alla sfilata mi era arrivato direttamente da Giorgio Armani, dopo un incontro a cinque – con Leonardo Mondadori, Gianpaolo Fabris, Armani e Ilaria Marvelli – al Saint Andrews.
L’idea di incontrare Armani me l’aveva suggerita Fabris, il cui monitor di ricerche analizzava il mercato anche per conto del designer stilista.
Allora, con Leonardo, eravamo alla ricerca di un testimonial significativo per far leggere di più un pubblico a cui volevamo far leggere i nostri libri. Fabris aveva organizzato la colazione per farci conoscere.
Così era nato l’invito alla sfilata. Quella sera avevo conosciuto anche Gillo Dorfles: vestito di quasi bianco, era il più elegante tra tutti; avevo letto “Kitsch”, avevo vissuto a lungo tra i designer che più ammiravo. Dorfles era testimone e attore di un momento sorgivo. Era vecchio, bello, e sprizzava intelligenza.
Questa mattina al risveglio, mi è tornato in mente quell’incontro; motore del ricordo è la morte – quella di Dorfles, dopo una vita lunghissima e fertile -, ma soprattutto, un articolo di “Internazionale” sull’invecchiamento. L’articolo finisce in modo così macabro e raccapricciante che ho voltato rapidamente la pagina per non rileggere l’ultimo paragrafo e non perdere di vista il senso della vita quotidiana.
Nel dormiveglia, chissà perché, insieme alla sfilata di Armani – forse per via del bianco? – mi è venuto in mente anche il dolce millefoglie: quello con la crema tra gli strati e lo zucchero al velo.
La millefoglie è un dolce della mia infanzia: mi piaceva molto e, nel ricordo, mi pare che fosse difficile da mangiare, e che mi piacesse anche per quel motivo. Tra gli stati di pasta croccante che si sfaldavano e si sbriciolavano c’era la crema pasticcera che fuoriusciva quando la forchetta li premeva tagliando il pezzetto di dolce, e il più lieve sospiro di impazienza (o uno sbuffo di risata) sollevava una nuvoletta bianca dallo zucchero al velo che ricopriva la pasta. Mangiare la pasta sfoglia era un esercizio di equilibrio, ma il premio era sublime. Un pensiero da un’educazione cattolica?
Oppure l’avvio di un nuovo esercizio di equilibrio, in cui ricollocare ricordi e futuro, mentre cammino sotto il cielo velato, prima della Via Lattea.
Archivio mensile:Marzo 2018
Come Renzi è vestito di blu
La giornata è iniziata abbastanza presto, aprendo “Colorama”, un libro acquistato mesi fa sul filo di un’intuizione che mi aspettavo andasse delusa, invece eccomi qui a leggere, con pazienza e interesse, pagine e pagine che mi dicono a volte cose che pensavo, altre che immaginavo, altre che mi spiegano qualcosa che stava in un angolo della mia mente. Mi impunto su due date che riguardano un signore chiamato Chevreul, che lavorava alle manifatture Gobelins nel 1824; nascita e morte di costui non mi convincono e penso ci sia un refuso (1786-1889!), poi controllerò, ma non so ancora dove. Perché il nome di costui, nel libro, viene dopo quello di Goethe e della sua “Teoria dei Colori”. Goethe lo conosciamo tutti (o quasi), Chevreul invece è un chimico che dirige quelle manifatture rinomate e si collega a Goethe perché razionalizza la nomenclatura dei colori e la possibilità di riconoscerli, partendo proprio da quella teoria.
Colorama è un bellissimo libro; non so trovare un altro modo, meno banale, per dire quanto ricco di notizie, spunti, informazioni, legami che vanno in profondità. Penso che sono molte, tra le persone che conosco, quelle che con la sua lettura arricchirebbero i propri pensieri, o la propria professione, o il proprio sguardo sugli altri.
Rimando la verifica anagrafica e passo al capitolo successivo: “Blu Bovary”. Per una di quelle strane associazioni che a volte fanno partire immagini che si fondono una nell’altra, leggo il titolo e mi viene in mente Matteo Renzi, anche se ha davvero proprio poco a che fare con la figura della Principessa de Broglie che è raffigurata nel libro – vestita di un sobrio e sontuoso abito blu (che io chiamerei bleu roi) – per illustrare il significato di quel colore nella tormentata esistenza di Emma Bovary. Ma torna Renzi e mi pare che la sua immagine si sovrapponga di continuo nel mio vagare nel blu, perché nel suo vestiario il blu abbonda; direi che il blu pavone (appena un po’ più acceso dei blu d’ordinanza ministeriale) è decisamente protagonista. Su Colorama ho letto le associazioni al colore blu – “Ombra, Scuro, Debolezza, Lontananza, Alcalino, Attrazione, Privazione” – e mi viene in mente che si potrebbe tentare un oroscopo. Di certo Rob Brezsny ce la farebbe e tirerebbe fuori qualcosa di brillante.
Questa mattina ho dovuto abbandonare il libro per andare all’appuntamento con la mia fisioterapista, e mentre mi ci recavo – guidando in mezzo alla campagna – mi ritornava in mente il blu di quel vestito, quello della Principessa de Broglie, in un quadro che mi pare sia di Ingres. E’ un colore così denso che ti ci potresti tuffare, come un inchiostro con cui scrivere, un colore per evocare ricordi. Era il 1971, stavo sdraiata sul letto, in via Sismondi; la camera l’avevo dipinta io, di blu – tutto era di quel blu -, sul letto dondolava piano un’enorme sfera candida di carta giapponese; fuori c’era il silenzio di una domenica pomeriggio; come quando è primavera a Milano, tutto era tiepido e luminoso, la porta-finestra aperta sul balcone.Tutto era molto più tiepido dell’aria di questo marzo che pare una primavera precoce (nonostante l’inverno che vuole le sue rivincite), ma la suggestione del colore è forte, più forte di questo clima incerto. Allora il suono secco, come di un ramo che si spezza, aveva rotto il silenzio mentre sulla parete blu, di fronte a me, nel blu si apriva una stella bianca, un disegno smagliante e irregolare, al cui centro luccicava qualcosa di scuro.
In una stanza buia, tre secoli prima, Isaac Newton aveva catturato con un prisma un sottile raggio di luce e, scomponendolo in un arcobaleno, l’aveva proiettato sulla parete di fronte, colorandola di tutti i colori.
Qui, un cretino imitando le brigate rosse, aveva squarciato la mia parete blu con una carabina calibro ventidue.