La vita in sogno

Il teatro è tutto rivestito di tarsie in legno pregiato: un bel disegno a losanghe di sapore solidamente borghese, come gli arredamenti di questo periodo. Non c’è moltissima gente, ma è sufficientemente pieno. Il brusio è lieve e non fastidioso; percorro tutto il perimetro esterno – intorno ai due ordini di poltrone – accompagnando un piccolo gruppo di visitatori di riguardo che mi hanno fatto un’improvvisata.

Uno di essi è particolarmente attento all’ambiente, come è sempre stato interessato a tutto quello che ho fatto. Siamo invecchiati entrambi, con consapevolezza. Nel gruppo c’è anche un altro testimone di riunioni e anche di feste in casa di amici di tutti, ma io sono più colpita dalla presenza di chi mi stava accanto un giorno (d’autunno?), nella mia città improvvisamente sconvolta da un crollo di un intero palazzo, in viale Monza. E’ successo in seguito allo scoppio di una bombola, o di una perdita, di gas.

E’ pomeriggio, per fortuna, in orario d’ufficio, perciò molti sono al lavoro e per questo si salvano. Il traffico è sconvolto e c’è un blackout intermittente delle centrali telefoniche sovraccariche: anche il mio cellulare non funziona. Ho una riunione, dovrei rientrare in ufficio e sono in ritardo. L’uomo che mi accompagnava (e che è venuto a trovarmi nel teatro) è partecipe della mia ansia. Finalmente riesco a chiamare la mia segretaria che risponde subito chiamandomi ingegnere e dicendomi che la signora non c’è, che ci sono anche altre persone che l’aspettano.

Riesco a visualizzare la segreteria del mio ufficio, con il divano di Scarpa e il pannello dove ho fatto riprodurre tutti insieme i vecchi simboli delle collane editoriali; la scrivania con l’intrepida Giuditta, con la sua voce gentile e la mania (condivisa) per l’italiano nitido, che scrive impeccabilmente e sa anche riconoscere una trappola mortale, pure se chi la costruisce è un professionista del settore.

La giacca blu di gabardine di quel pomeriggio ora è appesa fuori dall’armadio; è ancora impeccabile ma troppo leggera per essere indossata in questa stagione. La guardo come un reduce di guerra osserva la divisa indossata durante una battaglia impegnativa, da cui è uscito vivo. La indosso scrutando nello specchio i movimenti di quel pomeriggio di fuoco, ricordando che prima di entrare nella sala riunioni l’avevo allacciata, per sentirla ben stretta in vita; e poi gli scoppi, il fumo, la silenziosa rissa mortale.

Svanimenti

Ho ascoltato con interesse oggi alla radio, mentre guidavo in val d’Orcia e adiacenze, un manipolo di scrittori del Nordest parlare della scomparsa del paesaggioDSCN8649 nel Veneto – un paesaggio rinomato costellato di ville patrizie (tra cui quelle palladiane); e qualcuno diceva pure che la risulta di un’industrializzazione fatta senza pianificazione e senza valutare gli effetti che avrebbe avuto sul paesaggio (con ricadute drammatiche in diversi ambiti), dovrà essere recuperata – deve essere recuperata, dai cittadini delle nuove generazioni … I ragionamenti e la discussione erano tutti molto interessanti; nel frattempo io attraversavo paesaggi famosi della Toscana meno antropizzata, eppure anche qui segni di scempi permessi da sindaci e da regione. Ma naturalmente qui siamo partiti da una zona e da situazioni di meraviglioso abbandono. Ora, nonostante la crisi e i mutamenti prodotti (o forse proprio a causa di quelli c’è un nuovo incubo, quello della ricerca di risorse “rinnovabili”, cioè energia dalla geotermia. Quello che non si rinnoverà nel caso si dovesse intraprendere quella strada, è proprio questo paesaggio, ancora incompreso dalla politica e dai sindaci

Era notte fonda a Montecarlo

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Accade che dei particolari, magari minuscoli e apparentemente insignificanti, ti si stampino nella memoria, e che riaffiorino – nel mio caso, dopo anni – stimolati da eventi di cui ti pare di aver avuto una qualche premonizione.

Così, questa mattina, mentre il sole si alzava dietro l’Amiata, io camminavo lungo una vigna, rimuginando, ancora presa dagli ultimi filamenti dei sogni e delle visioni notturne; guardavo il piacevole intaglio di tralci e pampini e foglie, mentre la luce si alzava e cambiava il colore alle cose (e ai ricordi e ai sogni stessi). Il rimuginìo si riferiva alla giornata di ieri e mi venivano in mente frasi da ‘Lezione di Tedesco’ (Deutschestunde- Siegfried Lenz) messe in bocca , durante a seconda guerra mondiale, a un poliziotto di campagna, nella Germania hitleriana. La locuzione è pronunciata come una valutazione dell’affidabilità dell’alleato italiano (otto settembre, Badoglio, eccetera): “gli italiani, si sa: tarantella, brillantina”, ed è certamente un riferimento datato. Mi chiedevo allora, dopo la giornata di ieri, quali potrebbero essere i due sostantivi in sostituzione di quelli lì (notte della taranta e gel? No).

Non so perché il disegno delicato delle vigne che si delineavano in controluce associato a quella definizione letta la sera prima, dopo aver ascoltato alla radio il riassunto della giornata al Senato, mi ha fatto letteralmente ‘saltare’ in mente il ricordo di una notte, a Montecarlo, nei primissimi anni ’90, alla fine di una convention di Publitalia: due teste illuminate da un faretto, nel corridoio di quello che allora si chiamava Loews hotel – l’albergone che sta a cavallo del percorso del Gran Premio, con le camere a picco sul mare -.

Eravamo saliti in tre, abbandonando colleghi e investitori pubblicitari ormai esausti dal fiume di parole, di filmati e presentazioni, di trilli e cinguettii delle direttrici dei giornali femminili, dei Mentana ancora giovani e di Fede già vecchio allora e appesantito dal fard. E naturalmente ‘lui’.

Eravamo solo noi tre, tutti alloggiati allo stesso piano: ricordo il disegno della moquette (nei toni del beige e dei bruni) del corridoio, il vestito in cui mi ero strizzata (nero a pois dorati) per l’occasione, gli smoking dei miei compagni d’avventura. Saranno state le due della notte, forse qualcosa di più. Giunti al nostro piano, ci eravamo scambiati uno sguardo ‘triangolare’ – l’uomo dei libri, l’allora direttore del newsmagazine e la sottoscritta -. Uno dei due – interpretando i nostri sguardi e i suoi sentimenti -, non ricordo le parole esatte ma disse all’incirca ci ricorderemo di questo momento, qui cambia tutto o forse tutto è già cambiato, ed è meglio che non ci diciamo altro, perché le parole non basterebbero e poi qui anche la moquette ha le orecchie: meglio andare a dormire. 

Il ricordo è durato per tutta questa giornata – allora la sensazione era quella di essere entrati in un’altra dimensione, surreale – smorzandosi solo sulla scorta di incombenze molto concrete. Sempre di più, le attività molteplici della vendemmia – non tutte così elementari come uno se le immagina – mi appaiono come lo scorrimento di un racconto parallelo a quello che si consuma nelle stanze della politica. Ho sentito alla radio che a Roma c’è in corso una fiera “Making” o qualcosa del genere; un economista piuttosto decente osservava che l’economia della conoscenza è stata fin qui comunemente intesa come l’economia dell’immateriale e che ora bisogna riappropriarsi del mondo materiale e spiegare ai giovani che l’Italia del made in Italy è nata dalla straordinaria manualità biologicamente diffusa tra la gente del nostro paese. Insomma, bisogna dare legittimità e reputazione sociale ai lavori fatti con le mani.  Ma guarda un po’ che matassa di pensieri esce da una vigna vista in controluce…

Gli occhi azzurri di Alberto B.

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Scrivo pensando a ciò che Alberto Bevilacqua avrebbe detto leggendomi, ma lui non può più farlo e ciò mi rende un po’ meno libera, tuttavia. Alberto non era un amico, nemmeno un conoscente, anche se qualche prova di (vera) amicizia da lui l’ho avuta e per conoscerci ci si conosceva molto bene. Ma Alberto era l’Autore, quello con la “A” maiuscola e non perché faceva Alberto, ma per l’ovvia ragione che portava immensi guadagni all’editore. Per questo, quando riuscirono a catturarlo, gli ordini di scuderia furono tassativi e assolutisti: andava assecondato, in tutto e per tutto.

Ma se mi aspettavo un dittatorello isterico e vanitoso – come troppi autori che non conoscono lo specchio, soprattutto quello dell’anima – mi fu dato di ritrovare qualcosa di diverso e non c’è tempo qui, ora, di raccontarlo. I ricordi vanno alla rinfusa, dalla sua conoscenza della banda della Magliana – e i racconti puntuali che ne faceva, le gesta e i caratteri, a chi aveva inclinazione all’ascolto -, al tonno con piselli che mi servì una moglie (slava, mi par di ricordare) a casa sua, a Vigna Clara, una sera di venti e poco più anni or sono. E l’ultima nuotata insieme, all’Argentario, dov’era in vacanza al Pellicano con l’amica di quell’anno 1994; e il consiglio “parla con l’Opus Dei, ti possono aiutare”, in un momento difficile (suggerendo ovviamente anche il nome giusto).

L’amico delle donne, soprattutto delle cento e più mila lettrici degli anni d’oro dell’Italia che non leggeva, amava l’azzurro (come i suoi occhi) e temeva la morte, ma forse più ancora la decadenza fisica – lui che aitante non era, ma poteva vantare mille sfumature di una voce interessante, che sapeva usare e che usava.

Un viaggio a Lily Dale, per lanciare un suo titolo in uscita, mi valse l’incontro con il mondo della spiritualità americana e non solo, ma soprattutto la momentanea guarigione dal mal di schiena, da cui ero stata colpita con l’arrivo di Berlusconi in casa editrice; di quel viaggio a New York, con il consueto nugolo di giornalisti importanti avemmo occasione di parlare anche per altre ragioni, che riguardavano la politica italiana, di cui conosceva praticamente tutti i retroscena.

Tra tante foto, ne ho scovata una del giorno in cui l’ho consolato un po’ della vecchiaia incipiente, rivelandogli che somigliava sempre più a un pittore fiammingo. Gli piacque.

La Forestale mi raggiunge nella Giungla

Sono in quattro, sono gentili, sono efficienti: è il Corpo Forestale dello stato che giunge a casa mia – pure sede di una mia microscopica (ma – presumo a posteriori – sempre più significativa) attività. E’ la Forestale, che fa i richiesti controlli – per conto del Ministero o di altri – nell’ambito ” delle politiche di tutela del Made in Italy“.
Ci tengono, e me lo sottolineano più volte. Sono i Servitori (“s” maiuscola in segno di rispetto) di uno stato che si occupa piuttosto del contorno ( chi ha detto cosa di chi e che cosa ciò può significare per la democrazia) anziché della sostanza, ovvero di che cosa bisogna fare per dare una mano ai cittadini.
Dunque arriva la Forestale, in quel di Sant’Angelo in Colle e mi fa domande per niente imbarazzanti, anzi! Osserva, controlla, chiarisce, risponde evitando abilmente tutto ciò che non è pertinente.
Tutto fila ‘liscio’ come dev’essere, finché il Maresciallo estrae i moduli per il verbale e infila tra due moduli un foglio di carta carbone, “per la copia”.
E’ un salto nel passato del nostro paese – in quello fotografato da Richard Avedon negli anni cinquanta, e pubblicato in Observations (Simon & Schuster, 1958) -.
“Dov’è il tablet, Maresciallo?” gli chiedo senza voler essere insolente (anzi sono accorata); la risposta, amici miei, è nel sorriso dignitoso del suddetto, che si autocensura.
Stamattina telefono a Radiotre e approccio la segreteria raccontando che, mentre tutta l’Italia sta discettando (fino al nostro sfinimento) di Berlusconi – evasore e vittima del giustizialismo – la Guardia Forestale se ne va in giro scrivendo verbali con il supporto tecnico della carta carbone.
“Non capisco che cosa lei voglia dire con ciò”, mi soffia rispondendo la signora di Radiotre. Capisco, solo in questo preciso istante che il paese è davvero senza speranza e che se fossimo nella giungla tutto sarebbe più facile. E penso con ammirazione al Corpo Forestale che fa il proprio lavoro con gli sfridi di qualcosa che è stato.