Quarant’anni dopo

RSCN0648Esco di casa abbastanza presto – ogni mattina o quasi – per avere il privilegio di un “a tu per tu” con il cielo, la natura e il paesaggio. Quest’ultimo è parecchio cambiato rispetto al 1975, anno in cui mi sono meritata la definizione di “strulla di Milano” per aver acquistato un podere ‘in mezzo al nulla’ (che fa rima con ‘strulla’!), un bel podere giusto qui sotto, poco sotto questo borgo incantato nel tempo.

Sono passati più di quarant’anni da quel tempo ed esattamente quarant’anni dalla nascita delle mie figliole secondogenite (seconda e terzogenita, per essere tecnicamente corretti),la cui nascita è avvenuta a Milano – ieri, quarant’anni fa – .

Un tempo che è volato, ma durante il suo volo sono successe molte cose; non tutto quello che è successo è piacevole, Ma tutto è interessante e significativo, e molte cose andrebbero raccontate, perché la memoria è un dono importante senza il quale ci perdiamo di vista.

Raccontare non vuol dire rimpiangere e nemmeno rivangare (che bello questo verbo così agricolo che mi si piazza nel mezzo della frase e la contestualizza in questa stupenda campagna.

IL luogo per raccontare non è questo: questo è un blog, una località utile per assaggini vari e per saggiare come fluisce l’adrenalina, all’idea di sgranare ricordi di fatti avvenuti, di incontri straordinari, del paesaggio che cambia sotto l’egida (e l’impulso) di una trasformazione mossa dal successo di un vino divenuto così famoso da sopraffare quasi la notorietà del comune in cui diviene … Una trasformazione a cui hanno partecipato le due creature nate quarant’anni fa (le gemelle di Fonterenza) che hanno nel frattempo creato una piccola azienda agricola, messo in giro pel mondo la loro etichetta e la firma – Fonterenza – che racconta una storia. La loro e quella dei luoghi.

Un racconto nel racconto dunque; perché i ‘quattro sassi nel nulla che fa rima con strulla’, cioè il vecchio podere – vecchissimo, e non scriverò ‘antico’ trattandosi di aggettivo strausato anche per le banalità più banali – il vecchio podere, dicevo, non si limita a essere una casa, una costruzione in tutta la sua concretezza, ma è soprattutto una storia, storia di luoghi in cui si incastona perfettamente la storia delle due bambine che i luoghi li amano e li hanno amati, riconoscendone i caratteri originali, cioè quello che molti (troppi) pur non conoscendo affatto il significato dell’espressione, ma comprendendo che può significare qualcosa di notevole, chiamano “Genius loci”.

Il Genius loci va di moda un sacco; in realtà vanno di moda tutte le espressioni che raccontano e significano tutto il patrimonio che la povera Italia annovera e troppo spesso si è lasciata convincere a svendere. Non che quelli che usano queste espressioni le pronuncino con accorata consapevolezza; no lo fanno per via del business. A dire la vera verità c’è un bel po’ di gente che ha capito – alcuni (pochi) da sempre – che un paese che viene chiamato belpaese avrà di certo qualche merito in tal senso, ma sono ancora troppo pochi quelli che si rendono conto di quanto costruire in modo volgare e invadente, o sbancare disinvoltamente una collina significa – in verità – violentare il paesaggio. Cioè quella cosa concreta e virtuale (perché il paesaggio ce l’abbiamo anche nella nostra mente!) di inestimabile valore, ma il cui valore (pure monetizzabile, perché una casa in un bel paesaggio vale molto di più di una casa nel piattume) si deteriora, si consuma, si opacizza, se chi amministra e i sodali de cuius non capiscono che devono tutelare il paesaggio come si tutela un’opera d’arte.

Ecco, quando ho fatto gli auguri di compleanno (40!!!) alle mie gemelle ho pensato, con uno sfrizzico d’orgoglio “be’ però questo loro lo capiscono e se lo capiscono c’entra anche un po’ la loro mamma, cioè io”. Quella che invecchia facendo e pensando, con buona pace dei criticoni.

A piedi, a piedi!

DSCN6504Un antidoto all’afa che riduce l’adrenalina a risciacquatura di piatti? Aprire e chiudere la giornata con una bella camminata veloce, incuranti dell’afa (di sera) e del sole che sorge (prima delle sei) al mattino, e ti trafigge gli occhi (occhiali scurissimi, per chi come me non se lo può permettere). Strasudati, via sotto la doccia; cene leggere (verdurine a gogo), notti brevi, ma adrenalina che torna ai livelli normali. Parola d’ordine: alleggerire (alleggerirsi). E con i ristoranti che brulicano di gente, i soliti adoratori del sole che al tramonto si appollaiano sulla sunset Promenade di Sant’Angelo in Colle – direte o penserete voi – con un bicchiere di quello super buono che dondola e rotea in controluce (come un secondo sole, non meno affascinante dell’altro), come si fa a fare il classico ‘passo indietro’ dalle gioie della tavola?

Semplice: ci si convince che è meglio così. Si prende l’abitudine di bere pochissimo ma straordinariamente bene (poi molta acqua); verdurine come sopra e piccoli piatti nutrienti ma di dimensioni molto contenute.

Ma allora sei a dieta?! Nossignori, si gode del poco e i pensieri propedeutici a tali obiettivi non mancano. Si acquisisce il cambiamento profondo e globale, che ci chiede di mutare e interpretare in modo non pietistico, non afflitto, questo nuovo tempo in cui se si vuole ostentare, non si può che esibire una nuova asciuttezza di costumi, di abbigliamento, e forse anche di parole. L’eleganza del ‘poco’ è riservata a chi sa come procedere per sottrazioni: meno mobili, meno suppellettili, meno ornamenti, meno trucco, … meno ciccia.

L’ormai vecchio Latouche ormai sussurra la sua predica, invita a scoprire l’eleganza della (falsa) frugalità, frequentare il tema della condivisione (indispensabile diventare solidali) e giustamente spara sul concetto di ‘crescita sostenibile’ bollandola come una locuzione ipocrita.

Andare a piedi oltre a giovare (v. sopra), a stimolare, ad allenare il corpo (ma soprattutto la mente!) permette di incontrare il mondo vegetale e dialogare con esso. Credo di aver già confessato che parlo con un albero – il fico magico del Ricci – e posso aggiungere ora che il fico mi risponde. Ho sentito sghignazzare qualcuno a questo riguardo, eppure è così. Non sempre gli passo accanto, ma ogni volta non manco di salutarlo e di fargli una carezza. Lui mi guarda e risponde. Una grattatina sulla sua pancia formidabile, poi via, con le adrenaline tutte ben messe a fare una doccia e a leggere qualcosa di fresco e di buon gusto, tipo Alan Bennett. Buona notte.DSCN6505

La vera storia di un addio

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Ci si immagina che chi, come me, non ha fede, non sia toccato dal destino di un luogo ad alto contenuto spirituale, come l’abbazia di Sant’Antimo, che da oltre un mese è al centro di incontri, commenti, versioni diverse.

Ma Sant’Antimo, e la piccola comunità di canonici premostratensi che l’hanno abitata da poche decine d’anni a questa parte, sono (stati) anche per la gente come me, fino a poche settimane fa una presenza speciale, nitida e irradiante, come il saio quasi candido indossato da quei monaci. Troppo carismatica per passare inosservata, la comunità di questi canonici è anche stata per lunghi anni, da queste parti, l’unico tocco di autentica eleganza (se l’eleganza è la capacità di esserci senza apparire, in senso ostentativo, ma lasciando un segno distintivo). Gli uomini angelicati dal saio bianco sono anche stati i testimoni del cambiamento che ha toccato i versanti delle colline, con la crescita di presenze – doviziose, anche se non sempre altrettanto carismatiche – insieme alla crescita di vigneti divenuti famosi, fino alla capacità, ormai acquisita da tutti, di pronunciare la parola ‘bellezza’ (pur dandole un senso economico). I canonici regolari premostratensi sono stati il contrappasso del vino e del suo opulento edonismo, ma sono (anche) divenuti con il tempo un complemento (un completamento, un cerchio che si chiude), pur non essendo astemi. Ora vanno via, lasciando desolata – con quella che è stata definita, dal Corriere della Sera, una fuga -, “per una guerra di proprietà di alcuni locali”, tutta una comunità che in vario modo contava su di loro; e so che il dispiacere è forte.

Lascio però ai giornalisti il compito di offrirci le varie versioni di una verità che pare un Rashomon della val d’Orcia, ma senza Kurosawa alla regia. Mi limito a pensare che forse, paradossalmente, questa non sarà (solo) una fine, ma è (anche) l’inizio. Di qualcosa di nuovo, perché le cose cambiano.

 

Se Brunello ti Strega

In attesa del nuovo che avanza in quella che è già stata battezzata l’Acropoli di Montalcino , obbligata a casa da un malanno, relegata tra libri impilati alla meglio e la cronaca dei quotidiani, vado con la memoria a casa Bellonci, prima ai tempi di Maria, quando pubblicò il suo ultimo libro e la presentazione per pochi (si fa per dire) intimi – non più di duecento, però – avvenne a casa di Leonardo Mondadori, a Milano, in via Donizetti, in mezzo ai quadri del padrone di casa, icone russe comprese. E la Bellonci che passando tra le donne che in editoria non sono (soprattutto non erano) poche aveva un sorriso per tutte e con voce flautata, da vipera gentile, esclamava oh le mie Isabelle.
Era il 1986 e Maria Bellonci aveva appena pubblicato il suo ultimo romanzo e non ebbi più modo di incontrarla. Ma da quei giorni mi restò un rapporto stretto con Annamaria Rimoaldi, fedele custode del pensiero ‘stregato’ di Maria Bellonci.
Divenni una frequentatrice di casa Bellonci, casa affollata di libri e quindi amica della Rimoaldi, che cercava di carpirmi gli umori della casa editrice – sia parlandomi delle debolezze dei miei colleghi del comparto libri (e c’era di che sbrigliarsi in pettegolezzi maliziosi, aneddoti succulenti, illazioni fondate e pure sfondate …), sia svelandomi il backstage del Premio Strega. La casa era tenuta lustra dalla Luigina, prossima ad andarsene in pensione, trattata da Annamaria come un’esserina fragile, con benevolenza, come la gatta, anche lei donna e complice – come solo sanno esserlo i gatti che da sempre si compiacciono di girellare tra i libri (forse in caccia di topi di biblioteca), anzi tra i gatti che hanno condiviso la mia vita ce ne sono pure stati di quelli che giravano le pagine ai libri, mentre io leggevo …
In queste frequentazioni, oltre a capire quali erano i penchant di Annamaria, che proteggeva il figlio del portinaio cercando di fargli guadagnare qualche soldo e aveva tutto un suo giro di protégé meritevoli, tra cui alcuni intellettuali, poco a poco capii che essa (ma pure la Luigina) aveva un debole per i buoni vini, pur non conoscendoli affatto.
Quando capì che la casa che avevo a quel tempo in campagna era in Toscana; e addirittura era in quel luogo di cui aveva sentito parlare vagamente come del luogo in cui si faceva un vino che rischiava di rubare la scena al grande Barolo (che a lei piaceva moltissimo), iniziò a corteggiarmi con discrezione, facendomi domande sulle vigne, su come andava l’agricoltura (di cui ero completamente ignara), e in breve capii che a uno dei prossimi pranzi a due o a tre a cui ero spesso invitata potevo fare un figurone portando una testimonianza ‘in vitro’ delle mie incursioni a Montalcino. Annamaria Rimoaldi era elbana, era stata una competente e appassionata funzionaria del ministero dell’agricoltura e questa qualità ammantava in modo credibile l’interesse per le vigne. Ricordo di averle fatto  recapitare un cartoncino da sei di bottiglie di ottimo Brunello di Montalcino di un’azienda che si chiama Poggione e lei le apprezzò moltissimo. Poi, un giorno, invitata a un ‘pranzone’ le portai un paio di bottiglie di Poggio di Sotto e le raccontai, durante il pranzo, con suo schietto godimento e dei suoi ospiti, delle lepri che girellavano per la vigna del Poggio di Sotto e che attraversavano la strada ai visitatori che guidavano su per l’erta, sicure com’erano che questi fossero Io e il Brunello (ma quello vero!)persone speciali (appassionate di un vino così speciale!). Quante storie da Strega per le leggende del Brunello.

Un mattino d’inverno a Montalcino

DSCN2415Succede che dopo aver passato anni a organizzare incontri tra gente che deve dirsi cose che già sa ma che bisogna mettere in sintonia, oppure cene per accordarsi su fatti riservati che però stanno scritti su certi giornali più giusti di altri, poi un mattino d’inverno a Montalcino mi trovo a percorrere, in auto per essere puntuale, una bella strada che la folla dei partecipanti a Benvenuto Brunello forse non conoscerà mai e il paesaggio la cui bellezza rischia di farmi deragliare fuori strada è, ancora una volta, il compagno di una giornata a Montalcino.

Vado a un incontro organizzato da un signore del vino – “il” signore del vino – il cui nome conosco fin dall’infanzia, quando mio padre – che andava in Piemonte per il vino di casa ed era un appassionato di Barbaresco – mi parlava di quel vino e di quella famiglia.
Guido su questa strada sterrata e tortuosa, ricca di asperità irregolari, che ho percorso infinite volte a piedi godendomi ogni passo, con gli occhi aperti e il respiro profondo di chi – come me – ama (e rimpiange un po’) la città e le sue promesse ma ha scelto la campagna e la vicinanza alla terra quasi come un esilio, ma benefico, una voglia di sbucciarsi l’anima e guardare alla base delle cose, per riprendersi una vita più naturale.

Succede che “una vita più naturale” oggi è in realtà una scelta abbastanza complessa, che comporta pensieri che mettono in risalto continuo contraddizioni e incongruenze: le proprie  e quelle della scelta che si è fatta. Me lo dico mentre guardo la piccola colonna di auto che vedo nel retrovisore, dietro a me, a distanza abbastanza ravvicinata. Mi fermo nell’attraversare le Case Basse perché c’è Gianfranco Soldera in tenuta da vigna – perciò elegantissimo (toni violacei in delicato controcanto con quelli austeri del suo grande vino) – ma non posso indugiare, non per il tempo a disposizione: sono in anticipo, come tutti quelli che seguono, ma appunto per non essere scortese con loro. Mi limito a un saluto, però affettuoso – un saluto che viene da lontano, quando cenavamo al Pozzo, a tavoli diversi e ci conoscevamo appena, entrambi venuto da nord e innamorati di questa campagna – un po’ dispiaciuta di non poter scambiare con lui qualche parola sul tempo (finalmente freddo: è persino nevicato un po’, ma poco gelido).

Scoprirò che i miei pensieri sulle scelte di vita non sono così estranei al piccolo gruppo eterogeneo di convenuti, tutti straordinariamente colloquianti – puntuali e attenti e compresi del futuro di questi luoghi preziosi. “Prezioso” è forse un aggettivo che non ho usato mai per Montalcino, ma la sua campagna, ancora ricca di angoli non piegati alle logiche produttive – a mio modo di vedere spesso troppo indifferenti alla bellezza -, né all’estetica dell’accoglienza che ci si immagina vogliosa di una Toscana mai esistita se non al cinema, oggi lo chiede. Sull’aggettivo “prezioso” Piero Chiara avrebbe avuto da ridire, quando mi somministrava preziosi (appunto!) consigli di scrittura … Piero Chiara, sì, ma in altri tempi, quando il mondo non era ancora abitato da sette miliardi di uomini e ‘viaggiato’ da oltre un miliardo di turisti in perenne movimento.

Ho avuto nostalgia – una volta di più – di Giampaolo Fabris e delle sue (pre)visioni così esatte e puntuali, per tutta la durata delle riflessioni – spesso lucide, sagaci e puntuali – ascoltate per tutta questa mattinata inedita da queste parti; perché i temi affrontati – accoglienza, ma anche ristorazione – giustamente anche con l’occhio e l’esperienza di chi lavora quotidianamente e conosce regole, difficoltà, problemi, complicazioni e prospettive, avrebbero bisogno dello sguardo esperto di un monitor che racconti dove sta girando il mondo – dove va e perché ci va – come e perché cambiano i gusti.

Ancora una volta mi sono tornati in mente gli anni brevi in cui ho visto scegliere, dalla politica, ricerche di mercato fasulle e compiacenti. Qui no: c’è la consapevolezza di uomini  – molti venuti da altrove – di parlare di un luogo “prezioso” (scusa Piero!), che prima ancora di generare profitto, è entrato nel cuore di alcuni, magari mentre guardavano oltre la collina prospiciente, verso il bosco, sopra la vigna spolta, pensando a come era bello quel paesaggio. Una mia (pia) illusione? Non so, non credo. Certo non è mai stata nominata, nemmeno evocata, nemmeno lontanamente. Ma mi pare di avere ascoltato – nelle parole di molti – un fruscio di consapevolezza inedita, il suono di una protagonista innominata, la bellezza, che mormorava al cuore degli ospiti della Pieve di Santa Restituta.

Bambinate a Montalcino. Amarcord

Alzi la mano chi si ricorda di se stesso bambino, pensavo leggendo una notiziola che mi è arrivata on line. Pensiamo ai bimbi, sicuramente ai nostri – figli o nipoti – ma è difficile che uno si ricordi spesso di quando era piccino e di che cosa gli piaceva, che cosa gli mancava, se aveva delle nostalgie. Io penso spesso ai miei figli quando erano piccini e ora guardo con tenerezza le mie piccole nipoti, o i troppo pochi bambini piccoli che vedo nei dintorni. Quando sono in città, i bimbi nel traffico non mi sembrano al centro dei pensieri di chi organizza la vita cittadina, mi paiono più al centro delle preoccupazioni dei genitori quando questi arrancano con passeggini e carrozzine.

Mi sono ricordata della mia infanzia oggi, pensando a com’era diversa la città in cui ho vissuto, o la Francia dov’ero sfollata nella primissima infanzia, con la guerra e le bombe (però in campagna, con le galline, le uova, gli zii, la nonna e i miei genitori che non hanno mai lasciato trapelare le loro angosce di quel periodo tremendo); con le occupazioni militari che si susseguivano e il fronte bellico pericolosamente vicino … Ci pensavo – a quell’infanzia in campagna – leggendo dell’apertura de “La Casa dei Bimbi” a Montalcino, una nuova realtà (che immagino piccina), un nido per i più piccoli. Anche le mie figlie sono andate al nido, quando avevano pochi mesi: da qualche parte ci sono foto che documentano. A quel tempo durava fatica trovare posto al nido, e noi mamme facevamo battaglie perché se ne aprissero di più, perché le donne avevano “diritto” di lavorare (anche fuori casa) …

Una casa dei bimbi è una notizia, magari non eclatante: significa che non si pensa solo al vino. Perché ogni tanto mi ritrovo anch’io, che normalmente non bevo, a ragionare svolgendo i miei pensieri spesso solo tra vigne e vignaioli. E oggi questa piccola notizia ha riaperto la mia finestra sul futuro.DC_25016555

Un incontro a Montalcino

DSCN2515Non solo vino, “quel vino”, mitico, spesso straordinario, talvolta sublime. Se scrivo di un incontro a Montalcino, l’associazione è immediata, invece l’incontro è quello fotografato qui sopra. Un incontro un po’ ‘giapponese’ – forse penso così, per via delle mie passioni (Hiruki, Banana, Mishima e le loro suggestioni di un modo diverso di guardare le ‘cose’)-. No, niente animismo, né ombre o magìa, forse solo un pizzico di oriente che si insinua nel mio occidentalissimo (e un po’ rigido) modo di pensare: un oriente necessario, per i vecchi, massimamente per i vecchi occidentali – abituati a reagire e ad agire con schemi obsoleti -; ma in realtà il mio pensiero, incontrando questo ramoscello portato sui miei passi dal vento gelido che soffia sul primo giorno dell’anno nuovo (spingendolo a forza, mi pare, sulla terra) è stato molto paesano. Un ricordo della recentissima povertà degli abitanti di questo angolo famoso della famosissima Toscana.

Il ricordo me lo suscita proprio questo fuscello da niente e di nessuno. “Eh no, se stava su una proprietà – per vasta che fosse  – raccoglierlo era rischioso, perché il proprietario, o uno dei suoi famigli, aveva da ridire: era suo”. Durante una delle innumerevoli camminate domenicali nella campagna, in compagnia di qualche camminatore locale piuttosto colto (e piuttosto riflessivo), incontrando pezzetti di legno, pigne, frutti selvatici, fichi maturi (quando è la stagione), asparagi selvatici, e tutte le piccole grandi scoperte che si fanno (e che si impara a vedere, andando a piedi), ho avuto questa rivelazione (per me stupefacente, ma poi acquisita e ben digerita).

Fino a qualche decennio fa – si parla del dopoguerra, abbondantemente dopo -, in campagna non circolava denaro, piuttosto ci si arrangiava; i bimbi e i ragazzetti, oltre a lavorare molto precocemente, quando girellavano, avevano sempre cura di tornarsene in casa con legnetti trovati,e altri piccoli beni, utili per accendere il fuoco (Gazprom e Putin non erano ancora stati inventati), o per insaporire un pasto. Ma guai se la cerca avveniva su proprietà privata: si rischiava, mi è parso di capire, anche qualche manata pesante …

Mi è già capitato di riflettere sul significato sociale, ma anche etico e spirituale, di questa realtà che in superficie ora è inintelligibile, ma che (re)esiste nel DNA di tante persone, cresciute dentro questi pensieri che talvolta hanno tarpato il meglio della loro intelligenza – che spesso fa capolino in quello che dicono e nel loro sguardo – e della loro sensibilità.

Mentre mi chinavo per afferrare il ramoscello, prima di pensare che non ho fuoco, in casa, ho cercato di immaginare come avrei fatto a portarmelo via senza farmi cogliere sul fatto dal proprietario del terreno su cui stavo camminando. Zen? No, empatia (o allenamento).

Brunello è meglio

E’ come al cinema, quando vedi una dissolvenza lenta di un’inquadratura con un’altra immagine che affiora al suo posto (dissolvenza incrociata). Così, e neppure molto lentamente, sta cambiando il vissuto della campagna, della vita e del lavoro in campagna e sulla terra; un cambiamento che non è affatto un ritorno alle origini, come parrebbe a una lettura superficiale di quello che – libri, film, saggistica, premi e canzoni – la cultura e l’informazione ci stanno proponendo.

Una mattina di chissà quanti anni fa, vicino a piazza del Campo, mi incontro con Emilio Giannelli che aveva pubblicato un libro delle sue già famose vignette da Mondadori; son trascorsi così tanti anni che fatico a ricordare se l’incontro era pianificato (credo di sì) oppure casuale. Sta di fatto che Giannelli era un autore della Casa Editrice e il mio lavoro prevedeva anche la cura della comunicazione in occasione dell’uscita dei libri … Perciò mi ero ritrovata il libro di Giannelli, alla fine del giro delle dediche, con il disegno di una matita che invece era una bottiglia di Brunello e la scritta “Brunello è meglio!” quale dedica personalizzata. Ma io del Brunello sapevo – a quel tempo – poco o niente; ero solo la felice proprietaria di un bel casale nel comune di Montalcino, anzi era il casale che si stava impadronendo della mia vita e mi tiranneggiava non poco.

In altre parole, nonostante da sempre io amassi la campagna, come luogo dello spirito, da vivere e soprattutto immaginare, non pensavo affatto di andarci a stare; mi piaceva andare, stupirmi, riempirmi gli occhi e la testa (di virgiliane riflessioni) e tornare alle snervanti incombenze (ma così appassionanti) e alle responsabilità che l’Editore mi aveva affidato. Tuttavia, misteriosamente, la pausa che mi concedevo così raramente nutriva la mia vita, la allargava e l’approfondiva, facendomi intravedere significati che anni prima mi erano sfuggiti. Per esempio, ho riletto sul filo di quei vissuti la storia della mia nonna materna – nata in una famiglia borghese e finita proprietaria di un piccolo appezzamento di terra, dove, dopo essere rimasta vedova, aveva cresciuto uno stuolo di figli, allevato animali, coltivato frutti e ortaggi, resistito all’occupazione tedesca – nel sud della Francia -. Sì, insomma dalla terra veniamo tutti quanti e se riusciamo a distaccarci dal riflesso automatico che nella mente della maggior parte di noi la lega all’idea di lavoro troppo faticoso e (fino a pochi anni fa) socialmente emarginante, essa ci può far sentire emozioni oltremodo liberatorie, soprattutto in questi tempi di prevalenza della finanza in un mondo visibilmente più angusto.

Fu sul filo di questo intimo sentire che quando, alcuni anni dopo, mi trovai nell’occasione di acquistare un pezzo di terra in questa campagna, con una buona dose di incoscienza e senza alcuna esitazione, mi ci buttai a corpo morto. Su quella terra ci pascolavano alcune greggi di pecore che ‘rotolavano’ giù per la collina accompagnate dal lavoro frenetico di tre o quattro pastori maremmani e mi sembrava che nulla sarebbe mai cambiato, dal punto di vista scenico.

Ma non voglio tanto raccontare una storia di famiglia (verranno, pochi anni dopo, le mie figlie a costruire lì sopra un pezzo della loro vita), quanto constatare che nei vent’anni che sono trascorsi da quel tempo e da quei vissuti è avvenuto il cambio di fotografia a cui faccio cenno all’inizio del post. Mentre io guardavo la terra con occhio bucolico e la mente piena delle ricerche psicografiche che fotografavano i cambiamenti socioculturali, i vini docg iniziavano una nuova tappa del loro viaggio sui mercati del mondo e nella mente dei loro futuri pubblici di riferimento. Uno in particolare – come aveva scritto Giannelli: “Brunello è meglio!” – sarebbe diventato la bandiera enologica del made in Italy …

Non voglio nemmeno parlare di quel mercato e di quei vini, ma della spinta che essi, con il loro successo, hanno dato a un nuovo sguardo sulla terra (magari inizialmente solo sulla vigna) e sulla vita in campagna. Perché all’inizio ci fu il vino, forse non da solo perché per quelli di città anche gli olivi contavano (si stava scoprendo l’olio extravergine!).

Ma se avete avuto la pazienza di leggere queste righe, ora vorrei concludere facendo un’ultima osservazione. Fare vino, soprattutto un vino famoso – legato più che a un concetto di eleganza all’idea di essere un bene di lusso (purtroppo!)  – ha attratto verso la campagna, e bene o male verso un certo “stile country” nostrano, moltissima gente e soprattutto un bel po’ di soldi. Chi è milanese come chi scrive sa bene quanto “la vigna in Toscana” (ma anche in Piemonte) sia simbolo di stato nel mitico quadrilatero del design e della moda … Ma chi gira nel mondo del vino si sarà anche accorto del profondo mutamento che da alcuni anni ne sta ri-segmentando le preferenze e i consumi; un po’ sbrigativamente si può dire che se una volta (vent’anni fa) parlare di vino bio faceva storcere il naso (e di vini naturali non si parlava per niente), ora si guarda sempre di più al vino come a un (passatemi l’espressione) dono di un terroir, a qualcosa che deve essere figlio di quella vigna e di chi l’ha creata.

Attenzione; non sto parlando di vino in senso enologico, sto facendo delle associazioni con dei vissuti che non ho spazio, in questo contesto, di ampliare e approfondire; ma quello che vorrei sottolineare è il nuovo concetto di campagna, di vita in campagna, di lavoro sulla terra – ora non più obbligatoriamente la vigna – che si sta facendo strada nelle fasce e nei cluster più ‘meditativi’ e critici della nostra società (ma che non è ancora così acquisito dal mondo del vino).

Me ne sono trovata una fotografia puntuale proprio oggi sul Corsera, con il pretesto di una recensione al film (che non ho ancora visto) di Alice Rohrwacher, con il racconto di alcune esperienze di vita quotidiana e lavoro in campagna con “la fatica della terra che convive con la chiavetta Usb per collegarsi al web”. E non è più la testimonianza un po’ modaiola di un nuovo “stile di vita”, bensì il reportage di scelte più sentite nel profondo, meno estetizzanti e più faticose nella pratica, per andare verso qualcosa che si sente come più vero, qualcosa che lascia più spazio ai lati affettivi che le generazioni appena precedenti hanno scansato, in favore di un benessere che ha un po’ irrigidito la loro anima  …

Anche se dietro l’angolo c’è come sempre l’affarismo aggressivo e senza regole – si parla ancora poco di land grabbing, ma è un fenomeno che ha già sconvolto popolazioni dell’Africa – oggi molti giovani e anche molte persone di mezza età che non hanno liquidato il pezzetto di terra dei nonni, lo stanno ritrovando e rivalutando come un luogo di vita e una nuova dimensione da cui provare a vivere con meno. Non so se sia una “decrescita”, o se invece non si tratti di un vero e proprio sguardo nuovo, ma è il vino l’artefice di questa apertura, il nuovo e diverso mercato del vino che con il vecchio (ma recente) modo di viverlo ha ben poco da spartire. “Si beve con la mente” ha constatato e scritto Angelo Gaja. Di certo si beve molto meno ed è un’opportunità per guardare al vino in modo nuovo, e per guardare alla campagna come un luogo per pensare (e immaginare che cosa significherà – per le nostre vite – questo nuovo sguardo sulla terra).

Largo ai polli

DSCN9792Come si è “vecchi” nell’immaginario della gente? Me lo chiedevo stamattina, dopo un caffè al bar in piazza, in questo paesello in cui i vecchi abbondano e sono parecchio variegati, ma l’accezione in cui viene letta la vecchiaia li uniforma (di ogni erba un fascio!), li accomuna in un unico vissuto, accantonandoli come persone che devono stare in disparte.

Me lo sono chiesta, un po’ sorpresa dal ‘giovane’ Marcello a cui ho raccontato che metterò il ritratto dei suoi genitori, che ho disegnato (e mi pare anche piuttosto bello) forse un paio d’anni fa, in un certo libro sul Brunello – ma con un taglio molto particolare (perché io di vino in quanto tale so davvero poco!) – a cui sto lavorando e sulle prime mi è anche sembrato contento, ma poi ha soggiunto, lasciandomi indignata, ma quante cose fai?, devi stare un po’ calma, ne vuoi far troppe …

Confesso sono rimasta sconcertata, sulle prime, poi però ho pensato che il Marcello in questione – essendo ancora giovane e non avendo vissuto che poco della vita che potrà vivere e in cui potrà spaziare – non ha la benché minima idea di quante cose si possano fare, quante idee mettere in campo, quanto lavoro, quanti pensieri sono realizzati da gente che lui (e il buon Matteo Renzi) probabilmente vedono come relitti, come risulta, oppure come persone che dovrebbero starsene quiete, perché sono altri quelli che devono “andare avanti”.

Tutto sommato può essere vero, se la visione del lavoro, degli affetti, della sessualità, della socialità, delle infinite attività umane è limitata; ma non lo è se si riflette a quanti talenti un uomo o – meglio specificare: non si sa mai – una donna possono mettere a disposizione degli altri e quanta esperienza si accumula in una vita.

Perché chi glielo va a dire a Dorfles – con i suoi centoquattro anni e un articolo settimanale sul Corsera – che deve darsi una calmata. E chi sussurrerà a Maurizio Pollini che sarebbe meglio smettesse, che ci sono alcuni pianisti di grande talento a cui deve lasciare spazio(?), o a Chomsky, chi suggerirà di smetterla, a più di ottant’anni, di scrivere e insegnare (ai più giovani) le sue teorie? E Carol Rama non dovrebbe forse smettere di dipingere? E il nostro Napolitano? …

Ma tu – mi pare di sentirlo il Marcello (ma anche i giovanilisti renziani e non) – mica sei una di loro! Infatti no, non lo sono: sono altra, diversa, come ognuno di noi è e ognuno di noi, possedendo talento (qualsiasi talento), esperienza, visione, affettività, deve “esserci” e spenderli, per chi ha occhi, orecchi, sensibilità per capire e imparare, ed energia per prendere il testimone. Attenzione: può non essere banale ed essere pesante da portare!

La finestra di Brunello

Ai (bei?) tempi della pubblicità – quella degna di questo nome, ora in piena evoluzione – come pubblicitari italiani eravamo talmente consapevoli dell’arretratezza del nostro paese, da cercare in continuazione ispirazione e modelli nel mondo anglosassone (solo in un secondo tempo anche nella vicina Francia), per proporre ai nostri clienti – cioè ai clienti delle agenzie in cui lavoravamo – annunci, spot cinema e tv, affissioni, nonché quell’insieme di attività chiamate below the line, degni di strategie avanzate, in grado di cambiare davvero la situazione dei prodotti che ci erano stati affidati.

Commettevamo però due peccati d’ingenuità: il primo era quello di considerare gli imprenditori italiani più maturi e colti di quanto non fossero nella realtà delle cose; ma il secondo era forse più grave, per dei professionisti della comunicazione, ed era quello di dimenticare la totale assenza di sense of humour degli italiani tutti. Sense of humour che era – è ancora – il tono e lo stile della comunicazione anglosassone, a cominciare dalla pubblicità e le consente di non scivolare nella mielosità.

Solo una cultura dotata di molta autoironia, infatti, poteva e può permettersi certi ads e certi messaggi che nel nostro paese così “controverso” sarebbero suonati melensi. A questo riflettevo, pensando all’imminente ouverture di “Benvenuto Brunello”. E mi veniva in mente la pagina di una campagna pubblicitaria (americana) di un’auto che non ricordo (sono passati parecchi anni), con un visual singolare, bellissimo e impossibile, con un messaggio che lo sottolineava. L’immagine infatti ritraeva (alla lettera) fotograficamente, ma con uno stile ‘botticelliano’, la suddetta auto, in un prato fiorito all’inverosimile, sotto un cielo stellato (e con la luna), in cui però trovava posto anche un sole perfetto, in un clima da sogno quale può essere evocato solo da un abile ritoccatore capace di rendere fotograficamente plausibile una situazione di real unreal, e dare corpo ai sogni più straordinari.

Il perché di questo ricordo, apparentemente slegato da questo appuntamento annuale con un vino conosciuto davvero in tutto il mondo (anche solo di nome), è presto detto, ma non altrettanto facilmente. Per abitudine, per deformazione professionale – anche se non lavoro più in quel settore, certe cose mi restano appiccicate – sono abituata a ‘vedere’ istintivamente certi aspetti di luoghi e situazioni, in modo piuttosto immaginifico, e … sì, per me il Brunello è anche un prodotto; ma un prodotto speciale(come un’opera d’autore) da tenere al riparo dalla pubblicità, come tutti i grandi vini (non le marche, però: c’è  differenza, tra le due cose). Perché un grande vino trova “da solo” il suo posto nella nostra immaginazione, inserendosi nel mondo immaginato da ciascuno di noi e in quello di ogni suo potenziale consumatore / conoscitore, in modo singolare e molto personale. Proprio in modo irreale, come fosse evocato da immagini – come quella che ho sommariamente raccontato qui sopra – che danno corpo più a sentimenti (spesso sfuggenti) che a sensazioni organolettiche. Una bottiglia può (proprio come un libro, per esempio) anche essere solo acquistata, per il piacere di possederla, e tenuta lì, magari non per collezionismo. Per pura emozione. Come quella che proviamo ascoltando musica o quando ci affacciamo a una finestra e guardiamo un paesaggio che ci ispira.DSCN8836.