Volere meno: volere la Luna

Siamo stati abituati alla crescita, che poi è diventata sostenibile. Non abbiamo scrupoli a volere la luna, che si sostiene da sola. Ma l’altra sera mi hanno invitato a una riunione, ‘un film già visto’ – ho pensato – ma l’invito era gentile e accattivante, la locandina (rigorosamente via mail) elegante e sobria, il titolo recitava “Il Rinascimento della Campagna” e merita annotarlo.
Il filo delle argomentazioni lo conosco bene, mi è familiare da almeno dieci anni, anche se non ho mai militato; si tratta di rivalutare l’agricoltura, completando quel ribaltamento di visione in atto da anni, ma in netta accelerazione (e allargamento) da qualche mese a questa parte. Da Wendell Berry in poi – forse già le mie letture di Thoreau, fatte durante gli anni dell’adolescenza mi rendono più sensibile (ma anche più scettica, allo stesso tempo) – abbiamo prestato crescente attenzione alla terra. In un certo senso nessuna sorpresa eclatante; si tratta di riguardare la globalizzazione con attenzione a ciò che sta facendo la finanza (un disastro mondiale), recuperare i valori dell’agricoltura, chiedendo (e se è il caso obbligando) la politica a scelte che promuovano davvero la rinascita della ruralità, anziché implementare una burocrazia che fa la cresta sul lavoro dei contadini; si tratta di dare ai giovani una reale alternativa – umana – in termini di lavoro.
L’unica, vera, sorpresa invece: la presenza di un folto e qualificato gruppo di personalità delle amministrazioni pubbliche. Gente che non si muove a caso; gente che annusa il cambiamento e cerca di capire da che parte butta. Un bel segnale, la presenza di questi signori, perché vuole dire che c’è sensibilità e – senza fare sconti a nessuno – si comincia ad avvertire l’effetto di tanti discorsi (alcuni troppo retorici) fatti in tanti anni; alcuni in malafede palese, altri più sinceri, ma ancora lontani dalla possibilità di fare qualcosa. Nell’aria aleggiavano spiriti benevoli – Fukuoka, Steiner, forse Gandhi stesso – più determina(n)ti di quanto può sembrare a prima vista.

Sebben che siamo Donne

È arrivato di nuovo il 23 agosto. Il fratello aspettava due gemelli maschi, Marco e Davide, per metter su la squadra di calcio (debolezze maschili …) e invece sono arrivate loro. Voto massimo in sala parto, perfettamente posizionate come i gemelli zodiacali, nasce prima Margherita, tre chili ascendente Bilancia e l’aria di una che ti darà filo da torcere. Quarantacinque minuti dopo (circa) arriva Francesca – tre chili e 250 – che da podalica che era, mette a frutto il cambio di ascendente (Scorpione) per riposizionarsi (di vertice) risolvendo così una prima grana esistenziale: un buon allenamento per stare in un mondo complicato.
“Sebben che siamo donne …”, o forse proprio per quello. Auguri ragazze!

Opera d’Ingegno

“Ai giovani designer consiglio di andare a zappare la terra” è il titolo dell’articolo che riporta la dichiarazione di Enzo Mari – madre di tutti i designer (perché gli altri suoi pari sono scomparsi da un pezzo) –. Titolo per me galvanizzante, per almeno due buoni motivi; prima di tutto perché il Mari Enzo l’ho conosciuto (avendo avuto anche una storia con il suo non meno geniale fratello Elio) e perché ha fatto parte da protagonista dello scenario milanese, non ancora da bere, in cui mi aggiravo adolescente giustamente inquieta, tra Brera, la Scala (intesa come piazza e loggione), Danese (il luogo del design per antonomasia), la Rinascente (dove si annidavano i geni europei della grafica (vera), del design, della Cultura (con la maiuscola meritatissima) e i fotografi più cosmopoliti. Il tutto pervaso da un sentimento di apertura – una vera e propria ouverture sonora – verso l’universo mondo, avendo capito che era proprio l’ora di essere lì.
Ma l’altra ragione, che manda in risonanza i miei pensieri, è la terra; quella che Mari vorrebbe far zappare dai giovani designer, la grande maestra e madre vera della conoscenza. Giovani amici miei, ecco, la terra, insegnata da Beppe di Tavernelle, un altro giovane vecchio maestro, disposto a insegnare a chi ha orecchi per ascoltare, occhi per osservare, mani per lavorare. Una lezione in campo, da ricordare mentre assaggerete il vostro Brunello di Montalcino.
Accadeva nella vigna di Beppe di Tavernelle l’altro ieri, con Luciano Ciolfi, di San Lorenzo, uno che sa di non sapere mai abbastanza.

Stato Opaco

Chiama l’Istat a casa e la donna gentile (ma pur sempre burocratica) al telefono cerca di capire che animale sono, con una serie di domande standardizzate. È comprensiva,tuttavia adatta le mie risposte alle caselline schematizzate del programma che deve aver davanti a sé, mentre mi parla. Alla domanda che mi fa – dopo aver saputo che lavoro ancora e intuito che il mio lavoro non corrisponde al suo schema – “quante persone impiega?” rispondo che faccio da sola, come sempre più accade e come consiglio tutti di fare; mi allargo in una spiegazione, perché capisco che la mia risposta secca l’ha toccata personalmente (a fine telefonata apprendo che è precaria, avendo perso il lavoro a cinquantacinque anni) e aggiungo che “questo Stato non incoraggia ad assumere: è opaco”.

L’aggettivo che ho usato per qualificare lo Stato la incuriosisce e alla fine della telefonata mi domando anch’io come mi sia venuto in mente. Ma come definire altrimenti uno Stato (con la maiuscola immeritata) che evita di tassare chi esporta illegalmente capitali forse guadagnati in modo illecito; che incoraggia il doppio lavoro di quelli che l’amministrano, concedendo doppi incarichi e consentendo di continuare ad esercitare una professione privata mentre si gestisce la cosa pubblica; che tortura chi cerca di essere in regola, vessandolo con impegni e adempimenti stupidi; che viene meno agli accordi contrattuali, ma solo con i deboli che non possono divincolarsi, mentre con i potenti ha un occhio di riguardo; che ha osato infarcire i luoghi del governo con persone in attesa di giudizio, con ministri che dichiarano di “pulirsi il culo con il Tricolore” (relata refero), con persone di dubbia moralità e con ceffi che usano un lessico lontano anni luce dalla lingua di Dante; che ha dimenticato il proprio paesaggio, le opere d’arte e gli artisti, la dignità delle persone che hanno lavorato per tutta la vita, una scuola che aiuti i giovani ad affrontare il futuro, le donne (se non come prostitute e comunque in subordine al potere); che se ne frega di chi non ha pensione e tenta di rubarla a chi ce l’ha; che smantella tutto ciò che può dare sicurezza; che aumenta le tasse a chi le paga e promette di non farle pagare a chi evade; come si può non definire “opaco” uno Stato così equivoco?

Algoritmi nella vigna

Ho sentito che tutto il casino mondiale dipende da certi algoritmi che si assomigliano troppo tra di loro. Un momento: riparto dall’inizio; qui siamo in campagna ma parliamo di borsa; parliamo della Borsa che crolla si rialza e ri-crolla; lacrime e sangue e soldi a palate per i pochissimi che conoscono il gioco al massacro.
Frugando nella memoria ricordo che la Borsa aveva come obiettivo quello di capitalizzare le aziende: queste si mettevano sul mercato, facendo magnifici road show (ne ho allestito anch’io qualcuno) in cui sfoggiavano i loro gioielli (idee originali che erano divenute prodotti di successo; uomini che mandavano avanti l’impresa con lo stesso piglio con cui Margherita ‘manda’ il trattore; margini operativi di tutto rispetto e conti in ordine). Poi si quotavano per vedere l’effetto che fa e ramazzavano i soldi per progredire, sviluppare le loro attività, migliorare la rete di vendita, creare nuovi prodotti (magari sempre più in linea con le aspettative dei clienti e le necessità epocali del mercato …). Quelli che erano divenuti azionisti tenevano d’occhio l’impresa e compravano o vendevano a seconda degli andamenti aziendali, politici, e del mercato.
Dimentichiamo quel film e arriviamo a questi giorni. Tra allora e ora, è successo che il riferimento per chi ‘gioca’ in borsa è sempre meno il valore (in termini concreti e misurabili) di un’impresa, e prevalgono strumenti legati esclusivamente alla finanza Ma quello che ha accelerato le cose in questa direzione è la velocità parossistica, conferita ad acquisti e vendite, dall’era digitale. Per cui, nello stesso tempo in cui tutti vendono, un furbacchione (bene informato) da solo può acquistare a prezzi stracciati e poi subitissimo rivendere guadagnando un miliardo di dollari (Soros avant’ieri). Non è tutto qui, ma questo un po’ spiega perché il mondo va su e giù dalle montagne russe a velocità pazzesca.
Bene, non ho capito come, ma tutto ciò è possibile grazie a certi algoritmi*; pare però che alcuni di essi siano quasi identici tra loro e questa somiglianza generi ulteriori casini.
E pensare che la parola “algoritmo” mi fa venire in mente il verde ondeggiare delle alghe in un fondale o il più familiare dondolio dei grappoli nella vigna, un road show nell’imminente stagione di vendemmie, invece:
*un algoritmo è un elenco finito di istruzioni univocamente interpretabili, ciascuna delle quali deve essere precisamente definita e la cui esecuzione si arresta per fornire i risultati di una classe di problemi per ogni valore dei dati di ingresso.

More di Buonumore

Un ritorno all’infanzia, per chi ce l’ha avuta; un ricordo di quando erano parte integrante della dieta estiva, per tutti quelli che al tempo dell’infanzia hanno dovuto fare i conti con un’economia pauperistica, nell’assenza quasi totale di stipendi, prebende, sussidi, finanziamenti, soldi.
Le more, in questi giorni, brillano su tutte le siepi e a questa latitudine sono belle grosse; ma attenti a coglierle, perché è meglio farlo quando si è sicuri che non abbiano beneficiato di qualche trattamento, insieme a una vigna o a un altro coltivo.
Se sono sane e lontane da gas di scarico, diserbo, anticrittogamici (ma anche da zolfo e rame!), si colgono e si mangiano lì per lì, e più le mandi giù più sale su il ricordo dell’estate, che è già un pezzo avanti e si appresta al suo giro di mezzo; il ricordo si trasforma in buonumore e ci puoi giocare con le parole, creare un tuo mantra personale, per scacciare le puzze del mondo che fuoriescono dai buchi della speculazione corrotta. Oppure – come suggerivo all’amico Andrea Pagliantini, sul suo blog – ci fai un ‘clafoutis’ e ti mangi l’estate prima che te la rubino.

La Borsa e la Terra

Forse solo la tv – che non guardo, perciò non so – risparmia ai suoi utenti il mantra quotidiano sugli andamenti di borsa. Non la radio – fedelissima radiotre – nemmeno i quotidiani, seppure con accenti diversi. Comincio ad appassionarmi a questo tema che, giorno dopo giorno, si allontana dalla vita nostra e appare sempre di più per quello che mi pare sia: un grande complotto (di pochi individui) che vogliono impadronirsi del mondo e ridurre in schiavitù tutti gli esseri umani.
Stamattina uno che si definiva ‘operatore finanziario’ lo diceva, praticamente lo dichiarava con tranquillità, al giornalista che gli chiedeva lumi sulle cosiddette agenzie di rating, come se fosse normale che un’istituzione privata (l’agenzia di rating, appunto) – costituita dalle banche che usano i dati della stessa agenzia che esse hanno creato – che tiene sulla corda stati e cittadini; non più alcuni stati, ma gli Stati Uniti (oltre al nostro paese e agli altri compagni di tormento europei) e forse anche la Francia (le cui condizioni debitorie sono state dichiarate ‘sicure’, perciò possiamo essere quasi certi che verrà messa sotto schiaffo). Non so voi, ma io ho la sensazione che il cambiamento che ci aspetta – neanche troppo dietro l’angolo – sia enorme, fiabesco, ma nel senso dell’incubo. Un tempo si poteva pensare che il più grande cambiamento sarebbe avvenuto nel momento in cui la Cina avrebbe acquisito il dominio del mondo ex-occidentale, ora mi pare che una specie di Spectre stia assaltando il mondo intero e mi domando: chi sarà il James Bond che ci caverà d’impiccio?
Forse un eroe contadino? Uno che conosca tutti i segreti della terra e che li custodisca per un futuro in cui tornare a un’economia meno virtuale e più virtuosa, cioè meno Borsa e più terra.

Pensami Giacomina

Vivo in un paese la cui atmosfera speciale è ormai legata alle pietre di cui sono costruite le case, al garbo dei restauri (ma non tutti), al buon cibo dei due ristoranti e all’afflusso quotidiano di avventori vogliosi di fare “l’esperienza enogastronomica” in un luogo che suscita in tutti l’idea di una vita meno tesa e più umana. Ormai i nativi sono ridotti a poche unità, integrate da una piccola comunità nordafricana e da alcune robuste badanti polacche e ucraine: tutti intenti a farsi gli affari propri e alcuni molto impegnati a sbarcare il lunario.
Perciò l’ho saputo solo oggi, e forse non l’avrei nemmeno saputo, se non avessi l’abitudine di salutare tutti gli abitanti che incontro e di scambiarci due parole, quasi che queste brevi chiacchiere potessero colmare gli interstizi e le crepe ormai evidenti tra persone con vite centripete e dissonanti. Perché mi sono accorta da tempo ormai, che le pur poche persone rimaste ad abitare il paese – parlo di quelli che sono originari dei luoghi – sono schierate in gruppetti, ognuno aggrappato a un non so che, a un’area di potere, a una tradizione di casta sociale … ed è molto triste constatare che un luogo in cui (un tempo ormai lontano) tutti erano molto poveri ma pronti a stare insieme per celebrare una ricorrenza, ora è diventato un posto molto bello, anzi affascinante, dove i superstiti – molto più benestanti di chi non c’è più – hanno perso ogni senso della loro comunità.
Che la Giacoma, non l’avessi incontrata per il paese da qualche po’ di tempo, incominciavo a sentirlo, ma non a notarlo (orari diversi, i miei, e anche un po’ discontinui) ma anche se è ultranovantenne e se ogni volta che l’incontravo in paese non mancava mai di dirmi che lei presto sarebbe finita a Terracina – con grottesca e cimiteriale battutaccia alla toscana – la vivevo sana come un pesce e nemmeno più ipocondriaca come un tempo. Ma un ictus, no, non era nel mio immaginario, e nemmeno avrei mai pensato che (per un mese) durante le mie mattutine visite al bar di piazza, in cui incontro due o tre vecchi abitanti, a questi non sarebbe mai venuto in mente di dirmi (o di chiedermi) di Giacomina, che era stata trovata in casa in terra priva di conoscenza e che –dopo una trafila ospedaliera – da qualche tempo non vive più in paese, ma in ‘commenda’.

Napalm e il Paesaggio

Del Napalm sentivo parlare ai tempi della guerra in Vietnam, da ragazzina; la sola parola mi evoca una natura devastata, defoliata, scarnificata. Vivendo in un paesaggio ricco – con innumerevoli e mutevoli tonalità di verdi –, rigoglioso e ben coltivato, in mezzo a tante vigne ben messe, a boschi densi e a una macchia mediterranea di cui si parla in tutto il mondo come fonte di fragranze benefiche, la parola “Napalm” di solito sta accucciata in un remoto angoletto del mio cervello, in disuso.
Mi è balzata fuori – e l’ho proprio detta, anzi gridata – mentre percorrevo la bella strada sinuosa che collega Sant’Angelo in Colle allo Scalo; un percorso che attraversa uliveti e vigne, tutto bordato da episodi di macchia (carpini, cisti, lentisco e mirto, ginestre, quercioli e ginepri), da piante arbustive di varia grandezza, a tratti più o meno folte, con un’irregolarità armoniosa, con belle fioriture stagionali, che arricchisce il paesaggio e ne valorizza le colture. Perciò dapprima ho pensato al solito cretino che ha buttato un mozzicone di sigaretta incurante delle conseguenze, per ricredermi quasi subito, perché per alcuni chilometri si vedono i segni devastanti di quello che (immagino) era nato come un “intervento di manutenzione” dei bordi della strada.
Per chilometri, lunghi tratti di un rosso tanto innaturale quanto violento, con rami malamente spezzati che paiono rantolare e tutta l’erba annientata dallo spargimento di un defoliante avanzato in qualche guerra, palesemente velenoso, trasformano il bordo della strada in un cimitero della natura (e del paesaggio), proprio nei giorni in cui – nonostante le flessioni indicate dalle statistiche delle presenze – essa è più frequentata da visitatori e turisti, che girano per ogni dove, alla scoperta del sublime (e famoso) paesaggio toscano.