Pensiero

Quando vivi in campagna la morte arriva come una staffilata, a ricordarti che non camminerai per sempre tra i filari delle vigne, sul ciglio del bosco, osservando le stagioni che ti raccontano il tempo che passa. E tu sei lì.

Allora ti accorgi che l’impermanenza non è una canzone new age, ma l’incontrovertibile appuntamento con l’ignoto, nonostante le vigne, le foglie che brillano dorate, il giro del sole che disegna astrazioni capaci di sorprendere anche i più consumati dall’uso e dalle visioni.

L’affluenza della gente ti aiuta a stare in piedi, facendo parte di un unicum in cui ognuno è staffetta di un futuro in cui solo le stagioni (pur barcollanti, sostiene qualcuno) permangono. Gli umani si passano il testimone.

Ma un funerale in campagna, in mezzo a una comunità che mette in pausa le rogne – grandi o piccole – del quotidiano, per toccarsi lievemente e sinceramente: un gomito, una spalla, e dirsi che siamo qui per ora e garantiamo il rimpianto, perché uno o una di noi si allontana (e non è mai per sempre, perché il mosaico dei ricordi lo ricompone); ma noi che rimaniamo, nel guardare lo splendore inaudito delle colline in tutti i loro dettagli, ci siamo anche per chi se n’è andato.

Pensavo guidando verso la piazza, la chiesa, la gente, com’è più naturale morire, andare, lasciare, partire, dissolvere, finire. Vicino alla terra che uno conosce sasso per sasso, in questo autunno così luminoso e sfibrante. Così scolpito dalla luce che si fa fatica a pensare di lasciarlo. Eppure è così.

Dindo

<<Ci si alzava prima del sole, si andava al lavoro a piedi  – io andavo fino a Poggio alle Mura – e finito il lavoro si tornava a piedi.>> Non c’erano mezzi se non le proprie gambe, per coprire la distanza tra casa e lavoro; ben più di dieci chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Bastano questi numeri per dare un’idea di cos’era la vita di uno che lavorava nei campi da queste parti; non secoli fa, ma nelle prime decadi dopoguerra.

Di questa vita così vissuta ci sono ancora testimoni, ma non tutti hanno voglia di raccontare il mondo primitivo di quegli anni, in questa campagna. Dindo – che io chiamavo sempre rigorosamente col suo nome intero Ermelindo, l’ho conosciuto da vicino; se non altro perché l’unica finestra di casa sua era di fronte alle mie e tutte le sere, quando rientrava dal suo lavoro misterioso (un po’ qui un po’ là), risaliva ciabattando lo stretto vicolo che separa le case parlando da solo o rivolgendosi a qualcuno che poteva incontrare per caso.

In quegli anni il paese era ancora abbastanza abitato e non era ancora avvenuta la sostituzione quasi integrale tra i vecchi abitanti – ma dovrei dire ‘antichi’ – e quelli nuovi: cioè la robusta colonia tunisina (ormai assimilata e dà un tocco esotico al villaggio) di operai agricoli evoluti, che all’ora dei pasti si mescola ai turisti sciamanti tra la piazza e il terrazzo naturale sul paesaggio, e diventano artisti dell’obbiettivo, con il loro smartphone, appena scesi dal suv e già con un bicchiere in mano, roteando il vino e strabuzzando gli occhi per vedere tutto e riuscire a ricordare e raccontare.

Dindo ora non riconoscerebbe il suo villaggio che in certe ore somiglia abbastanza a Venezia – acqua a parte – e forse avrebbe paura ad attraversare la piazza per andare a fare la sua piccola spesa quotidiana, o forse no. Certo ora è inimmaginabile incontrare uno come lui, qui o altrove. Ma una manciata di anni fa, qui lo incontravi sotto curva e contromano, con le luci a singhiozzo nell’imbrunire, a cavallo della sua sgangherata Lambretta, come lui incrostata dagli anni, e rischiavi l’omicidio stradale. C’era un’ora in cui bisognava essere particolarmente cauti – quando, poco prima che facesse buio, c’era il rientro degli operai agricoli – Dindo era in sintonia con l’orario di lavoro degli altri, anche se lui (forse in pensione) un lavoro non ce l’aveva più, ma aveva la Lambretta e forse si sentiva emancipato dal mezzo. Forse per questo lavorava anche di domenica,

Era un uomo gentile e civile ma a modo suo; niente acqua né gabinetto in casa, si appartava per i bisogni sui sentieri che circondano il paese, con discrezione. Una sola volta l’ho visto risalire il “nostro” vicolo, completamente nudo e forse un po’ bevuto (qui il vino non è mai mancato, anche se non era proprio come quello che bevono i turisti), di notte, litigando con qualcuno a voce alta, tanto da svegliarmi.

Oggi lo si direbbe un “diverso”, ma oggi tutto sta diventando diverso da com’era ai tempi di Dindo; lui oggi sarebbe un’attrazione per le signore che visitano il paese guardando le vecchie pietre con stupita ammirazione e per loro sarebbe un personaggio. Mi ha suonato all’uscio una volta e aveva in mano un mazzo di fiori – alcuni con la corolla in su, altri in giù -: era il suo modo per esprimere niente più che cortesia.

Non ricordo il suo funerale; so che a un certo punto era stato trovato, esanime ma vivo, forse in un fosso in cui era caduto con la Lambretta; credo che qualcuno ne abbia avuto cura fino all’ultimo. Poi, giorno dopo giorno, il paese si è abituato alla sua assenza e Dindo è entrato a far parte del paesaggio dei morti: quello che i turisti che arrivano quassù non fotograferanno mai, anche perché non ne sospettano l’esistenza. Per me è un ricordo intermittente; una di quelle storie che quando te la racconti non sei sicuro che sia vera e che sia veramente avvenuta. Come il suo lavoro da schiavo, la distanza lunare tra i luoghi che da giovane percorreva a piedi, il cibo eternamente misero, la vita ridotta a pulsazioni del cuore e della vecchia Lambretta.

Buona Pasqua forse

Ci rendiamo tutti conto che il “mangiare” è diventato centrale nelle nostre vite. E’ centrale per chi mangia in abbondanza, lo è per quelli (sempre più numerosi) che devono fare bene i conti per arrivare sul filo di lana della fine mese; lo è ovviamente per chi il cibo lo vede con il binocolo e mangia solo grazie a un sistema sempre più intricato (e non sempre trasparente) di organizzazioni che si occupano di distribuirlo a chi non ha niente.

Ma non tutti ci rendiamo conto che “mangiare” e “nutrirsi” (due azioni non sempre sovrapponibili) sono il mercato più interessante per le multinazionali. Invece di questo fatto bisogna tenere accuratamente conto. Mi viene in mente la Nestlé di quando ero piccina ed era il marchio del mio latte, proveniente direttamente da quel nido – marchio dell’azienda amica (nest=nido) – in cui gli uccellini erano idealmente i miei compagni d’infanzia. Poi ho ritrovato la Nestlé come cliente – difficile e ambìto – in agenzia di pubblicità; era già un’impresa diversa, in odore di problemi africani (il latte artificiale non dà ai neonati quella protezione rispetto all’ambiente – protezione indispensabile in paesi africani – fornita solo dagli anticorpi del latte materno), un’impresa che diversificava alla grande, diventata un colosso multinazionale. Ora, infine, so bene che le multinazionali, difendendo le proprie politiche produttive, sono in grado di fare praticamente quello che a loro conviene di più e che consente i margini più succulenti all’azionariato (soprattutto agli azionisti di riferimento!), so che decidono al posto dei governi (anche alla UE!), so che strattonano la libertà di stampa che del resto non esiste (quasi) più.

Per questo, stamattina, incappando in un post su Facebook, con una foto che ritrae uno stand (al Vinitaly?) che inneggia alla bontà del Gliphosate (Glifosato), mi sono ritrovata a scrivere una lunga tirata, anziché il solito commento al fulmicotone.

L’ho fatto e continuerò a farlo perché sono ben consapevole dell’ingenuità, o della vaghezza, di chi commenta, o interviene, volendo dare supporto a un’agricoltura bio e più attenta alla salute di prodotti e suolo Perché il “mangiare” che è diventato un mercato immenso (siamo tra i sette e otto miliardi di persone che “mangiano”) ha origine da campi, orti, distretti: la terra che ci dà prodotti, dove pascolano armenti e greggi, dove sgorgano sorgenti. Terra che trattata in un modo o nell’altro può darci cibo di qualità diverse. Terra che di proprietà diverse può originare (vedi cinesi in Africa) modelli sociali, politici e umani, clamorosamente diversi gli uni dagli altri.

Per questo, convinta come sono delle  battaglie in corso – per un suolo più sano (colture bio e biodinamiche), una limitazione ragionevole del consumo di carne, un rapporto più “umano” con gli animali, una relazione più prudente con la chimica, una nuova attenzione alla cultura come elemento nutrizionale – vorrei che tutti quelli che si sentono coinvolti (e non sono pochi) in questo sguardo ecologico, imparassero a tener conto di chi hanno di fronte e fossero consapevoli dell’urgenza di creare nuovi modelli culturali, capaci di coinvolgere anche chi ha orecchi solo per sentire il rumore dei soldi.

Io penso che se Trump – uno con quella faccia, con quello sguardo, con quella voce (dimenticando cravatte, ciuffone e vestitoni) – è diventato presidente degli Usa, è solo perché c’è molto trumpismo in circolazione; sotto traccia, carsico, trova il modo di uscire allo scoperto ben travestito, per dirci che è più comodo, più conveniente, più indolore, dare ragione al più forte; dare ragione, come devono fare i giornalisti troppo spesso a chi investe in pubblicità tenendo in piedi i giornali; dare ragione a chi è amico dei politici e degli amministratori (e li tiene per la pelle di qualcosa) e può influenzare le decisioni politiche e premere affinché non sia scritto tutto quello che potrebbe essere scritto – cioè la verità – su prodotti, tecniche, tecnologie, futuro. Anche quello che deve essere scritto su molecole pericolose per la nostra salute e per quella del nostro futuro. Imparare a comunicare – ribattendo con calma e correttezza -, non stancarsi di farlo, giorno dopo giorno, per sempre. Senza perdere di vista l’obiettivo di salvare la salute del futuro.

Passaggi

E’ come quando, al cinema, il singolo fotogramma – senza smettere di essere movimento – ruota su sé stesso offrendoci una scena completamente diversa dal racconto che ci era stato fatto fino a un momento prima. Così sta ruotando tutto ciò che conoscevamo del mondo, e quello che pensavamo immobile, nel suo essere com’era, viene indotto o trascinato o sconvolto e quindi coinvolto e messo in movimento. In questo cambiamento, progressivamente accelerato, ci sono – c’erano – luoghi, pensieri, modi di essere apparentemente inamovibili, che restavano tali grazie (più che a intuibili omertà) al pigro conformismo di chi ha ‘mangiato la foglia’ e procede verso i propri obiettivi – grandi o più modesti – proprio grazie all’atteggiamento accomodante, non eccessivamente critico, salendo sul treno che funziona meglio …

Ma i diversi sipari che si alzano su zone e comparti del vivere, in tutto il mondo, mostrano a chi ha occhi per sentire e orecchi per vedere, che questa volta non cambia tutto affinché tutto possa rimanere com’era: no, questa volta è diverso. Ciascuno di noi è all’oscuro, ma tutti noi intuiamo che quello che veniva guardato con sufficienza o  supponenza, fino a ieri, oggi non desta stupore neppure nelle persone più semplici. Chi è più consapevole – difficile esserlo fino in fondo – questa volta non ha vantaggi; questa volta la consapevolezza è un premio di consolazione immateriale, e non compensa l’incognito.

Di questo passaggio abbiamo avuto, qui a livello locale, un’avvisaglia in certo qual modo emblematica (o simbolica?), ed è l’addio dei canonici regolari Premostratensi all’Abbazia di Sant’Antimo – che lasciano dopo trent’anni circa in cui sono stati, allo stesso tempo, una presenza sublime e un’attrazione turistica -. E, se non ci vedo male, avremo magari RSCN9120altri segnali, meno eterei e più forieri di cambiamenti ulteriori, nel prossimo futuro.

In un paesaggio quasi immobile, in cui il movimento era governato dai frulli di ali ormai ispessite e un po’ lente rispetto alle richieste epocali, qualcosa si muove forse tentando di capire il mondo che cambia, questa volta, non per modo di dire.

Una notizia buona (e una così così)

La notizia buona è che “non è diserbo” quello che a me era parso tale … scusate, voi quattro gatti (o cinque) che mi leggete vi sarete magari persi (“ma questa di che sta parlando?”). Ma una notizia buona va data subito, prima che si raffreddi, anche se è giunta mezzanotte. Sì perché la notizia buona è arrivata per telefono poco fa e siamo talmente assaliti da quelle pessime, dalla depressione, dall’idea che tutto in questo momento vada per il peggio (in effetti, però, non pare ci sia tanto da stare allegri …), che quando ti assicurano che una cosa che ti sembrava orrenda non è così, non solo, ma fa anche inorridire molti altri, non puoi che esserne lieta e affrettarti a farlo sapere ai quattro gatti (o cinque) che leggono i tuoi post senili.

Dunque ripeto, tanto per essere chiara e farlo sapere a tutti: sull’amato pratino dello Scalo, popolato di pratoline, pratino molto grazioso di cui ho scritto alcuni giorni fa, in un giorno di pioggia, nessuno ha sversato del diserbo (né chi lo accudisce, né altri di nascosto) e le chiazze che ci hanno allarmato (non ero la sola) dipendono da un fisiologico ricambio dell’erba: la vecchia muore – mi hanno spiegato, mi illudo senza allusioni – e talvolta lascia dei resti giallastri. La seconda parte della notizia buona è che chi me l’ha comunicato mi ha fatto sapere di odiare il diserbo e disprezzare tale pratica … e mi ha convinta.

Poi – ehm ehm – ci sarebbe quella che ho annunciato come la notizia così così, perché non saprei come catalogarla altrimenti, cercando di non farmi altri nemici (che non sempre si limitano a portarti onore), ed è la seguente: nessuno, davvero nessuno, ha smentito la presenza dell’F35 – nel meraviglioso pratino delle pratoline in cui ho temuto che avessero sversato la robaccia -, che ho chiaramente citato nello stesso post.DSCN9181. Il che vuol dire delle due cose l’una: o l’F35 non è stato rimosso, o a nessuno interessa che stia lì!

Problemi Centrali

disegnando val d'Orcia

La storia si ripete, sempre allo stesso modo. Stai un bel posto; un luogo rimasto com’era perché eravamo troppo poveri per pensare a qualcosa che non fosse la pura sopravvivenza. Quelli intorno – vicini e lontani – più ricchi di noi venivano a vedere il paesaggio che allora non si chiamava nemmeno così, perché era un concetto sconosciuto; in realtà ci venivano perché gli sembrava di scorgere, nella nostra vita semplice, povera e così diversa dalla loro, un’idea di vita diversa, che nemmeno loro capivano bene che cosa volesse dire; però venire qui li faceva stare bene, attutiva quel senso del lunedì in cui riprendevano a lavorare e gli sembrava di essere in guerra (e guerra era, ma loro non se ne accorgevano fino in fondo: era più che altro una sensazione). In realtà, quello che gli dava un senso di benessere e di speranza, era il paesaggio, la natura, la terra – la nostra madre, di cui ci si dimentica, per una ragione o per l’altra: avidità o ignoranza, o entrambe -, era quel senso di stare in un grembo ancestrale che ti protegge dall’ignoto, dal sangue delle battaglie che si combattono nel mondo, dal rischio di disperdere il proprio sé nel cosmo buio e orrorifico. Anche tu, che ci stai, in questo posto, ti senti bene nel tuo (lasciamelo chiamare così) paesaggio. Ci stavi così naturalmente bene, che non te ne sei mai accorto. Nel tempo, i rari visitatori, di passaggio, di contemplazione, di commercio come i venditori itineranti, si sono infoltiti. All’inizio non trovavano nemmeno da dormire, era quasi un’avventura, ma un’avventura i cui rischi erano limitati alla possibilità di assaggiare le cose semplici che si cucinavano in casa o di dormire in una camera senza bagno: di respirare un’aria così diversa che sembrava di stare in un altro tempo. Le voci corrono, si sa, di bocca in bocca e con gli anni è venuta sempre più gente e da sempre più lontano. Gente con molti soldi, altri con molte idee, altri solo con la voglia di provare una vita più semplice e più ricca di emozioni, anche se meno ricca di soldi. Anche a te sono cambiate un po’ le cose in testa: se tutta ‘sta gente viene qui ci sarà pure una ragione, hai cominciato a pensare. E hai anche cominciato a guardare con altri occhi questo tuo nido natìo, che hai sempre visto e a cui eri così abituato … La storia però non la fa uno solo, si fa insieme e la guidano magari altri che si basano sui numeri crescenti di persone che si spostano o che spostano interessi e denari, e fanno i loro conti. Quello che avevi cominciato a riconoscere come paesaggio – e avevi appena iniziato ad affezionartici – muta profondamente. Tu che sei andato a scuola potresti osservare a questo punto che i paesaggi sono sempre cambiati – lo sapeva bene Renato Biasutti, che li ha classificati, quasi un secolo fa -; il cambiamento è nella natura delle cose. Tutto cambia e noi che al cambiamento ci siamo dentro, anche noi cambiamo. Sì è vero, però dipende come, quanto, e perché (e a che prezzo). C’è sempre un prezzo da pagare e questo tu lo sai, anche se ovviamente non ci pensi continuamente. Quello che ti preme è essere un po’ più come quelli che tu guardavi con rispetto e un po’ di timore e non essere sempre guardato da loro come una via di mezzo tra uno fortunato (perché sta qui, e un poveraccio). Poveraccio non perché non hai soldi abbastanza (ce n’hai anche per toglierti qualche sfizio che un tempo manco ti immaginavi), ma perché ti sembra che quelli che arrivano da fuori la sappiano sempre più lunga di te. Infatti è proprio così. Il figlio del tuo vicino è entrato in politica, per quello, e lui con quelli ci sa fare. Contratti, impegni, finanziamenti, crescita, sviluppo, affari; e poi crescita sostenibile, prodotti a chilometro zero, etica dello sviluppo, globale, locale, glocale. Le parole sono tante e affascinanti. Prendi territorio, per esempio …  se si contassero (e lo fanno) le volte che viene scritta e pronunciata questa parola, ti stupiresti della sua frequenza nei discorsi della politica. E’ solo perché hanno scoperto che si può vendere e ci si possono fare affari. E non c’è niente di male a fare affari, finché non si arriva ai “derivati”, quella parola che abbiamo incominciato a conoscere quando abbiamo cominciato a capire che la festa era finita. E’ anche la parola che ci  può aiutare a capire perché paghiamo tutto così più caro di quanto, in realtà, potrebbe (dovrebbe) costare, a cominciare dal petrolio. Per farla breve un po’ sommariamente, è la finanza, anzi sono i costi che ci vengono imposti dalla finanza. Be’ la finanza si scanni pure, ma tu te ne stai nel tuo nido protettivo, guardi dalla finestra e vedi quel bel paesaggio (sì un po’ cambiato da quando eri piccolo, ma sempre molto rassicurante, nella sua familiarità armoniosa, con le colline e ancora molti boschi e la strada che segue il terreno con grazia) e poi esci e ci vai a camminare dentro, coltivi il tuo uliveto e la tua vigna, hai una bella proprietà e ti basta andare un paio di volte all’anno in mezzo al mondo e quando torni hai ancora più voglia di restare qui dove stai … anzi, andare in giro ti conferma che il tuo luogo è molto bello e hai cominciato a capire perché arrivano da tutto il mondo a vederlo, e a mangiare e ad assaggiare tutto quello che tu e gli altri avete cominciato a vendere e a sviluppare: perché per te lo sviluppo è questo, è fatto sulla tua misura. In fondo “a misura d’uomo” è un concetto nato e cresciuto dalle tue parti. La Cappella de’ Pazzi è a Firenze, mica a Mosca o a Singapore, e nemmeno a Filadelfia. E il Rinascimento cos’altro ha voluto dire se non “sviluppo”? Uno sviluppo sostenibile, perché ha voluto dire abbandonare concetti vecchi e anche un po’ cupi, per ripartire con una serie di nuovi criteri. Caro mio, se mi hai seguito fin qui devo darti una notizia: stiamo ripartendo di nuovo, perché la festa è finita davvero. Ora però non si capisce bene dove si va a parare, né se ci sarà ancora qualcosa per te, per me – per noi – alla fine di questo capitolo. Non voglio essere pessimista, però bisogna che tu sappia che se vuoi che ti rimanga qualcosa del tuo nido rassicurante, se vuoi ancora sorridere – tra qualche anno – guardando fuori dalla finestra, bisogna che ti prepari a essere molto attento a quello che ti succede intorno, devi sapere che niente più sarà gratis, non potrai dare più niente per scontato e non sarà facile far capire a quelli che pensano di diventare molto ricchi, che non possono espropriarti dei tuoi sogni.

Una sera con Furore

A cosa serve leggere libri – in particolare i romanzi -? Mi rispondevo mentalmente da sola lo scorso giovedì sera, mentre mi tornava in mente la trama di “Furore”, (ovvero The grapes of Wrath, tradotto impropriamente come ‘grappoli di odio’) …Mi rispondevo mentalmente, ricordando la situazione da cui prende le mosse il romanzo di Steinbeck e accostandola all’assemblea gremita – ma tranquilla (tranquilla, ma non supina) – a cui stavo partecipando, e riflettevo sugli eterogenei interessi che riguardavano sia i partecipanti presenti, sia i molti soggetti coinvolti assenti. Che cosa c’entra la lettura di libri con le centrali geotemiche che la regione prevede di installare tra Amiata e Montalcino?

E a che serve leggere i romanzi? A capire meglio e a vivere come proprie le esperienze degli altri; o a riconoscere le situazioni e le loro dinamiche, anche quando sono meno palesi, forse . Chi ha l’abitudine all’informazione non sempre utilizza quella che gli viene dai romanzi che ha letto. Questi solo apparentemente ci rappresentano una finzione; perché chi scrive romanzi ci mette sempre un pezzetto della propria storia o di quelle che ha visto accadergli intorno. Perché le storie degli uomini si inseguono, sospinte da pulsioni identiche, e a saper distinguere ci sono anche i buoni e i cattivi. L’altra sera proprio Furore mi tornava alla memoria, una lettura giovanile che mi aveva turbato nel profondo; mi aveva angosciata l’idea di quelle famiglie spossessate, costrette a lasciare una vita e andare via senza speranza e senza futuro. 

Di certo il contesto in cui mi trovavo non aveva le tinte drammatiche di quel romanzo (che peraltro non è pura fantasia, bensì una storia che ci riporta ai tempi della grande crisi negli Stati Uniti); ma continuava a farmelo tornare in mente e dati i tempi che stiamo attraversando mi sono chiesta se qualcosa lì sospeso a mezz’aria, o dietro agli occhi attenti di quelli che ascoltavano senza un mormorio o un gesto di polemica, mi aveva suscitato il ricordo di quel libro così lontano.

Non rileggerò subito Furore, ma lo cerco e me lo tengo a portata di mano. E’ una lettura scomoda e pesante, fatta di questi tempi, ma è persino un libro con un lieto fine, anche se non per tutti i protagonisti della storia. E sono convinta che rileggere quel libro – corposo e apparentemente inattuale – aumenterà la mia capacità di capire.

Da “Tenuta” a “Podere”: che cosa si dice per piacere!

Viviamo in tempi impietosi: non piace ciò che è bello o piacevole, ma di solito piace ciò che è ricco e si manifesta senza fare sconti; però c’è un limite a questi fenomeni e consiste nelle opinioni che si creano, mutano, evolvono e non sempre si riesce a orientare. La comunicazione dilaga e si intreccia con informazioni, soprattutto on line, in modo tale che è solo parzialmente controllabile, e le opinioni si formano su misteriose convergenze di sensibilità o di allergie. E da noi non si è ancora acquisita l’abitudine (e messa in conto la spesa) di studiare preventivamente il mercato e ciò che lo muove, nemmeno di andare a vedere perché i consumatori comprano una merce, se lo fanno convinti, se sono soddisfatti, se pensano di tornare a farlo o se sono in una fase di latenza. Chi avrebbe tutto l’interesse a farlo, arriva sempre con un po’ di ritardo ad accorgersi di quello che i sociologi chiamano “il cambiamento”;   non sapendo o dimenticando che “il cambiamento” è un fenomeno mobile – dura dalla notte dei tempi e finirà con la nostra specie -.

Nulla è fermo, insomma, nemmeno nel vivace mondo del vino, abitato da gente che mima l’affetto per la campagna e per la ‘veritas‘ che ‘in vino‘ dovrebbe appunto trovarsi. Ma il mondo del vino, rispetto ai fenomeni relativi al “cambiamento” nell’accezione socio-psico è particolarmente in ritardo. Sembra ieri che andavano per la maggiore (ed esclusivamente) lo stile blasone di famiglia/tradizione…; altrettanto recente (mi pare) è l’attenzione del mercato per l’imprenditore di tutt’altro settore o il politico, super-ricco, che si compra una super tenuta e ostenta super enologo, super ettari, super impianti, super tecnologie, super avveniristicamente. Il tutto sciorinato sulla stampa fedele in modo tale da mettere ettolitri di distanza tra sé e quelli che erano lì a produrre vino magari da un secolo o due (mi viene in mente la moglie di uno, che ho avuto occasione di incontrare mentre dichiarava “io sono la padrona” e pareva uscita davvero da “Il padrone delle ferriere” di ottocentesca memoria).

Ci sono però anche imprenditori intelligenti che praticano lo stile più aggiornato dell’understatement, e c’è un fenomeno nuovissimo che ho notato e mi ha incuriosito: una specie di mimesi, di travestimento, in cui mi sono imbattuta in questo mondo simpatico, dove di solito ci si limita ai pantaloni di velluto a coste, indossati più che altro con ironia, per dire “guarda che qui siamo in campagna”.

Si tratta del nome “Podere”, usato ostentatamente (un vero e proprio messaggio) in luogo di “Tenuta”, nome più consono e adeguato a certe dimensioni (e intenzioni) aziendali, soprattutto quando si posseggono vere e proprie imprese agricole importanti e strutturate (e non si ha un passato da contadino). In questo nuovo naming c’è molto, a mio avviso. A me, incontrandolo, è parso una vera e proprio pelle d’agnello indossata quale travestimento, per mimetizzarsi in un certo gregge (che esiste da mo’, ma di cui si ha una percezione tardiva) e mettersi a belare insieme agli altri. L’ho individuato come un segnale a cui se ne aggiungeranno altri, un modo ‘innovativo’ di presentarsi al mercato.  Mi ha fatto venire in mente una barzelletta surreale, i cui protagonisti sono i chinotti, e che vi racconterò un’altra volta.

 

 

Un Albero a Camme mi cambia la Vita

 

DSCN0442La camma è un elemento di forma eccentrica “ancorato” su un asse, viene impiegato in innumerevoli cinematismi, l’impiego più conosciuto è nei motori a scoppio, dove prende il nome di albero a camme o asse a camme.

La camma è una metafora, naturalmente; di questi tempi è un’immagine che mi torna spesso in mente. Quando ero giovane, ero appassionata di auto e la funzione dell’eccentricità delle camme l’avevo capita intuitivamente: tutt’ora mi resta difficile tradurla in parole, ma mi ha sempre fatto venire in mente quel momento particolare in cui si “acquisisce in tutta chiarezza” un cambiamento o qualcosa che è divenuto; come l’insolvenza nel cinema, quando si mette a fuoco un’immagine e il racconto diventa improvvisamente chiaro.

Oppure quando la luce cambia, in modo importante, delineando qualcosa in modo finalmente chiaro. Ecco, per me la “camma” è un po’ l’emblema di questo momento storico, in cui i valori si stanno muovendo, come tessere di un mosaico che rappresentava un’immagine e che spostate in modo radicale vadano a formarne un’altra. Un’altra immagine non solo di forma diversa dalla precedente, ma di genere, categoria e finanche racconto diversi. Qualche volta solo ribaltati (quello che valeva non vale più, quello che veniva lasciato ora viene ricercato), ma qualche altra volta, il risultato dello spostamento è addirittura foriero di fine di qualcosa o di inizio di qualche cosa.

Ho provato questa sensazione molto spesso in questi ultimi tempi, ma in alcune circostanze l’ho proprio “toccata con mano”.

Mi è successo di recente, leggendo due o tre articoli – sulla Lettura – relativi all’agricoltura; in uno di questi si constatava l’assenza del contesto agricolo nel panorama della narrativa nostrana e si azzardava una ragione di questa assenza, quasi un’assenza di tipo culturale. A fianco del primo, un altro articolo presentava un “grattacielo fattoria”, come una prossima soluzione alle necessità alimentari di un’umanità cresciuta a dismisura, fuori controllo; come corollario si criticava il modello “bucolico” a cui si rifà l’agricoltura biodinamica, perché la terra (si diceva a un certo punto) è piena di infestanti, di microrganismi nocivi, insomma di porcherie da cui ci salva solo la chimica. Ho capito che l’agricoltura è stata acquisita finalmente come tema centrale; dopo essere stata ai margini di chiacchiere da enoteca, ora diventa prepotentemente protagonista e ci si accorge che la terra … ci sta letteralmente per mancare sotto i piedi. La terra non si produce, non si sintetizza, non si inventa. Vedo nero, a questo proposito, anche perché stiamo leggendo sempre più frequentemente di ‘land grabbing’. 

Ho visto in un’altra luce le camminate nella frescura in mezzo alle vigne o accanto ai boschi; mi domando quando la pressione demografica che accende la cronaca, la politica, lo scenario internazionale, si avvertirà da vicino anche qui.

La condizione di ‘esilio’ campestre, di isolamento nel bello, di ricercata solitudine (come non unica beatitudine), di aria, spazio, colori, stagioni, sole-pioggia, natura sentita fisicamente, tutto ciò mi è sembrato per un attimo un privilegio pazzesco. Passato quell’attimo, pensavo che fosse stato un mio momento di ‘fuga in avanti’, invece mi sono accorta di essere entrata in un’altra dimensione: sono cambiate le proporzioni dell’esistere (di quello mio, almeno). Quelli che si intendono di alberi a camme, forse sanno che a cosa alludo; gli altri penseranno che sono impazzita definitivamente.

Cenerentole senza principe, ma con marito regolamentare

Stavo rileggendo qualcosa che avevo scritto mesi fa e nel testo, parlando di agricoltura, ritrovo la definizione “Cenerentola senza principe“. Il primo pensiero è stato che davvero l’agricoltura è “senza principe”; subito dopo però ho fatto caso all’espressione usata, che dà per scontata l’urgenza di un “principe” per poter essere degnamente Cenerentola.

Per quanto riguarda la fiaba di Perrault è vero, ma se dimentico la necessità avuta a suo tempo di sottolineare che l’agricoltura – così strategica nel nostro paese – manca dell’attenzione e di strategie consapevoli, da parte di chi prende le macro-decisioni, ho fatto subito mentalmente autocritica per la metafora usata; così datata, così superata già durante la mia infanzia. Una metafora che avrebbe lasciato perplessa mia madre – il cui mantra era “Silvana sii indipendente e ricordati di non farti mai mantenere da un uomo” – e che per il mio sesto compleanno mi aveva regalato un libro di fiabe, edito da Marzocco (Firenze), che sembravano scritte apposta per rompere tutti gli schemi dell’educazione al femminile.

Questa attenzione così specifica e se vogliamo sottile (la storia di Cenerentola ha anche alimentato altre suggestioni), mi è venuta leggendo ciò che ha scritto Ida Dominijanni (de il Manifesto), osservando la storia della deportazione di Alma Shalabayeva, che durante la drammatica vicenda è stata costantemente trattata (barbaramente) in quanto moglie, dando per scontato che il suo destino si giocasse di riflesso a quello di un marito; “in altre parole la signora Shalabayeva non appartiene a sé stessa, ma a scelta, al marito o allo stato kazaco“.

Ehi – ho pensato – in fondo quelli che “governano” l’Italia sono molto simili al pirla che l’altra sera ha assalito la nostra amica americana. E sono molto lontani dagli altri paesani – rannuvolati e intristiti dalla storiaccia che ci è capitata tra capo e collo – che aspettano il ritorno dell’amica americana a cui si vogliono presentare le indispensabili scuse!