La vera storia di un addio

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Ci si immagina che chi, come me, non ha fede, non sia toccato dal destino di un luogo ad alto contenuto spirituale, come l’abbazia di Sant’Antimo, che da oltre un mese è al centro di incontri, commenti, versioni diverse.

Ma Sant’Antimo, e la piccola comunità di canonici premostratensi che l’hanno abitata da poche decine d’anni a questa parte, sono (stati) anche per la gente come me, fino a poche settimane fa una presenza speciale, nitida e irradiante, come il saio quasi candido indossato da quei monaci. Troppo carismatica per passare inosservata, la comunità di questi canonici è anche stata per lunghi anni, da queste parti, l’unico tocco di autentica eleganza (se l’eleganza è la capacità di esserci senza apparire, in senso ostentativo, ma lasciando un segno distintivo). Gli uomini angelicati dal saio bianco sono anche stati i testimoni del cambiamento che ha toccato i versanti delle colline, con la crescita di presenze – doviziose, anche se non sempre altrettanto carismatiche – insieme alla crescita di vigneti divenuti famosi, fino alla capacità, ormai acquisita da tutti, di pronunciare la parola ‘bellezza’ (pur dandole un senso economico). I canonici regolari premostratensi sono stati il contrappasso del vino e del suo opulento edonismo, ma sono (anche) divenuti con il tempo un complemento (un completamento, un cerchio che si chiude), pur non essendo astemi. Ora vanno via, lasciando desolata – con quella che è stata definita, dal Corriere della Sera, una fuga -, “per una guerra di proprietà di alcuni locali”, tutta una comunità che in vario modo contava su di loro; e so che il dispiacere è forte.

Lascio però ai giornalisti il compito di offrirci le varie versioni di una verità che pare un Rashomon della val d’Orcia, ma senza Kurosawa alla regia. Mi limito a pensare che forse, paradossalmente, questa non sarà (solo) una fine, ma è (anche) l’inizio. Di qualcosa di nuovo, perché le cose cambiano.

 

Lezioni di Giapponese

Il mio primo incontro con il Giappone risale ai tempi del liceo, anche se l’iconografia giapponese per me era riconoscibile sulla confezione di “Fleur de Rocaille”, il profumo di Rochas usato da mia madre quando ero bambina che annusavo di nascosto.

(Avevo già letto Mishima, al cinema avevo visto L’arpa birmana – Biruma no tategoto – piangendo lacrime amare: il Giappone era un mondo su cui l’America aveva gettato due bombe atomiche.) Il liceo, a Brera, era contiguo all’accademia di belle arti, già a quei tempi frequentata da stranieri attratti dalla fama dei maestri che vi insegnavano – Marino Marini, Pompeo Borra, Achille Funi, Guido Ballo -, e Brera, con il Jamaica e mamma Lina, Fiori Chiari, le sorelle Pirovini, le due strepitose cartolerie, la Scala, il Corriere, e le gallerie d’arte, era un polo magnetico della cultura internazionale. Hideo Hikeda era un giapponese del nord, beveva moltissimo vino (quel vinaccio che noi studenti bevevamo allora), era bellissimo, molto esotico e bravissimo fotografo: divenne ben presto il beniamino di noi pivelli milanesi, insieme alla Claudine che veniva dal Belgio, con le unghie laccate, il rossetto e un’aura di eleganza a noi sconosciuta.

Un Giappone molto più tradizionale entrò a casa dei miei genitori con Sanae Ando,  collega designer, nell’avveniristico ufficio sviluppo de la Rinascente dove un destino molto benevolo mi aveva offerto la prima occasione di lavoro in un ambiente che si ispirava alla ‘scuola di Ulm’. Per l’occasione, Sanae aveva indossato il kimono e viaggiato in tram (extracomunitaria ante litteram) nel gelido Natale milanese, accolta dai miei come una figlia, pensando alla sua lontananza da casa (conservo ancora alcuni dei suoi doni – piccoli capolavori dell’artigianato giapponese – che ci portò quel giorno).

Un’altra tappa del mio viaggio giapponese era stata più traumatica – imparando le tecniche per cadere – nelle prime lezioni di judo del maestro Takero, un campione che aveva aperto la prima palestra per l’insegnamento delle arti marziali in una Milano che si apriva a un cosmopolitismo senza scivolare nell’esotico. Per qualche anno mi sono procurata una serie di lussazioni che hanno segnato inesorabilmente le mie spalle, ma migliorato il mio umore interiore. Avevo già incominciato a usare Mitsuko, un profumo di Guerlain che nel ricordo si avvicinava molto a quello usato da mia madre, che nel frattempo era diventato introvabile. Un libro ereditato da Albe Steiner(repertorio delle simbologie giapponesi), la prima Pentax, le amatissime carte di riso stampate a mano, un ventaglio di carta rosso e oro, le kokeshi, il Giappone e la sua mostra, organizzata a la Rinascente: se guardo indietro nella mia vita c’è più Giappone che America.

Per questo, quando Hiro è sbarcato dal treno, mi sono ritrovata nel suo abbraccio e nelle sue risate. Come naturali erano i commenti sorti dalle situazioni un po’ paradossali, misurando i contrasti, nell’incontro tra occidente e oriente: visioni, modelli, interiorità, psiche, stili, colori. “Un modo diverso di pensare a dove andremo …”, commenta pensieroso.

Una lingua da guerrieri, il giapponese, con un fondo di crudezza coraggiosa, con inchini che ne sono parte integrante. Un Oriente lontano dalla Cina, un confronto DSCN2336da cui quest’ultima esce con un’immagine un po’ kitsch. Così Hirotaka, davanti all’insegna del “Bar Sayonara” mi dice, convinto: “è certamente di un cinese”, e invece – macché! – era un dopolavoro di Prato …

Il verde è un bambino che cresce e cammina

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Può essere l’andamento di una strada – magari un cammino, come questo, che viene da molto lontano nel tempo – oppure un orizzonte in cui occhieggia il mare luccicante, ma solo se lo sai vedere. O come la luce svela nuovi luoghi che credevi di conoscere già molto bene, o il disegno dei campi delimitati dalle siepi della sapienza contadina (quella, nata dall’esperienza, che impedisce alla terra di franare). Innumerevoli sono le meraviglie che uno impara a ri-conoscere, vivendo in campagna.

E non è che in città ci sia poco da vedere, o che quello che ci circonda – in città – sia meno interessante, piacevole, bello. E’ che in campagna il mio occhio ha imparato a rileggere la forma della terra, incitato dalla luce che muta di continuo – nell’evolvere della giornata, con le mutazioni del tempo, con le durezze climatiche -. Qui il verde è il grande maestro di un racconto in cui domina la scena, mostrandoci quanti verdi può essere e diventare, e possono anche essere verdi blù o rossicci, o stinti e dilavati fino a essere bianchi o di quel turchese trascendentale, quasi imprendibile. Perché il verde è, in realtà, un colore che non sta mai fermo, come un bambino che cresce …

Ma naturalmente non c’è solo il verde – lo cito oggi, perché a maggio non se ne può fare a meno, con le vigne che splendono di verdi di tutti i colori – trasparenti e scintillanti – ci sono i colori delle altre stagioni, autunni ancora verdi, ma con campi biondi o rossicci… e qualche volta – d’improvviso – tutto bianco, magari con qualche albero carico di caki che rosseggiano, come un improvviso musicale.

Dopo molti giorni in campagna, ad annoiarsi nel verde silente, uno torna in città e si ritrova a guardarla con occhio più allenato a ‘vedere’; perché stare in campagna ti abitua all’osservazione. Può sembrare banale (forse è banale) questa constatazione. Lo è meno se uno si immagina con quali occhi viene guardato (e visto?) il paesaggio. Ne hanno parlato poeti (quelli che con la poesia mangiano), addirittura citandolo come fonte di ispirazione (Yves Bonnefoy, a proposito del paesaggio italiano); è il grande protagonista della letteratura, il paesaggio fa parte della narrazione – è il contesto in cui si svolge una storia -; ne parlano da sempre tutti quelli che gli riconoscono un ruolo centrale nella loro esistenza (viviamo vite più influenzate dal paesaggio di quanto ci rendiamo conto). I soli distratti sono sempre stati i politici, almeno quelli italiani. Se ne stanno interessando ora e ciò dovrebbe spaventarci molto; io non ho una grande opinione dei personaggi che animano (si fa per dire) la scena politica; mi sembrano opportunisti, di solito interessati a una propria sistemazione economica, ma soprattutto mi appaiono a volte come persone di cattivo gusto, persino ingenue, nei confronti del paesaggio.

Un esempio che mi viene in mente è la scoperta della via Francigena, da parte della politica e dei suoi uomini. Una buona politica sarebbe quella di coinvolgere il cosiddetto territorio in un gesto – camminare – che ha un senso profondo, per ogni viandante; far capire a imprese agricole che chi cammina in campagna è una persona che ama il paesaggio ed è alla ricerca di valori. E’ proprio questa ricerca, di sé, di un senso, di un obiettivo, che ha spinto gli uomini, nei millenni, ad andare a piedi attraverso terre che ha guardato e che ha cercato di ‘vedere’, trovando ospitalità o attenzione, o cura …

Invece la via Francigena della politica implica infrastrutture: non sono più i piedi di mille e mille uomini a tracciare il cammino, bensì attrezzi condotti da uomini che lo spianano. Non è il bastone che scosta il cespuglio, ma è la cesoia della pubblica amministrazione, che costruisce pure i ‘parapetti’ alla via, costringendo il viandante a percorrere una strada prefigurata da altri, non ritrovata mentre si cerca sé stessi. Ma questo i politici non lo sanno, perché cercano di far lavorare uomini che devono poi mostrare la loro gratitudine …

Questa fregola di ‘normalizzare’ tutto è tipica di gente che ha bisogno di tenere il futuro sotto controllo, che pretende di eliminare l’imprevisto – che è invece ineludibile – dimenticando che anche le montagne si muovono (l’Himalaya addirittura di due centimetri l’anno) – perché il futuro non si può contenere, né recintare, né pianificare. Bisogna ‘vederlo’, mentre si guarda, più in là del proprio naso.