Io non so chi sono io

Di solito è meglio scrivere di mattina: resta la traccia dei sogni e poi qualcosa di fresco affiora tra una parola e l’altra. Al mattino folate di parole mi frullano intorno e non sempre riesco a fermarle; anche se raccomando di restare: c’è troppo vento, troppa luce, troppo tutto. Il mattino è il momento più bello, ma non subito: dapprima può sembrarti difficile, ma se ti agiti un po’, ti scuoti e ti riscuoti e ti pensi come un contenitore – non solo succhi gastrici, saliva e tutto il resto -, ma come una fiala, una fiasca, in cui far stare o mettere insieme a quello che già c’è, tutto quello che arriva, con il tempo e la pioggia o a folate, appunto, parole, sabbia, foglie, pensieri, gocciole e prima colazione.

Ma prima è meglio muoversi, uscire, guardarsi intorno; finire di disintontirsi e incominciare a stupirsi; non sapere se hai “le ali ai piedi” e pensare di stare attenta a non prendere una storta (non c’è mica la mia fisio a miracolarmi, qui). Invece il ritmo non include la scrittura; scrivo da seduta e non va bene: il mattino vuole movimento, solo muovendo le gambe si mette in moto la testa, lentamente (ma invece sembra che tutto accada così in fretta) le idee rientrano negli appositi alloggiamenti e si mettono quiete, spesso cambiano significato, a volte impallidiscono, altre volte addirittura scompaiono senza lasciare il minimo segno. Tutto sembra normale, ma poi ti trovi a camminare e guardi la gente in controluce e vedi come il sole mangia i contorni e li fa baluginare, affondi in questa visione e ti viene da pensare se gli altri ti vedono come tu vedi loro. E magari pensano a chi sei e si raccontano delle storie, come fai tu. Di mattino, prendendo a prestito una vita.   

Dire, fare, baciare, lettera, testamento

Chiamiamolo pure blog; tuttavia questo ‘spazio’ è più pieno di cose non pubblicate che di ‘cose postate’. Perché una delle deformazioni del mio modo di pensare mi viene dagli anni frizzanti della pubblicità; è qualcosa che potrebbe essere sintetizzato con l’espressione “mettersi nei panni degli altri”. Perché lavorando in pubblicità ti trovi a ragionare secondo obiettivi che non sono i tuoi personali (ammesso che uno viva così lucidamente – o stupidamente, o intelligentemente – dandosi degli obiettivi, e magari anche dei sub obiettivi, come si dice che facciano quelli dei club dei super potenti che di fatto governano il mondo).

Se fai la pubblicità gli obiettivi sono quelli del tuo cliente, che ti paga per raggiungerli, ma per farlo devi mettere in atto azioni che tengono conto dei gusti, dei tormenti, delle ansie e soprattutto delle aspettative di quelli a cui ti rivolgi per far raggiungere al tuo cliente gli obiettivi di cui sopra. Quelli a cui parli sono il tuo “pubblico” e di solito, chi fa la pubblicità quelli lì li conosce bene, perché ha letto, consultato e imparato, delle ricerche che raccontano i pensieri, le ansie, le paure e le aspettative di quei raggruppamenti di persone indispensabili a raggiungere gli obiettivi del cliente.

Questo modo di procedere (conoscere per agire di conseguenza), di muovere le cose per ottenere degli obiettivi, più o meno consapevolmente nella vita è usato da tutti. Negli animali lo chiamiamo istinto, negli affari si chiama fiuto, talvolta ci può portare a comportamenti spietati – sovente lo vedo fare in politica e nel cosiddetto mondo degli affari -; ogni tanto diventa una storia, o un bel film; qualche altra volta diventa uno spot pubblicitario, come quello del Buondì Motta, di cui discutono in molti in questi giorni su Facebook, scrivendo di tutto, e soprattutto razionalizzando un messaggio che non deve essere razionalizzato, perché il punteruolo di quella “storia” deve andare a colpire un obiettivo che (magari) non è quello di chi la guarda. Per lo meno non è quello di tutti quelli che guardano la pubblicità alla tv : è l’obiettivo del cliente e solo quello importa che sia raggiunto. Perché magari mentre la mamma “muore”, il Buondì Motta resuscita. E la presenza, e l’assenza, delle virgolette non è casuale.

Io però penso che i pochi che leggono (e chissà perché lo fanno) questo blog minimalista … pensino. Ne sono quasi certa e quando mi viene da scrivere qualcosa – indotta dal mezzo che ti permette di essere letta, ma che nel farlo ti espone al rischio di passare per stupida – mi metto nei loro panni e perciò, il più delle volte, parcheggio quello che ho scritto (magari interrompendomi) nelle bozze, perché riesco a immaginare l’effetto che gli può fare … oppure perché mi accorgo che sto rivelando un mio pensiero che non mi va di condividere.

Tutto questo mi veniva in mente risvegliandomi in questo incredibile mattino, freddo e terso (e ancora buio), mentre nella testa mi risuonava un coro, proveniente da un sogno, un coro di voci bambine che recitavano perentorie: dire fare baciare lettera testamento. Quel gioco infantile che quando ero bambina mi poneva il mistero di quello che (mi) sarebbe successo, a seconda di quello che avrei scelto, dovendo scegliere a  occhi chiusi. Dire che cosa, fare cosa, baciare chi, che lettera (e quanto lunga) scrivere, e la misteriosa voce ‘testamento’ che nel gioco ha un significato e corrisponde ad azioni, che cambiano di volta in volta e un po’ arbitrariamente. Dire, fare, baciare, lettera, testamento. Che pena scegliere?

 

Incassare stanca

“Modifica contrattuale. La informiamo che per le mutate condizioni di mercato, nelle fatture emesse a partire dal 01/10/17, sarà introdotto un contributo pari a 0,60 euro (iva esclusa) per i costi di incasso sostenuti da Wind Tre. Può recedere o passare ad altro operatore senza penali …”, eccetera.

Credo che questa comunicazione di Wind a un’amica che aveva un contratto business spieghi molto bene i tempi strani che stiamo attraversando. Però, prima di mettersi a imitare Wind Tre proverei a riflettere sul significato di questa clausola contrattuale introdotta da cotanta azienda.

La stagione è stata molto faticosa – la siccità, gli incendi, l’idea del clima che cambia -, ha messo a dura prova i nostri nervi, anche senza sollecitare la memoria evocando le prodezze dei politici, perché l’arsura di per sé stanca..

Abbiamo avuto – ed è in corso – una stagione turistica molto ricca e faticosa (per chi lavora: vedi imprenditori che stanno al pezzo e loro collaboratori e dipendenti), ma abbiamo dovuto sopportare le intemperanze borderline al delinquenziale di turisti che hanno preso l’Italia per un vespasiano (nel senso delle pipì), tanto da riuscire a far puzzare come orinatoi alcuni degli angoli più suggestivi e cantati del paese, come il cuore di Firenze, Roma e Venezia. Per tacere dell’arroganza di chi ti parcheggia sui gradini di casa perché camminare stanca.

Abbiamo in corso un drammatico continuum di migranti che non siamo riusciti a capire – anche per via di tremori, cautele, ipocrisie, nascondimenti, appelli alla solidarietà, insofferenze (citati in una mescola molto libera) – che cosa significhino, non solo che cosa sta succedendo loro ma anche che cosa (o che cose) dovremmo fare e chiedere che si facciano (ammesso che esista qualcuno che abbia interesse o inclinazione a farle); perciò ci chiediamo continuamente come andrà a finire questa storia. Perché avere paura stanca.

C’è un ministro, anzi una ministra (ma non solo in Italia) che ha deciso di spaventare a morte (alla lettera) i cittadini, in particolare quelli che sono genitori o nonni di piccini, imponendo un’inedita tornata vaccinale che pare più che altro un segnale di una mentalità e il prodromo di un nuovo rapporto con i cittadini, che finora cercavano con mediamente buon giudizio di espletare questo atto medico nei tempi più opportuni per i loro piccini. Si è così innescato un meccanismo di resistenza spesso spaventata che sfianca le famiglie, ma che potrebbe generare dell’altro. Perché anche essere genitori in certe situazioni stanca.

C’è in corso una guerra alle donne da parte di alcuni individui che sembrano inferociti nei loro (nostri) confronti. Perciò le donne vengono strangolate, bruciate, accoltellate, sparate, ustionate, bastonate a morte, squartate, ma soprattutto vengono violentate, stuprate, sodomizzate, con tutte le possibili terribili varianti anche inimmaginabili. Chi lo fa di solito poi si pente, o non c’era o se c’era era sconvolto e non aveva ben capito che cosa stesse facendo. Per questo i mostri di cui cito “le gesta”, vengono protetti, compatiti, scusati, attenuati, e spesso sono a casa dalla mamma (mamma coraggiosa, indeed!), accuditi e coccolati. Però l’assenza di limpidezza nel riportare i fattacci, per paura che l’opinione pubblica si faccia delle opinioni “sbagliate”, stanca e stufa e forse fa anche di peggio.

E’ proprio in questo contesto, tutt’altro che sereno e promettente, che viene a cadere il messaggio giunto all’amica che cito all’inizio di questa cronachina. Per questo mi domando: ma allora, anche incassare stanca? Di certo deve essere un disturbo, ma come mai?