Non ci credevo, non volevo crederci; mille volte, passando in quel viottolo avevo osservato che bisognava camminare stando ben accostati a monte, soprattutto d’estate, dopo la crescita tumultuosa di erbe, rampicanti e arbusti piccoli, che tutti intrecciati tra loro davano una falsa idea del sentiero percorribile.
Invece eccomi giù, di schiena, con la nuca affondata nel punto più basso, in un morbido ma ahimè cedevole cuscino erbaceo pervaso da spine e lappole pungenti, consapevole del salto ben più drammatico da cui il mondo vegetale mi stava riparando – sopra di me il cielo e i suoi abitanti, uno scorcio di case appena intraviste, il greppo da cui mi ero distrattamente scostata – con la consapevolezza di essere stata (per il momento) appena sfiorata da pochissime spine delle tantissime che immaginavo in attesa delle mie prossime mosse.
Ho provato a gridare due volte aiuto, ma più che altro per sentire il suono della mia voce; del resto non pensavo che l’invocazione sarebbe stata udita e, in caso affermativo, ascoltata. I più avrebbero pensato a qualcosa di casuale, e oltretutto l’età media degli abitanti del villaggio dove abito pro tempore li fa abbastanza sordi (cominciando dalla sottoscritta).
La posizione in sé non era scomoda, l’ora ancora fresca, il cielo limpido, i profumi di erbe e fiori molto buoni; ma uscirne sembrava poco possibile: solo un piede stava sul terreno solido ed era impossibile pensare di raggiungere qualche erba con radici e fusto robusti e aggrapparmici, impossibile dalla mia posizione – con la testa più in basso in una specie di shirokemi incompleto -.
Se forzavo troppo per riuscire, in qualche modo, a slanciarmi in avanti e in su, era quasi certo che il mio peso moltiplicato dallo slancio avrebbe sfondato la rete di liane che mi teneva sospesa e sarei caduta giù nello strapiombo, magari solo per qualche metro, ma passando attraverso una griglia di spine …
Dopo avere gridato aiuto – e riso di me stessa mentre gridavo – mi sono venute in mente le ginestre che abbondano sul mio cammino mattutino: unico arbusto a cui sin da piccina mi veniva suggerito di attaccarmi in caso di scivoloni o cadute; poi mi raccontavano la storia degli Angiò e dei Plantageneti. Così anche stamattina, nei minuti in cui non riuscivo a risolvere il modo per uscire da quella situazione precaria e spinosa, cercavo di ricordare come si chiamava quello che nel cadere da cavallo pare si sia salvato proprio grazie a una ginestra a cui era riuscito ad aggrapparsi. Peccato che le ginestre, lì non ci siano: solo rovi fioriti e profumati, intessuti ad altre erbe che li mimetizzano e hanno attenuato le punture delle loro spine.
Sapevo che proseguendo nella caduta le punture non sarebbero state così lievi: quelle spine mi sembravano le unghie di un felino … Tuttavia gridare non serviva, potevo solo sperare che qualcuno passasse di lì, cosa sempre più improbabile con il progredire del sole.
Mi è venuta in mente quella storiella del passerotto intirizzito e moribondo, salvato momentaneamente da una cacca di mucca che lo aveva riscaldato; una storiella lunga e articolata, la cui morale (non così scontata) dice che se sei nei guai è meglio non farlo sapere a nessuno. Del resto io anche provando a farlo sapere non c’ero riuscita …
Non potevo nemmeno capire se qualcosa era uscito dalle mie tasche – cellulare, chiavi di casa, macchina fotografica – ma ero contenta di essermi vestita, come spesso mi succede, più del necessario: la felpa che indossavo nonostante l’aria del mattino sia più tiepida del solito mi aveva protetto le braccia e la schiena da graffi e punture; non riuscivo a girare molto la testa, e quel che intravedevo accanto a me erano solo vilucchi rampicanti e spine.
Ho pensato che avevo tutto il tempo per provare dei piccolissimi movimenti, ho cominciato a saggiare qualche festuca, avvolgendomela intorno a una mano … scegliendone diverse, con radici diverse e fusti … mi è venuto in mente Edward De Bono e il suo pensiero laterale – ascoltato e imparato alle sue conferenze – quello che si impara a usare per trovare soluzioni alternative, quando quelle scontate non danno risultati.
Mi sono chiesta se ‘laterale’ poteva essere una soluzione e ho provato a saggiare con prudenza da che parte ruotare, piano, per tentare uno slancio verso il punto solido del sentiero. Ha funzionato, solo in parte, ma il rotolamento deve aver diluito il mio peso, un po’ come accade facendo judo.
Mi sono trovata a faccia in giù, sulla terra e con una mano che annaspava in cerca di un appiglio, possibilmente senza spine. Il caso ha voluto che lo abbia trovato … e che per un soffio il rotolamento in mezzo alle erbe abbia sortito un buon effetto. Ridevo, da sola, pensando al volo che avevo rischiato di fare, contenta che nessuno avesse sentito (o ascoltato) il mio grido d’aiuto.