Ieri sposi, a Firenze

Tutto perfetto, a cominciare dalla giornata: ventilata, col sole che disegnava nitide le pietre di Palazzo Vecchio, in piazza della Signoria. Signore eleganti, signori commossi; la sala rossa dei matrimoni ispira un sentimento quasi religioso, conferendo al matrimonio civile una sacralità inattesa. Si sposano presto, gli amici, perché c’è uno stand by pazzesco di giapponesi che vengono a sposarsi a Firenze (che è, indubbiamente, chic) e l’ora, arrivando dalla campagna, richiede un caffè che risarcirà le emozioni e la levataccia. Da Rivoire il caffè è perfetto e il cameriere spiritoso e gentile. Ci tornerò, per ricordare gli amici e il giorno bello. Ci torno, ma non in taxi. Quello che mi riporta indietro, all’auto lasciata al limite della città, guida lemme dietro a un ciclista, parlando al cellulare e quando smette, alza il volume dell’autoradio per sentirsi meglio. L’abbassa quando deve dirmi “diciassette euro e dieci”.

La Libertà non è star sopra un albero

Mi è venuto in mente il signor G stamattina mentre camminavo tra vigne vendemmiate e no. E su quest’ultime i grappoli piuttosto radi si dondolavano sospinti da una tramontanella (che sarebbe perfetta se le settimane precedenti fossero state meno calde).
Mi è tornato in mente il signor G, ascoltando la rassegna stampa alla radio, con la notizia – di cui non si capisce ancora bene la portata – del comma che parla dei blog, nella legge sulle intercettazioni che ha iniziato il suo iter parlamentare.
Mi è venuto in mente anche il Barone Rampante (forse Gaber a quel libro si era ispirato, scrivendo la sua canzone?). Pronti per salire sugli alberi, blogger italiani? Censura come in Cina? Davvero riusciranno a imbavagliare la rete? Farebbe comodo: ci sono circostanze in cui tocchi con mano che il dissenso dà fastidio. Il dissenso disturba, perché incide sul fatturato a breve termine. Anche per questo il nostro futuro ha le gambe corte.

Indovina chi premio io

Nella gamma di accadimenti, pensieri, riflessioni e sorprese, entra a buon titolo un premio, tra le cose che accadono in questi luoghi. Riportando un premio dovrei annotare che ci ritroviamo tra la campagna e la provincia, tra il senso della ruralità e il business, con uno sguardo appena appena alla politica e con (finalmente!) un po’ di mondanità.
Il Premio “Casato Prime Donne”, lo conosco da quando è nato – in tempi meno tribolati, con un mondo allora teso a ‘crescere’, magari in modo ‘sostenibile’ , perché così era politicamente più conveniente –. Per me era un ideale proseguimento del premio “Barbi Colombini”, ideato e lanciato (se non erro negli anni ottanta) da Francesca Colombini, una con l’occhio lungo e il passo saldo. Così l’ho vissuto in questi anni, e non ci sarebbe stato niente di male (anzi!), tuttavia mi era sempre un po’ sembrato un ‘succedaneo’ più che un vero proseguimento del precedente premio, forse perché vi intravedevo troppo ‘vulimmusebene’, rivolto a una comunità di cui mi sembrava urgente, invece, spalancare le orecchie alle nuove canzoni del mondo.
Invece sono rimasta sorpresa dall’evoluzione positiva di questo premio che ha trovato – già nella fase ‘ufficiale’, al teatro degli Astrusi – in chiave meno forzata e più vivace, con le sue brave note kitsch (come tutti i premi), ma anche con aspetti divertenti e simpatici. Con la ‘gaffe’ del giornalista olandese (premiato) che borbotta cose incongrue sul Brunello di Montalcino, ma con la premiata super – la signora Fendi – che ci fa intravedere un’Italia che produce intelligenza, bon ton e solidarietà (e dio solo sa quanto ci servirebbero esempi di questa classe!). Bella la festa a Trequanda, col clima giusto e gli dei benevoli.
Sarei dunque pronta per il ‘lecchino d’oro’ di Prima? Be’ no, una critica precisa ce l’avrei: quando ci si chiama “premio Casato Prime Donne”, perché restare nel ‘recinto’ donnesco, per poi lasciar entrare un uomo come il giornalista di cui sopra? E ancora: che siano Prime Donne quelle che premiano (tra l’altro con una giuria di prim’ordine) benissimo; ma forse i premiati non potrebbero essere di entrambi i generi?
Così, anche per questa volta, niente ‘lecchino d’oro’!

Che cosa pensa la Montagna

Le cose non sono sempre come appaiono, le montagne nemmeno. L’Amiata è costituita da una massa di trachite che contiene un immenso lago. Sull’Amiata c’era Padre Balducci. L’Amiata è una montagna ricoperta da faggete. Sull’Amiata si scia. L’Amiata è ricca di piante officinali. Sull’Amiata ci sono le miniere. Le castagne dell’Amiata venivano essicate nei ‘metati’ (che sono costruzioni tradizionali). Sull’Amiata ci sono i tibetani. L’Amiata è un crocevia spirituale. Sull’Amiata c’è una comunità ebraica. L’Amiata è un antico vulcano. Sull’Amiata si fa ricerca spirituale. Sull’Amiata salgono documenti e pratiche, poi tornano giù. L’Amiata è ricca di sentieri. Sull’Amiata crescono le ciliegie. L’Amiata mi sembra un po’ pensierosa.

Dieta Mediterranea

Sant’Angelo in Colle, 23 novembre 2011, 9:30 am. Un dio benevolo ha inventato la toscanità, ne ha fatto un mosaico e ha sistemato le tessere più succulente tra Montalcino e la terra maremmana. Gianfranco ha apparecchiato, poi Pino l’elettricista, Mario il ciclista, Jolie la californiana, Ferruccio Ricci, le gemelle di Fonterenza e Marcello di Collemattoni (il Brunello è proprio il suo) si sono seduti.

Quando serve un Rompighiaccio

Come si fa a cambiare il mondo? Bella domanda, con una risposta banalissima: facendo circolare le idee. Sì, lo so che non basta, eppoi quando si ha fretta, l’idea di far circolare … le idee può sembrare inadeguata. Succede perché viviamo in un paese che rincorre le emergenze; le ricette per raggiungere un obiettivo vengono tirate fuori solo all’ultimo minuto, quando l’obiettivo da raggiungere è diventato emergenza.
Ma l’esperienza insegna che, mentre con un occhio controlliamo che l’emergenza venga santificata, con la mente (e, quando si tratta di campagna, di vino et similia, anche col cuore) dobbiamo applicarci al futuro, che è sempre dietro l’angolo e di cui conosciamo già le richieste.
Insomma con un occhio qui e uno oltre, dobbiamo procedere; è quella che si chiama ‘navigazione a vista’, un passo dietro l’altro, per fronteggiare il momento, ma con un occhio avanti, per scongiurare flessioni, cadute, peggioramenti.
Ma, riprendendo al volo l’incipit di questo post, vorrei soffermarmi sull’importanza che le idee circolino, vengano scambiate e discusse; non solo perché questo è il contrario dell’omertà – concetto odioso, che prevede che ci si uniformi supinamente o quasi all’uso imposto da alcuni – ma perché le idee nutrono l’opinione pubblica e la mettono in movimento, la distolgono dalla pigrizia con cui ci si appoggia al muro (di gomma) delle consuetudini.
Mi pare di avere scritto – tempo fa – qualcosa sui pensieri che in campagna sono (o diventano) irregolari. Una volta lo si diceva di uno un po’ ai margini dei comportamenti attesi (dagli altri); ora, un po’ di pensiero fuori dagli schemi non può che fare bene.
Sono stata sottoposta, più volte, a seminari sul ‘pensiero laterale’; nei decenni, si sono avvicendati i diversi ‘guru’, i temi sono cambiati e le modalità di approccio si sono evolute. Ma una regola di fondo è rimasta viva ed è l’abitudine al continuo scambio di idee, senza porre confini al proprio pensiero. Così si cambia il mondo.

Le Smanie per la Vendemmia

Vendemmia come uno slalom gigante, quest’anno. Nei filari ogni grappolo racconta una storia diversa. Ma, a parte il gusto (che non avrei) di fare il bastiancontrario, mai come ora sono apparse melense le pretese di dichiarare che tutto è bello, tutto è perfetto, in un settembre ancora così caldo che anche quelli che pensano solo alla spiaggia sono un po’ stufi.
Da qualche parte tutto potrebbe essere anche perfetto, ma l’impressione che avverto è quella di una vendemmia difficile e onerosa, in cui conteranno più che mai il coraggio e la consapevolezza di ciò che si sta facendo. E anche se queste cronache non hanno vocazione enoica, in questa bella campagna il vino domina, e la vendemmia vuole la sua parte.
Scambio due parole con un vignaiolo di quelli che raccomanderei ad occhi chiusi, che finora non si era troppo ‘sbottonato’, e quello che gli sento dire – “passo tutti i giorni nelle vigne, con un operaio solo: con lui butto giù tutti i grappoli che non mi piacciono, perché quando sarà il momento poi non si riesce a controllare il lavoro di ognuno e quando si vendemmia, nella squadra non tutti sono allo stesso livello, per non parlare della capacità di attenzione” – mi conferma quello che avevo già orecchiato qua e là: più lavoro, meno quantità. La qualità è ancora un altro discorso.
E quello che viene in mente, sentendo ogni tanto dire che tutto va bene, in modo quasi automatico, è che invece proprio le difficoltà, gli imprevisti, il tempo (e la temperatura) che si mettono di traverso, la fatica e l’idea che l’annata sia problematica, possono essere non solo raccontati, ma per tutta una serie di motivi e ragioni possono perfino dare l’opportunità di un racconto più coinvolgente. Senza il buio della notte che la precede, che emozione ti può dare un’alba?

“Ma poi che cos’è un Vino?”

È quello che dovrebbe chiedersi qualche docente – di marketing, di comunicazione, di quello che volete voi – è soprattutto quello che dobbiamo chiederci tutti, prima di mettere in atto politiche e strategie promozionali.
Non può non tornarmi in mente questa domanda in tempi di vendemmia (e Rostand non si rivolti nella tomba, perché un bacio e un vino hanno qualcosa in comune). E gli amici (e le parenti) che il vino lo producono e i circostanti che si occupano di comunicazione – chiamo fuori da questo discorso il giornalismo che invece si occupa di informazione – proprio in questi giorni di vendemmie complicate e impegnative, il cui frutto lascia ben più domande delle consuete, potrebbero alzare il capo dal lavoro in corso e finalmente porsela anche loro.
Non è una domanda retorica, non è una domanda capziosa, non è nemmeno polemica: è la base da cui partire per fare della comunicazione sul vino, per farlo conoscere, per promuovere un’etichetta, un marchio o una doc. Per promuovere bisogna saper commuovere e se il verbo non vi piace posso sostituirlo con ‘emozionare’, oppure creare interesse.
La cosa buffa – si fa per dire – è che il mondo del vino è una vera e propria biblioteca di emozioni: mi viene in mente soprattutto(ma non solo) in tempi di vendemmia, quando sarebbe interessante che invece di sparare numeri o dati inamidati, che vengono letti come si beve un bicchier d’acqua, a qualcuno venisse in mente di coinvolgere gli spettatori / lettori nei sentimenti che la vendemmia porta con sé. Qualcosa di talmente emozionante, da essere in grado di mettere in sintonia vino con uomini (e con consumatori potenziali) in modo profondo. Vino con l’anima? Eh sì, e con il cuore e con la mente. Perché senza emozioni non si comunica. I numeri lasciamoli a chi deve far tornare i conti. E se saremo capaci di emozionare in modo non retorico e banale, i conti torneranno meglio.

Quanto vale un Cugino di Campagna

“Ciò che rimane della campagna” – titolava La Stampa giorni orsono – dandoci un numero: 12 milioni di ettari. Nessuno ignora che il consumo del suolo nel nostro paese è stato – credo soprattutto nel dopoguerra – totalmente dissennato. Ma quando da tre miliardi, la popolazione mondiale sale a sette, che cosa mi aspettavo? Forse che la gente andasse a dormire appollaiata sugli alberi e si muovesse da un continente all’altro dell’universo mondo percorrendo viottoli, in una campagna senza fine? Certo che no. Il fatto che la superficie utile all’agricoltura, nel nostro paese, sia scesa – nei centocinquant’anni in cui abbiamo fatto l’Italia – da 22 milioni di ettari agli attuali 12, può essere anche letto come un segno dell’evoluzione di un paese che era agricolo ed è divenuto una potenza industriale. Ma i 10 miliardi di fatturato annuo, che i succitati ettari producono – in questi tempi di vacche magre – sono anche un segno dell’importanza della campagna come luogo di lavoro; un luogo anche di rilancio della nostra cultura che riguardando (per una volta rovescio ciò che di solito si afferma) i nostri luoghi e i nostri prodotti agricoli può aiutarci a ritrovare un vettore di sviluppo meno datato della solita industria.
Potete anche pensare che ciò che scrivo sia inesorabilmente superato – come mi ha detto a chiare lettere un professorino inesperto, tempo fa – ma La Stampa in questo caso vi smentirebbe, perché ci spiega che, non solo l’agricoltura ma anche il paesaggio, che finalmente viene considerato come risorsa economica, sono soggetti ad alto valore aggiunto. E finalmente “valore aggiunto” – espressione da pubblicitari, ma usata a vanvera da economisti e professori universitari – qui vuol dire qualcosa, perché sta a significare quel quid in più, impalpabile, o se preferite immateriale, che ci fa stare meglio, che ci fa sentire ‘felici’ o anche solo ‘soddisfatti’ quando guardiamo un bel paesaggio o addentiamo un cibo che sa di quello che deve sapere.
Questo mio modestissimo blog è nato per dare valore alla campagna – spesso maltrattata e tuttora misconosciuta da molti, persino dalla UE – infatti riporta in testa una citazione dalla “Dichiarazione di Cork, per la priorità dell’ambiente rurale in Europa”. Un documento che non è mai stato esplicitamente implementato da programmi che lo facciano marciare. Un documento ignorato dalla maggior parte dei nostri amministratori pubblici. La campagna è una risorsa, un serbatoio di idee e di benessere. Andate on line a leggere la ‘dichiarazione’ appena citata e troverete una miniera inesplorata; e nel frattempo, ricordate che il cibo arriva dalla terra.

Va pensiero (e raggiungi il target)

Vigilia di vendemmia. Uno dei temi che più si prestano alla retorica (e alla retorica dell’antiretorica). Dopo il caldo africano che ha indotto una serie di paturnie e pensieri cupi, l’inoltrarsi di questo settembre mi dà un’idea di “straordinaria normalità” stagionale. L’alba che – giorno dopo giorno – è più fresca, l’aria un po’ meno umida; i colori si velano e si attenua progressivamente quella sensazione di essere nella morsa implacabile di un disastro ecologico epocale. Solo paturnie? Quasi. Perché le rese nelle vigne e in cantina saranno basse, leggo in una mail ricevuta ieri da Angelo Gaja – signore dall’occhio lungo, che ogni tanto mi tira le orecchie –. Ma per una volta, il segno meno è positivo perché AG dà una notizia che non deve passare inosservata, anche se richiederebbe, prontezza, sagacia e uno spirito di squadra ancora inesistente nel nostro paese (sono una che spera).
“ Il vino non ci esce più dalle orecchie”, prosegue nella mail, comunicando che le cantine sono tornate a livelli normali “se non di scarsità”. Quindi uno scenario nuovo, che consent(irebb)e al vino italiano di ripartire, con politiche e con strategie adeguate, che inducano – Gaja dixit – “una domanda più qualificata … L’Italia del vino ha tutte le possibilità di farcela: per il fascino dei territori, le varietà autoctone, storia e tradizione, ma molto, molto di più: per avere un patrimonio umano straordinario” costituito da “un numero così elevato di viticoltori e produttori di vino che nessun altro paese al mondo ha, una ricchezza che merita di essere valorizzata ed è in grado di produrre rapidamente risultati migliori.”. Ecco, sarei più contenta di vivere nel mio paese se – oltre a dimezzare come promesso il numero dei deputati – si trovasse la capacità di essere strategici davanti a un messaggio come questo!