L’abitudine di guardare e guardarsi attorno fantasticando e lasciando errare la mente, ogni tanto mi fa leggere tutt’altro, nelle apparizioni altrimenti consuete o addirittura banali.
Così, in questa stagione di infelici e drammatiche congiunture – con il cuore della terra che ora sembra si sia fatto carico di scaravoltare le nostre scale valoriali, relativizzare le priorità e rimettere in discussione alcuni ‘paletti’ che sembravano essere i solidi punti di riferimento del nostro esistere – cammino in campagna e mi scopro a pensare che la terra, nel suo sbollire primigenio, quando era abitata da dinosauri e altre misteriose creature, magari assomigliava al microcosmo che mi è capitato di ammirare mentre oltrepassavo la vigna lì dietro. Poi mi sono svegliata scoprendo invece che il mondo che conoscevo è finito da un pezzo.
Archivio mensile:Maggio 2012
Carabinieri (e Poeti)
Diciamolo francamente: quando ti fermano per strada e tu stavi guidando, il primo sentimento è di timore e la domanda che viene spontanea è (quasi) sempre la stessa: “oddio che cosa ho fatto!”. Nei piccoli paesi, dove tutti, più o meno, ci si conosce può anche essere un po’ diverso. I Carabinieri sono quelli che tengono in ordine il territorio; e in questo caso, la parola “territorio” è intesa nel senso comunemente usato, ma spesso anche – in modo più anglosassone e più specifico – come il luogo in cui ci si misura e in cui accadono cose.
Per quanto mi riguarda, la loro vista mi suscita uno sfrizzolo un po’ polemico – sedimenti di una gioventù molto cittadina e molto studentesca, quando le divise marcavano una (vera o supposta) contrapposizione -: perciò, ora che sono vecchia e consapevole che ogni età della vita ha i suoi ‘plus’, io cerco di sfruttare il capello bianco a mio vantaggio insieme al senso del dovere connaturato all’Arma. Ma quello che mi colpisce da sempre è la contrapposizione dei due colori della loro divisa – quel blu e quel tocco di rosso – che credo ci comunichi la l loro presenza più di qualsiasi altro elemento.
La divisa prevale; tu parli a ciò che lei rappresenta, prima (o invece) di parlare all’uomo che essa riveste: questo è un effetto voluto e ben ottenuto; però può anche capitare di incontrare un poeta che si è – legittimamente – vestito da Carabiniere: parla da Carabiniere, ma si sente che è anche portatore di istanze diverse. Allora sono curiosa di leggere quelle poesie e capire come un Carabiniere possa diventare un Poeta…
Plantageneti
Chi gira per le campagne, in questo mutevole scorcio di maggio, sarà improvvisamente avvolto da ineffabile profumo, talvolta anche troppo acceso, all’improvviso. E’ un’imboscata che ti fa il paesaggio, per altro apparentemente immutato (salvo l’erba che cresce a dismisura); poi improvvisamente incontri una macchia giallo vivo, che inizialmente si mescola a cespugli più bassi e ad altre fioriture – cisto, rosa gallica – con odori e sentori meno appariscenti; ma con il procedere del tepore stagionale, il giallo si fa ridondante e sovrasta tutte le altre fioriture. Di primo mattino, quando incontro le belle ginestre profumate, mi viene in mente la nonna che mi raccontava la storia del ramo di ginestra che sta nello stemma di Goffredo d’Angiò e dei suoi discendenti che per quattrocento anni regnarono sull’Inghilterra, fino a che i Tudor non li fecero fuori.
L’amicizia che sento nei confronti delle ginestre – che pure sono un pochino invadenti, nonostante la loro bellezza – è proprio legata alla nonna che mi raccontava come Goffredo, cavalcando sul ciglio di uno strapiombo, si fosse aggrappato ad una ginestra per non cadere e come questo robusto e affidabile arbusto gli avesse salvato la vita, divenendo l’emblema sul suo stemma e dando il nome al casato: “Plantageneti” dal francese arcaico “planta genet” (con il circonflesso sulla seconda ‘e’, che non son capace di apporre!).
La campagna è proprio stimolante, fa venir voglia di mangiare sano e ascoltare storie che ci narrano i nostri legami con la terra, i suoi frutti e le leggende che affondano le loro radici nel profondo; radici robuste e salde che, come quelle della ginestra con Goffredo, ci aiutano a non cadere…
(Questo blog, per esempio, è nato dal ricordo della “Dichiarazione di Cork, per la priorità dell’ambiente rurale in Europa”, di cui riporto un breve passo, nella testata).
Il profumo delle ginestre abbaglia e stordisce e il giallo – di solito un colore difficile da digerire, poco popolare, tanto che in Francia c’è un proverbio che lo abbina all’esser cornuti e in Italia non è messo molto meglio – ricorda quello di un sole, disegnato da un bambino ottimista
Lezione di Economia
Incontro Vera, che è mia coetanea e si è lamentata recentemente con me, perché le ho fatto un ritratto (insieme al marito) in cui si è vista troppo vecchia.
“Ma siamo vecchie!” osservo, ma lei in realtà non se ne è avuta a male affatto.
E’ una donna molto rispettabile e molto lucida; Vera; anche se non ha (forse) avuto molta esperienza ‘di mondo’, ha una visione molto equilibrata delle cose, di come stanno e come cambiano.
Facciamo due piacevolissime chiacchiere accanto a un olivo che i cui fiori stanno tramutandosi in minuscoli frutti, dando l’impressione visiva di un gran lavoro interiore (dell’olivo) e di tanta energia. Come quella che traspare dal volto sorridente di Vera, che stava trottando di buon passo, per raggiungere il podere in cui il figlio ha l’azienda agricola, quando l’ho intercettata.
Due chiacchiere, con Vera, vogliono dire un racconto e le osservazioni che fa – sui tempi odierni – fanno eco alla vita di un tempo lontano, quella vissuta da giovane, quando stava con i genitori e altre quattro famiglie in un podere, senza le comodità a cui siamo abituati, nemmeno quelle che oggi consideriamo indispensabili. E le capita di raccontarmi una cosa che mi rimanda con prepotenza ai giorni che stiamo vivendo.
Lasciando da parte i paragoni che mi saltano alla mente, il racconto di Vera tratta della vita quotidiana, a quei tempi, in cui – stando in un podere in campagna – non si faceva la fame, ma non c’erano soldi. “Perciò, mi dice, quando arrivava il ‘troccolo’ con la mercanzia da vendere, pochi tra loro (e poche volte) riuscivano a comperare qualcosa” (il troccolo era una specie di carretto da venditore ambulante). Mi racconta che per tutta l’infanzia ha desiderato il cioccolato, che solo rarissimamente aveva assaggiato e mi vengono in mente altri racconti di altre persone che avevano vissuto un’infanzia di stenti. Ma Vera, a questo punto fa un’osservazione di quelle sue “la fame non si pativa, certo, ma non si sapeva niente, nemmeno di quello che succedeva nel mondo: tutto il giorno a pascolare maiali in mezzo ai boschi e ai campi…”. E arriva all’episodio che a mio parere va sottolineato nella sua attualità rivelatrice. Mi dice che insomma si mangiava e non si stava poi così male in quel podere (tutt’ora in piedi e con una struttura molto bella), c’era buona acqua di fonte, per bere, cucinare e lavarsi che mancava solo “quando venivano i padroni da Roma, che la deviavano, riservandola alla villa e ai loro bisogni, per tutto il tempo in cui rimanevano in campagna”. Resto a bocca aperta, riflettendo che è fin troppo facile affermare che da quei tempi – di povertà assoluta – a oggi, certi criteri non sono cambiati, e anche Vera lo sa; anche se però, ciò che allora le mancava di più, il sapere e la conoscenza, oggi sono più accessibili, almeno per chi ne percepisce il bisogno, come Vera, che non a caso è una persona molto lucida. Chissà se anche a lei l’asimmetrica spartizione dell’acqua d’antan, tra i padroni e i loro contadini fa venire in mente qualcosa di attuale…
Che cosa ci stanno rubando
Confesso avrei voluto un titolo più glamour per quel bendiddio che mi è capitato in questa mia ancora vacillante mattina di maggio. Ma l’idea che questo bendiddio ce lo stiano rubando – i soliti trecento o un milione, o più di incapaci, o malversatori, o collusi, o corrotti, o ladri più o meno matricolati e ufficializzati – mi fa proprio inferocire.
Ciò fa di me, secondo alcuni, una pericolosa comunista o una (ahimé decrepita) terrorista, seppure in pectore e – sia ben chiaro!!! – senza armi, né bianche né da fuoco.
Ché, per quel che mi riguarda, il fuoco è nel forno (rigorosamente a legna), e i coltelli servono ad affettare il pane che nel suddetto forno viene meravigliosamente.
Tuttavia, il bendiddio ce lo sottraggono quotidianamente, e molti dei derubati non ne sono nemmeno abbastanza consapevoli.
Stamattina sono passata al podere, per conoscere e salutare due artigiani modicani che sono venuti a visitare un pezzo d’Italia che non conoscevano, rimanendone (sono parole loro) sbalorditi. Eppure questi signori non arrivavano da una terra qualsiasi, bensì da uno dei luoghi del barocco più reputati (e ammirati e conosciuti) e da un paesaggio affascinante. Essi hanno portato qualcosa che desse un’idea – che fosse una testimonianza – della loro terra. Cose prodotte dalle loro mani e frutto della loro esperienza e di tradizioni ancora non tradite.
Così mi è capitato di assaggiare gli ‘mpanatigghi modicani, che vi presento in una di queste immagini e che però non si sono limitati a lasciarsi gustare, ma mentre li masticavo e li facevo miei, mi hanno suonato trombe garibaldine, campane siciliane e raccontato storie…
“Ahh vecchia pazza!, ti conosciamo bene, te e le tue manfrine…!”, mi pare di sentire qua e là qualche commento. E certo io sono un po’ folle a ‘sentire’ racconti e ascoltare echi di canzoni e clangori di storie che pochi hanno voglia di udire, ma se vi dico che si tratta della stessa canzone che affascina milioni di persone – più colte di noi, che ci dimentichiamo di noi stessi e della nostra storia, per un piatto di lenticchie nemmeno biologiche o almeno nostrane -, persone che hanno letto, che hanno visto e ascoltato e che avranno voglia di ascoltare la storia di chi siamo, magari in un sorso di Brunello o in un morso a un ‘mpanatigghio, mi dovete credere. Persone che magari vengono da lontano…
Ecco, è questo racconto, questo intreccio di paesi e uomini, questi impasti e vendemmie e ciò che essi sono capaci di raccontare di noi, è ciò che ci viene piano piano sottratto; che viene usurpato o anche solo sciupato, a causa della nostra scarsa o nulla consapevolezza. Non sappiamo di essere (ancora) ricchi e non ci accorgiamo del desiderio che il nostro patrimonio suscita negli “altri”. E chi dovrebbe ricordarcelo è assente ingiustificato, mi pare…
Mi guardo intorno e vedo i piatti di ceramica della Vedova Besio (Mondovì); Una zuppiera delle ceramiche Cantagallo; una Moka (e scusate se è poco!); un buffet intagliato da un artigiano lombardo, i piatti di Vietri; vecchi pezzi di Richard e di Ginori; un Lisa Corti prima maniera…e una scatola di doni siciliani, prodotti dalle mani di Donna Elvira, a Modica, in Sicilia: ‘mpanatigghi, Savoia, Filetti. Siamo in un vecchissimo podere, a Montalcino, in Toscana, in Italia.
Scusate se è poco e vediamo di svegliarci (prima che ci rubino tutto).
Creatura d’Amore
Mi riesce difficile scrivere di che creatura si tratta e mi è impossibile compitarne il nome. Tuttavia sento di dover annotare qui (anche se improvvisamente un blog mi pare un luogo sacrilego) il suo addio; il percettibile movimento del suo corpo, l’ombra di quel gesto felice che gli veniva, quando porgeva la pancia per una carezza – magari frettolosa, ma non meno grata -.
Ma era tardi, gli occhi erano remoti; assente ogni espressione, al di fuori di un movimento della testa che si girava verso colei che (lui lo sapeva bene) non avrebbe permesso alcuna sofferenza senza un’adeguata speranza.
A me restano il tuo ricordo e il profumo dei fiori che tante volte hai calpestato (chiedendo scusa a chi legge, per la mia reticenza).
Ladruncola, quasi
Ero andata in edicola per il pieno domenicale – ogni tanto mi lascio andare a uno scialo di cose da leggere… – : il Corrierone, il Fatto, la Repubblica (massì!) e l’Internazionale. Il conto era di sei euro e sessanta.
La bimba che stava dietro al banco avrà avuto sì e no vent’anni e un bel faccino rotondo e liscio.
Era la prima volta che la vedevo e le ho chiesto se era cambiata la gestione; “no – mi fa lei – c’è sempre il mì cugino e io gli do una mano, oggi”.
Le allungo un biglietto da cinquanta euro, ma sono anche piena di monetine e sotto il suo sguardo attento tiro fuori anche una moneta da cinquanta e un’altra da venti centesimi.
Osserva con i suoi occhioni da bimba intelligente la mia chioma bianca e un po’ disordinata, mi chiede se voglio ‘una bustina’ in cui riporre i giornali (che le paiono tanti) e comincia a darmi il resto con diligente attenzione: una monetina da dieci centesimi e quattro pezzi da un euro. Poi, senza smettere di guardarmi fisso negli occhi, mette sul banco un biglietto da dieci e uno da venti euro.
Io sto già scorrendo i titoli delle prime pagine dopo aver rifiutato la ‘bustina’ e mi infilo automaticamente in tasca le monete del resto. Sto per mettere via allo stesso modo anche i due biglietti (totale 30 eu) che sono ancora sul bancone, ma mi accorgo che il suo sguardo non si stacca da me, quasi stesse esercitandosi a ipnotizzarmi. E’ giovane e mi fa tenerezza, ma c’è qualcosa di eccessivo nella fissità con cui mi guarda.
Qualcosa che mi distoglie dal sentimento materno e mi fa ricontare il resto: “con questi sono dieci, dico estraendo le monete dalla tasca della giacca, più dieci fanno venti, più venti (i suoi occhi non lasciano i miei, in un estremo tentativo di coinvolgimento ipnotico), fanno quaranta.” .
Non fa una piega, i suoi occhi non mi lasciano; allora ripeto il mio mantra; “questi sono dieci, più dieci venti, più questi altri venti sono quaranta”, questa volta sono più decisa e dentro mi sto arrabbiando.
Senza distogliere gli occhi dai miei, infila bruscamente una mano nel cassetto e con malagrazia (senza una parola, con le labbra improvvisamente strette) mette un altro biglietto da dieci accanto agli altri.
Penso che se continua ad allenarsi ce la farà. Il mondo è pieno di vecchie signore un po’ frettolose e molto distratte, ansiose di leggere qualche notizia un po’ diversa dalle solite.