Dio dei cani

qui, verso casa

Ci pensavo stamani dopo aver dato la via al vecchio cane artritico che man mano che si muoveva acquistava un briciolo dell’agilità dei tempi andati. Cane da guardia puntuale e tutt’ora vigile; anche se non tutti capiscono. Quando sei vecchio è fin troppo facile che ti trattino da stupido, pronti a impadronirsi dei rimasugli della tua vita. E poi magari stupirsi scoprendo che non sono scontati, né facili da maneggiare.

Ci sarà un Dio dei cani – lo pensavo mentre camminavo intorno a casa, nell’erba e sulle pietre, attenta al cane che mi seguiva per fare i suoi bisogni – e se c’è, il Dio dei cani, che cosa immagina per gli ultimi tempi di un animale vecchio e incompreso, vecchio e ingombrante, che sa di esserlo e te lo dice con gli occhi, consapevole che non faremo più una lunga camminata insieme – né balzerà ad aggredire l’estraneo, affrontandolo al tuo posto, anche se ci si proverà -.

“Fa la guardia”, “pappa”, “giretto”, “cacca”, “è bello il cane”, “vieni con me”, “andiamo”, e poche altre frasi e parole che conducono il filo di un dialogo con un vecchio cane che ha gli stessi vizi di noi uomini quando diventiamo vecchi, ma più di noi subisce le opinioni e gli sguardi di chi non sa e non capisce quanto vale la presenza di una creatura fedele anche se ha tutti i difetti delle vecchie creature – primo tra gli altri quello di ricordarci che anche noi passeremo sotto gli stessi sguardi, tra gli spini di giudizi impietosi, di occhi che non vedono l’ora di non vederti più -.

Ci sarà un Dio dei cani, e se c’è (ci deve essere!), che cosa penserà di questa passeggiata nel mattino finalmente fresco, nell’ombra e tra i cespugli, e di me che lo incito a muoversi, con voce allegra di un’allegria che sa di futuro breve ma testardo, perché “è bello il cane”, come gli dico, ma ha bisogno che tu glielo dica, altrimenti che senso ha essere un cane?

Così rivaluto le volte che, di mattina presto – sapendolo solo e attribuendogli capacità di sentire nostalgia o solitudine – negli anni ho condiviso un giretto con lui; lo rivedo mentre si volta indietro per avere approvazione o mentre sgroppa rincorrendo una farfalla nell’erba.

E proprio questa immagine a farmi tornare in mente Bastet – gatto-dio, dio dei gatti – evocato da Pablo Armando Fernandez Peres in una poesia – “De gatos se trata” – che canta l’innocente gioia di vivere di un animale. La stessa che ritrovo, quasi un’imitazione di quello che era, nei goffi salti e scodinzoli della quasi felicità di stamattina. Ci sarà un Dio dei cani.

A nostra insaputa

Sì, lo so che ci sono argomenti più urgenti, ma sono più urgenti solo in apparenza. Perché mafia e camorra che incendiano, un governo che annaspa di fronte ad anni di cecità ipocrita e collusa a proposito di “accoglienza”, una Nazione intera che se non sta attenta viene vaccinata in modo grossolano (e forse rischioso) sono certo dei temi grandi come una casa e ci danno la misura dello sprofondare culturale dei cittadini. Diciamocelo però: i cittadini che sprofondano, insieme al paese, avevano a malapena avuto il tempo di venire a conoscenza 1) dell’approssimativo significato della parola “cultura”, 2) di stare in un paese in cui – anche se nessuno gliel’ha mai detto (tanto meno il sistema scolastico, figurarsi le famiglie) – di cultura si potrebbe campare, nonostante il parere in proposito del fu ministro Tremonti, ad un patto, però: che ognuno di noi capisca e condivida il significato di tale parola.

La mia tirata odierna viene a galla preceduta dai seguenti accadimenti, avvenuti a poca distanza l’uno dagli altri. Mi ritrovo a fare i conti con 1) la spazzatura ereditata da due pulitissime (direi nitide, addirittura) giovani americane, colte (di quella cultura che andrebbe arricchita con esperienze più di sostanza; su detta spazzatura campeggiavano – quasi un diadema – pochi etti di parmigiano reggiano, un paio di panetti di burro (uno intonso, l’altro iniziato), un pacco di farina appena iniziato, di cui è fin troppo facile immaginare un uso alternativo … 2) un tredicenne russo, di famiglia colta (e dagli con la cultura!) che mette in moto la Jeep noleggiata dai suoi per una lunga vacanza italiana, in attesa della mamma, perché bisogna accendere l’aria condizionata (sì, è vero, ma anche in Russia sanno dei danni prodotti dagli eccessi di consumi di noi umani, e anche in Russia credo sia vietato ai tredicenni di guidare l’auto, o di sedere al posto di guida, con l’auto piena di altri bambini e allegramente mettere in moto per darsi una rinfrescatina (la mamma, peraltro stimabilissima, a cui ho detto di aver redarguito il suo Ivan, ha sgranato gli occhi: evidentemente il suggerimento partiva da lei!).

3) Ora gli occhi li sgranerete voi, perché una coppia di austriaci insospettabili è arrivata in cima, proprio al centro dell’antico villaggio in cui abito. C’era un bel posto per parcheggiare in modo inappuntabile e io non avevo dubbi che due austriaci, con l’aria colta e consapevole dell’uso di mondo avrebbero infilato la loro pulitissima (direi nitida) auto in tale inappuntabile parcheggio. Perché so benissimo che gli austriaci ci tengono a essere considerati gente civile (con quel tale a cui devono farsi perdonare – ma noi li abbiamo già da tempo perdonatissimi – di aver dato i natali); invece no, constatato che il suddetto posto era al sole e che “Un posto al sole” è solo un vecchio film, e anche ignari dei movimenti dell’astro celeste che non obbedisce ai desideri del turista (nemmeno se austriaco!), la coppia colta e linda di cui appena sopra ha girato l’auto ed è andata a parcheggiarla lungo la stradetta stretta e bordata di cipressi che porta al centro dell’antico villaggio in cui mi pregio di risiedere part time, incuranti degli ostacoli creati all’accesso al paese, nonché dei divieti (a cui peraltro non segue che acqua di rose) .

Colta da un dubbio, desidero condividerlo con voi che leggete: io penso che forse questi fatti apparentemente lontani tra loro c’entrino con le triste notizie che citavo all’inizio di questo, forse inutile, scrivere. Sono legati tra di loro – a me sembra –  dall’identico vissuto che gli abitanti di questa Italia hanno di sé stessi, delle loro “ambizioni” (soldi, soldi, soldi a qualsiasi costo, anche a quello del proprio onore!), del tempo lungo, troppo lungo, in cui hanno ignorato il significato della parola ‘cultura’, dall’impegno di chi avrebbe dovuto segnalare loro che lì stava il delta (tra essere e non essere) e che ha fatto di tutto per tenerli / ci all’oscuro di ciò.

Perché se così non fosse, se non ci fossero state queste distrazioni e questa maligna volontà politica, non saremmo un popolo di trafficanti, corrotti, ignoranti, ma saremmo un popolo di poeti, naviganti e benestanti.

Se Giuseppe mi racconta il futuro

Mi fa piacere pensarlo, caro Giuseppe, che in una sera estiva la tua voce mi abbia annunciato un futuro più rassicurante (e affettuoso), senza soluzione di continuità, rispetto a quello immaginato per noi che ora siamo i vecchi, da quelli che erano vecchi quando io ero come te. E già il solo pensarlo mi fa stare meglio al mondo.

Non che io stia male, caro Giuseppe, io sto bene e ho alle mie spalle un sacco di giorni pieni di belle cose, di persone che mi hanno dato molto (che sono molte di più di quelle che hanno arraffato, o cercato di farlo), una vita di scoperte quotidiane, di grandi cieli e forti temporali. Ma la tua voce – quasi sommessa: voce di bimbo che cresce e ogni giorno deve scegliere – ha interrotto quello che anche il garzone del fornaio ormai chiamerebbe “un trend epocale” (se il fornaio avesse ancora un garzone), e non voglio usare un’altra parola, perché questa è la parola giusta collocata nei tempi giusti.

Ci ho pensato spesso da quando ho risposto alla tua prima domanda, quando hai notato che stavo con la testa china, in auto, al buio, da sola e probabilmente così immobile da colpire l’attenzione premurosa di un bambino attento. “Tutto bene?”: mi hai quasi fatto fare un salto quando la voce e poi i tuoi occhi vigili a indagare – con prudenza e magari temendo il peggio – mi hanno distolto dalla cosiddetta navigazione (si dice così, ma credo che tu lo sappia) su FaceBook a cui ero così intenta da sembrarti forse morta, certo messa male.

Eh sì perché il “trend”, cioè la tendenza, cioè quello che viene quotidianamente testimoniato dai più, è un insieme di comportamenti e di pensieri che da molto tempo a questa parte esclude uno sguardo per gli altri, se non per ragioni ‘politiche’ o comunque spendibili e ben visibili, cioè finalizzate a uno scopo.

Caro Giuseppe, quello con te è stato un incontro pieno di sorprese. Non so se hai una nonna; non ricordo di averti chiesto se hai fratelli. Forse ti ho chiesto della tua famiglia, perché per tutta la nostra chiacchierata non ho smesso di essere incantata dalla tua semplicità e dalla fedeltà al tuo pensiero, così sei tornato  a chiedere “Si sente bene?”, dopo aver constatato che ero sì viva, ma non si sa mai, meglio essere certi.

Ora mi piacerebbe continuare a fare due chiacchiere con te; parlare del fiato corto quando pedali in salita, dell’attenzione che bisogna avere quando si va in bici per strada, e magari anche di futuro. Quel futuro che mi appare in assoluta controtendenza rispetto alle profezie del quotidiano, quando penso al tuo sguardo preoccupato per la mia sera.

Solstizio d’estate

Mi coglie impreparata, come sempre succede. Al culmine di un tragitto in cui, poco a poco e un po’ alla volta, ho osservato le giornate che si allungavano – spiandone le variazione della luce, constatando che i giorni non si allungano in modo simmetrico, bensì di più al mattino e poi di più alla sera, come adesso.

Poi sembra che tutto vada a rovescio, come nella canzone di Dalla. Sì, insomma nuovi fenomeni sociali, nuovi criteri per dare torto o ragione; ma io – caro amico – non scrivo per raccontare fenomeni e criteri. Annoto solo le mie impressioni. Sentire l’energia che viene e va, l’umore che la segue e sentirmi colpita da una perdita del senso delle stagioni. Lì fuori è tutto giallo ocra, come a metà agosto. Però tutto tace; nessun politico ha parlato alla gente – senza fare tragedie, per carità! – consigliando di tenere d’occhio i consumi (acqua, energia elettrica). E forse non ci sarebbe nemmeno bisogno (non dovrebbe esserci) di aspettare i politici, occupati come sono a spartirsi l’animale tirando di qua e di là, perduti nel loro sogno innominabile e perfino banale. Potremmo fare da noi, molti di noi potrebbero cambiare registro.

Alcuni lo fanno e alcuni si spendono per fare un po’ di propaganda a un cambiamento di mentalità. Mentre la politica – che ha scoperto il turismo e perfino la cultura anche se non sa cos’è – ha messo in funzione uno spremilimoni per un limone inedito – il paesaggio (anche se non sa cos’è) – e vende spremute di paesaggio a gente di passaggio, per aiutare a fare cassa con occasioni becere e impunite, come abusivi che vendono schifezze e molestano i turisti, navi grandi come un sestiere che occupano Venezia, maialoni che si arrampicano fino al centro del centro più antico e minuscolo dei villaggi con auto grandi come bus, dimenticando il colesterolo mal parcheggiato insieme al golfino di cashmere in auto. Fa caldo, troppo caldo per il cashmere.

Ah Persephone, dove sei? Molla Plutone e vieni a dare una mano.

Passami la prolunga

Erano gli anni ottanta, verso la loro fine. Proprio nei primi giorni di giugno c’era la più grande fiera dei libri in America, quell’America che allora ci piaceva tanto, a cui guardavamo con ammirazione, come si osserva con attenzione un maestro di vita. E non c’era bisogno di questo orribile presidente per capire – prese le debite distanze –  che quell’ammirazione era eccessiva. Ora che ce ne siamo resi conto tutti, come per un effetto chiaroscuro, nessuno avrà più voglia di prendere in giro quelli che per anni hanno chiesto attenzione ai temi dell’ambiente.

E non importa se c’è qualcuno che sostiene (pochi a dire il vero) che gli allarmi sono eccessivi, che da che mondo è mondo ci sono stati alti e bassi delle temperature e così via. L’unica cosa di cui noi umani (senza eccezioni, perché nemmeno gli scienziati hanno il dono dell’ubiquità temporale) possiamo renderci conto è la sporcizia dell’aria e del suolo. Il degrado, il consumo, l’incuria, l’indifferenza, l’egoismo, il disamore, la pigrizia, l’ignoranza, la stupidità, di cui siamo attori e responsabili, ce l’abbiamo sotto gli occhi, se li teniamo aperti; di questo non possiamo non renderci conto. Della bruttezza e della sciatteria a cui riduciamo (abbiamo ridotto) tutti i luoghi in cui siamo sbarcati, non possiamo non avere un’idea – se riusciamo a ragionare -. Le isole di rifiuti non smaltibili che vanno alla deriva negli oceani, uccidendo animali e vegetazione e l’acqua stessa, sono visibili e concrete, e pericolose. I troppo pochi che hanno visto un bellissimo e orribile film – documento, interpretato da Jeremy Irons come testimonial, con le musiche di Vangelis, non possono non sognarselo di notte, un incubo per sé e per il futuro dei figli.

Quell’anno la fiera dei libri era a Washington; tornando in albergo avevo visto delle tazze bianche e blu – esposte nella vetrina di un negozio lì accanto – erano giapponesi, molto belle e poco costose. In albergo, c’era un’atmosfera particolare: alcuni uomini, alti, scuri e grossi come armadi, si muovevano nel lounge con molta circospezione. La ragione di questo scenario un po’ particolare era una signora alta e bruna, bella e sorridente, con un completo (pantaloni e caffetano) di seta turchese che scintillava. La signora era gentile e contrita per essere la causa del trambusto e a me parve incredibile che mi offrisse un caffè per scusarsi delle domande che mi erano state fatte; fu così che presi un caffè con Benazir, con l’ingombrante sacca delle tazze giapponesi, che il giorno dopo sarebbero volate in Italia.

Quello stesso giorno di giugno, avevo spedito una cartolina a mio figlio, con una breve didascalia “è una giornata strana”. Emergevo da mucchi di libri e di idee, con l’entusiasmo guastato da un punteruolo di angoscia. Rientrando in Italia, con le tazze giapponesi pesantissime, aiutata da una signora tedesca che faceva scouting in Usa per la casa editrice, avrei scoperto che era morto un amico; se ne era andato alla fine di una rampa di scale, colpito da un infarto che era sembrato una vera e propria aggressione fisica.

Anche la signora tedesca gentile – con marito importante e coltissimo – se ne andò pochi anni dopo; per non dire di Benazir la bella, incontrata così estemporaneamente in un paese che allora sembrava la guida del mondo, o comunque uno dei mondi migliori, nonostante il Vietnam e il consumismo.

Pensavo all’impermanenza e alle tante cose che una persona ha il dovere di fare prima di volare nel niente, alla necessità di non sprecare il tempo che è davvero poco; pensavo che dobbiamo davvero essere molto stupidi per essere rappresentati da un così alto numero di stupidi arroganti. Mi chiedevo come sia possibile che così tanti non si accorgano che non si può proseguire così. Vorrei spiegarlo a tutti, dirlo ogni giorno, o almeno provarci. Per questo, però, vorrei una prolunga.

Storia di una storia d’amore

E’ andata così. In tempi che a pensarci ora pare siano trascorsi cent’anni, ma invece era solo il 1985 (forse il 1984?), lavoravo felicemente in una grande casa editrice, da cinque o sei anni; la terra ruotava regolarmente su sé stessa e si muoveva nello spazio senza troppi trambusti straordinari. Ero atterrata in quel posto di lavoro esule dal mondo – decisamente più eccitante – della pubblicità. L’unica mia affinità iniziale con l’ambiente erano i libri, cioè il prodotto – come dicevo io, ma guai a chiamarli così in casa editrice perché prodotto’ e ‘mercato’ per autori, funzionari, editor e compagnia bella erano due parole volgari, che non si addicevano all’aureola di cui i libri erano circonfusi -. L’unico con cui ci si poteva esprimere liberamente in tale modo era l’editore. Cioè colui che mi aveva assunta, sapendo che ero anche una che leggeva molto e con molto gusto.

All’inizio mi era sembrato un ambiente un po’ datato, pieno di gente che ‘se la tirava’ per il solo fatto di essere lì, e che a ogni parola che ricordava il mondo più disincantato e vivace della pubblicità non mancava di uscirsene con chiose che segnavano la distanza tra cultura e “incultura”. Ma lavorando, giorno dopo giorno, avevo apprezzato un impegno che mi faceva crescere e che, grazie alla molteplicità di incontri e conoscenze, mi apriva finestre mai immaginate prima di allora. Lavorando avevo a che fare sia con giornalisti sia con autori di libri e il rapporto con questi ultimi era ogni volta ricco di sorprese e di imprevisti originali.

Nel 1982 la casa editrice aveva acquisito Marquez, autore a cui aveva fatto lungamente la posta; non conosco i particolari (né i costi) di quell’acquisizione prestigiosa, ma ricordo bene, invece i tempi del Macondo – a Milano – locale simbolo di resistenza trasgressiva delle generazioni sessantottine. E ricordo bene che la notizia dell’acquisizione a me rinverdì ricordi di quegli anni un po’ barricaderi aggiungendo un’emozione personale all’idea di un autore lontano dai territori abituali della casa editrice, che pareva vivesse in un suo mondo piuttosto circoscritto – amici registi, amici giornalisti, Fidel Castro e così via -. Avevo un mio vissuto che andava oltre il suo mitico “Cent’anni” e l’autore, nonostante la sua grandezza, mi evocava storie e ricordi privati; per il resto era lavoro. Marquez arrivava da noi, fresco di un Nobel che andava sottolineato, in occasione della pubblicazione di “Cronaca di una morte annunciata”. La sua agente aveva scelto la casa editrice che era in grado di mettere a disposizione del nuovo libro in uscita investimenti e organizzazione tali da rinverdire un mito che rischiava di rimanere legato a un libro così ‘unico’ che tutto quello che veniva dopo restava un po’ nell’ombra, con possibile flessione delle vendite degli altri titoli. Ma ora c’era il Nobel che dava l’occasione per dire qualcosa di diverso in libreria.

Quell’anno era tornato in Italia per qualche mese un vecchio amico – un autentico talento della grafica – ne avevo approfittato per affidargli il tema e chiedergli di disegnare un’affichette da regalare ai lettori nel loro luogo, la libreria e di offrire loro così un’antologia visiva di Marquez, un messaggio per raccontare l’autore di molti libri, non solo i mitici “Cent’anni di solitudine”. L’affichette fu un successo, era eloquente e delicata, con il Gabo, sintetizzato in un ritratto scuro e misterioso, che si affaccia tra pagine – simbolo, colorate e lievi, a raccontare una storia, forse addirittura a scriverla. Di quel lavoro mi è rimasto quello che viene chiamato definitivo, perché l’affichette andò a ruba e sparì anche dal mio ufficio.

Andò così che Marquez, che aveva apprezzato molto quella sintesi visiva della sua poetica, e che amava molto le nuove copertine che rivestivano tutti i suoi titoli nelle nostre edizioni, volle conoscermi personalmente, quando stava per uscire il suo nuovo libro (“El amor en los tiempos del còlera”). Nessuno, in casa editrice lo aveva mai incontrato di persona e l’editore arrivò affannato e felice nel mio ufficio ad annunciarmi che dovevo partire immediatamente per Barcellona, dove il nostro autore era ospite della sua agente, per sentire dalla sua viva voce quello che aveva da dirmi.

L’ufficio della Carmen Balcells era in Diagonal, dove arrivai in una tarda mattinata ed ero quasi più intrigata all’idea di conoscere una donna di cui avevo sentito parlare in termini straordinari – la Mamà Grande, l’aveva ribattezzata forse lo stesso Marquez -,  non solo come agente, la Carmen era una consigliera ascoltatissima, e curava gli interessi di tutti i più importanti autori di lingua spagnola; avrei imparato, negli anni, che era anche molto lungimirante, anche per conto di quelli che amava e stimava -. Da una stanzetta si affacciò il Gabo, proprio come due anni prima dalle pagine dell’affichette disegnata dall’amico americano. Che cosa l’aveva spinto a incontrarmi?

Aveva una storia da raccontarmi, a proposito del suoi “Amor en los tiempos del còlera”; amava moltissimo le copertine che la casa editrice aveva creato per i suoi libri, le amava talmente che le voleva per tutte le edizioni dei libri, in tutto il mondo. Gli spiegai che da noi c’era un ufficio, con alcuni talenti, veri artisti che lavoravano alle copertine di tutti i libri pubblicati; gli dissi anche che le illustrazioni delle sue copertine erano state ricercate e scelte dall’editore in persona; lo sapeva già e gli piaceva molto quella con l’amorino in primo piano che stavamo mandando in stampa con il libro in uscita, ma voleva una modifica e non voleva essere frainteso. Gli era piaciuta anche l’affichette con cui avevamo celebrato il Nobel e non voleva la sua richiesta venisse interpretata come un’intrusione, un’invasione di campo nel lavoro creativo di altri, e mi raccontò il suo desiderio.

Ai tempi del colera, i battelli che solcavano i corsi d’acqua nella foresta, quando avevano a bordo un malato alzavano una bandiera gialla; questo gli era stato raccontato quando era piccolo e questo particolare gli sarebbe piaciuto inserire ‘nel racconto’ che l’illustrazione della copertina evocava – un corso d’acqua in mezzo a vegetazione tropicale, un amorino in agguato in una radura lì accanto – . Ma non voleva invadere il lavoro di altri e mi chiedeva di scegliere insieme a lui come inserire “il barco” che avrebbe potuto figurare in modo naturale nell’illustrazione e come appiccicargli anche la bandiera del colera, però senza ferire chi già aveva lavorato. Con garbo.

Mentre lui mi raccontava i suoi pensieri, io pensavo a quante volte mi era capitato di incontrare persone che non avevano avuto scrupoli a intervenire nel lavoro pensato da altri, fare modifiche, usarlo come proprio, cambiarne il significato …

 

Plumetis

 

Ognuno la può pronunciare come vuole, ma l’origine di questa parola è francese (“plume”, piuma di cui evoca la leggerezza; e forse “tissu”, cioè tessuto … ma di questo secondo significato non sono certa, anche se mi sembra scontato). Perché “plumetis” è un tessuto, usato (ancora) nell’alta moda, è una mussola – principalmente di cotone – lieve, ricamata spesso con un piccolissimo pois a rilievo, in colore contrastante (di solito più chiaro) con il colore del tessuto.

A me ricorda mia madre e la sua cura per i particolari, il gusto del colore (quello che ho imparato lo devo a lei e alla Cecilia Mora Uematsu), e la sua predilezione – sempre, finché è vissuta – per tutto ciò che è di qualità, sia nella scelta di prodotti, come in quella del lavoro accurato e dei materiali – duraturi e di buon gusto -.

Da bambina a casa mia, non si “consumava”, si provvedeva al cibo e all’abbigliamento con il criterio del ‘meno, ma di qualità’. Per quanto riguarda il cibo la regola era ‘ di stagione e locale’, anche se Milano non era campagna, ma al mercato e nelle botteghe mia madre ricercava sempre la stagione e i luoghi, e siccome era una che leggeva e ascoltava, faceva scelte che ora potrebbero essere definite ‘politiche’ (no alle primizie, perché oltre a costar care erano certamente frutto di forzature e di irrorazioni di chissà quali sostanze e così via). Ma tutto avveniva senza enfasi, in modo ‘naturale’, perché i soldi erano pochi, ma le idee (di mia madre) erano chiare. E’ lei – come ho già avuto modo di ricordare su questo piccolo blog – che mi ha insegnato, in tempi non sospetti e meno affannati, a produrre spazzatura ‘pulita’, perché è parte di noi stessi, espressione della nostra cultura e segno di rispetto per quelli che la raccolgono e ci lavorano … Per il vestire, le scelte di mia madre erano limitate dalla relativa scarsità di risorse disponibili per raggiungere l’obiettivo di mandarmi in giro vestita con buon gusto, materiali duraturi, e colori che mettessero in luce quelli miei naturali.

Le due figure a cui era affidata la fattura del suo pensiero erano la signora Signorotto (ricordo che abitava a San Siro, dove venivo accompagnata per provare i vestiti) e la signorina Re, che confezionava i tailleur per la mamma e che in seguito avrebbe vestito anche me, con scelte brillanti e di gusto, fino agli anni del liceo e forse oltre … La signorina Re, che aveva una sorella modista, abitava in via Vincenzo Monti e da lei passa il mio tenue legame – nato allora – con la Toscana, un luogo esotico dove si parlava un italiano molto particolare, rispetto alla lingua della Milano di allora.

Non si facevano molti abiti, ma la cura con cui erano realizzati era pari a quella con cui venivano mantenuti. Anche quelli che venivano cuciti per me che crescevo: perciò pochi, da tener bene e con la possibilità che – abilmente allungati – potessero essere usati anche nella stagione successiva. L’estate era il momento dei piquet (o piqué), sempre bianchi, o del sangallo, o dei plumetis. Questi ultimi più delicati, ma ogni tanto mia madre seguiva le suggestioni della signora Signorotto che proponeva qualcosa che sarebbe stato particolarmente bene “alla bambina”.

Ho un ricordo particolarmente nitido di quando – non ricordo quanti anni avevo – un’estate, mia madre mi ha fatto provare l’abito di plumetis rosa, il mio preferito, e ha realizzato che ero cresciuta troppo per indossarlo ancora. L’abito fu allungato, con cura e sempre dalla Signorotto che aveva anche questa incombenza, e l’ho portato un secondo anno. Custodito con cura, con il colletto in mussola ricamata finemente, il davanti impreziosito con un ricamo a punto smock (si usa ancora ed è chicchissimo!), un po’ stropicciato ma ben tenuto, ha passato una vita intera (la mia) nel cassettone che ho ereditato da una bisnonna, insieme alle tele tessute e ricamate da nonne, bisnonne e persino trisavole (a ciò che ne resta, perché poco a poco sono – e vengono – consegnate al futuro).

Mi sono accorta, tirandolo fuori dal cassettone, che anche il mio vestito di plumetis rosa era pronto per il futuro, per una carnagione chiara e un temperamento un po’ meditativo, ma pronto ai giochi, come quello della mia nipotina più grande. E tirandolo fuori, per capire se era della misura giusta, mi è sembrato chiaro che solo le cose che hanno una storia sono capaci di legare il passato al futuro senza diventare retoriche e banali, con una staffetta di esperienze, ricordi e affetto a cui capita di dare spazio solo quando ci si accorge della relatività tempo.

 

 

Pensi a Lina?

Io l’ho chiamata “Lina” – con tutto il rispetto per tutte le Lina conosciute o sconosciute – perché definirla “pensilina” mi è sembrato eccessivo. E’ sembrato un po’ troppo anche agli abitanti di Sant’Angelo in Colle che me ne hanno segnalata la presenza chiedendomi implicitamente se l’immagine dell’oggetto in questione corrisponde davvero all’idea che l’ignoto installatore s’è fatta di loro. Certo gli abitanti di questa frazione di Montalcino non sono fieri di Lina; loro vedono centinaia, migliaia, di visitatori salire la strada che porta in cima al Colle per ritrovarsi nella piccola piazza del paese, dove Re Liutparndo, nell’ultimo quarto del primo millennio (non mi ricordo la data esatta) radunò una settantina di notai per dirimere una grana scoppiata tra due vescovi che litigavano per i confini delle rispettive diocesi (Arezzo e Roselle). Allora Sant’Angelo in Colle aveva un nome un po’ diverso, ma sempre Sant’Angelo era; la cima del colle era ricoperta di lecci, mentre ora la strada è bordata da alti cipressi popolati da nidi. In cima al colle c’era probabilmente solo un edificio religioso, mentre ora è un villaggio che conserva una forma medievale, con case quasi tutte ben restaurate. Allora le campagne erano diverse e non c’erano tutti questi vigneti circondati da boschi e scanditi da sentieri; anche le strade saranno state poco diverse da tratturi percorsi da carri e carretti, ma anche da molti uomini che andavano a piedi. Oggi invece c’è un pullman che porta i bimbi a scuola, a Montalcino. E il pullman arriva fino alla fermata, dove i bimbi l’attendono al riparo. Da qualche giorno per ripararli dal sole e dalle intemperie  è stata installata Lina: mi hanno raccontato che è reduce da un onorato servizio alla Coop di Torrenieri, altra frazione del comune di Montalcino, dove riparava i carrelli del supermarket. Un riciclo, dunque. Oggi è importante riciclare tutto; hanno trovato un modo per riciclare i morti, facendoli diventare alberi: un bellissimo pensiero in questi tempi un po’ troppo gretti.

Vorrei però che Lina fosse vestita meglio, che le togliessero le scritte che le danno quell’aria un po’ troppo vissuta e anche un po’ sciatta; vorrei che le togliessero quell’erba che le cresce in testa e la fa sembrare forfora di una capigliatura trascurata; vorrei che Lina fosse pulita, linda e bella, per far capire ai bimbi che attendono il pullman che li porterà a scuola che così si entra nella vita, avendo cura di sé stessi, non per apparire, ma per essere i degni abitanti di luoghi di rara bellezza.

Non conosco l’autore o gli autori di questa installazione; bisogna avere pazienza e aspettare che trovino il tempo per completarla e renderla degna dell’idea che chi abita i luoghi deve avere di sé. Ma vorrei suggerire di farlo velocemente, per evitare che qualche bambino venga colto dal sospetto che Lina sia l’emblema di quello che si pensa di lui e che – di conseguenza – cresca pensando di comportarsi di … conseguenza. Chi ha messo Lina pensi a lei come a una pensilina, degna di tale nome.

Buona Pasqua forse

Ci rendiamo tutti conto che il “mangiare” è diventato centrale nelle nostre vite. E’ centrale per chi mangia in abbondanza, lo è per quelli (sempre più numerosi) che devono fare bene i conti per arrivare sul filo di lana della fine mese; lo è ovviamente per chi il cibo lo vede con il binocolo e mangia solo grazie a un sistema sempre più intricato (e non sempre trasparente) di organizzazioni che si occupano di distribuirlo a chi non ha niente.

Ma non tutti ci rendiamo conto che “mangiare” e “nutrirsi” (due azioni non sempre sovrapponibili) sono il mercato più interessante per le multinazionali. Invece di questo fatto bisogna tenere accuratamente conto. Mi viene in mente la Nestlé di quando ero piccina ed era il marchio del mio latte, proveniente direttamente da quel nido – marchio dell’azienda amica (nest=nido) – in cui gli uccellini erano idealmente i miei compagni d’infanzia. Poi ho ritrovato la Nestlé come cliente – difficile e ambìto – in agenzia di pubblicità; era già un’impresa diversa, in odore di problemi africani (il latte artificiale non dà ai neonati quella protezione rispetto all’ambiente – protezione indispensabile in paesi africani – fornita solo dagli anticorpi del latte materno), un’impresa che diversificava alla grande, diventata un colosso multinazionale. Ora, infine, so bene che le multinazionali, difendendo le proprie politiche produttive, sono in grado di fare praticamente quello che a loro conviene di più e che consente i margini più succulenti all’azionariato (soprattutto agli azionisti di riferimento!), so che decidono al posto dei governi (anche alla UE!), so che strattonano la libertà di stampa che del resto non esiste (quasi) più.

Per questo, stamattina, incappando in un post su Facebook, con una foto che ritrae uno stand (al Vinitaly?) che inneggia alla bontà del Gliphosate (Glifosato), mi sono ritrovata a scrivere una lunga tirata, anziché il solito commento al fulmicotone.

L’ho fatto e continuerò a farlo perché sono ben consapevole dell’ingenuità, o della vaghezza, di chi commenta, o interviene, volendo dare supporto a un’agricoltura bio e più attenta alla salute di prodotti e suolo Perché il “mangiare” che è diventato un mercato immenso (siamo tra i sette e otto miliardi di persone che “mangiano”) ha origine da campi, orti, distretti: la terra che ci dà prodotti, dove pascolano armenti e greggi, dove sgorgano sorgenti. Terra che trattata in un modo o nell’altro può darci cibo di qualità diverse. Terra che di proprietà diverse può originare (vedi cinesi in Africa) modelli sociali, politici e umani, clamorosamente diversi gli uni dagli altri.

Per questo, convinta come sono delle  battaglie in corso – per un suolo più sano (colture bio e biodinamiche), una limitazione ragionevole del consumo di carne, un rapporto più “umano” con gli animali, una relazione più prudente con la chimica, una nuova attenzione alla cultura come elemento nutrizionale – vorrei che tutti quelli che si sentono coinvolti (e non sono pochi) in questo sguardo ecologico, imparassero a tener conto di chi hanno di fronte e fossero consapevoli dell’urgenza di creare nuovi modelli culturali, capaci di coinvolgere anche chi ha orecchi solo per sentire il rumore dei soldi.

Io penso che se Trump – uno con quella faccia, con quello sguardo, con quella voce (dimenticando cravatte, ciuffone e vestitoni) – è diventato presidente degli Usa, è solo perché c’è molto trumpismo in circolazione; sotto traccia, carsico, trova il modo di uscire allo scoperto ben travestito, per dirci che è più comodo, più conveniente, più indolore, dare ragione al più forte; dare ragione, come devono fare i giornalisti troppo spesso a chi investe in pubblicità tenendo in piedi i giornali; dare ragione a chi è amico dei politici e degli amministratori (e li tiene per la pelle di qualcosa) e può influenzare le decisioni politiche e premere affinché non sia scritto tutto quello che potrebbe essere scritto – cioè la verità – su prodotti, tecniche, tecnologie, futuro. Anche quello che deve essere scritto su molecole pericolose per la nostra salute e per quella del nostro futuro. Imparare a comunicare – ribattendo con calma e correttezza -, non stancarsi di farlo, giorno dopo giorno, per sempre. Senza perdere di vista l’obiettivo di salvare la salute del futuro.

Il Vello d’oro

Il bimbo dorme; la sua fisionomia ha qualcosa di familiare, con una lieve nota esotica. Sono giorni – forse settimane  – che mi capita di seguire le immagini che lo ritraggono. Non l’ho mai incontrato, ma mi accorgo che quasi ogni giorno leggo le sue notizie, quelle dei suoi progressi, dai primi, primissimi, passi, ormai parecchi mesi fa. La testa appoggiata sul cuscino – il piccino è immerso in un sonno profondo e sereno – mostra il profilo, un naso che diventerà interessante e la piccola bocca socchiusa. Mi colpisce la forma dell’orecchio, che in questa posizione si legge bene anche nelle sue proporzioni rispetto alla testa. Mando un commento sul disegno dell’orecchio e l’impressione che mi suscita. Dà un’impressione di vitalità inconsueta, di bella energia; mi viene in mente mia nonna (o forse era mia madre) che mi diceva che la forma dell’orecchio racconta molto di noi. Niente di esoterico, piuttosto si tratta della saggezza di chi è vissuto a lungo e ha visto molti volti imparando a osservarli e a metterli in relazione con comportamenti e malattie. Mia nonna aveva anche curato e guarito, nel modo dei semplici, parenti, amici e conoscenti, e poi anche estranei, perché aveva un buon istinto: c’era la terribile ‘spagnola’ e tutt’intorno morivano tutti. Le cure della nonna le ho ritrovate nei ricordi di Fosco Maraini – in una sua bella e intensa autobiografia, scritta nei suoi ultimi anni -, identiche a come me le narrava la nonna, attribuendole a una vecchia maremmana da lui conosciuta in gioventù. Centinaia di chilometri dai luoghi della mia famiglia, ma negli stessi anni.

Dal bimbo, invece, mi separano migliaia di chilometri, ma a lui mi legano fili diversi: conoscevo bene sua nonna, tanto da poterla chiamare amica, anche se ci si vedeva poco. Suo padre ha lavorato dove ha lavorato anche mio figlio ed entrambi hanno lasciato per ragioni analoghe. Il bimbo porta il nome di un mitico cacciatore. La preda era quel vello d’oro che aveva il potere di curare le ferite. Da quelle mie forse sto guarendo, e potrei ridisegnare a memoria l’orecchio del giovane cacciatore lontano.