Passami la prolunga

Erano gli anni ottanta, verso la loro fine. Proprio nei primi giorni di giugno c’era la più grande fiera dei libri in America, quell’America che allora ci piaceva tanto, a cui guardavamo con ammirazione, come si osserva con attenzione un maestro di vita. E non c’era bisogno di questo orribile presidente per capire – prese le debite distanze –  che quell’ammirazione era eccessiva. Ora che ce ne siamo resi conto tutti, come per un effetto chiaroscuro, nessuno avrà più voglia di prendere in giro quelli che per anni hanno chiesto attenzione ai temi dell’ambiente.

E non importa se c’è qualcuno che sostiene (pochi a dire il vero) che gli allarmi sono eccessivi, che da che mondo è mondo ci sono stati alti e bassi delle temperature e così via. L’unica cosa di cui noi umani (senza eccezioni, perché nemmeno gli scienziati hanno il dono dell’ubiquità temporale) possiamo renderci conto è la sporcizia dell’aria e del suolo. Il degrado, il consumo, l’incuria, l’indifferenza, l’egoismo, il disamore, la pigrizia, l’ignoranza, la stupidità, di cui siamo attori e responsabili, ce l’abbiamo sotto gli occhi, se li teniamo aperti; di questo non possiamo non renderci conto. Della bruttezza e della sciatteria a cui riduciamo (abbiamo ridotto) tutti i luoghi in cui siamo sbarcati, non possiamo non avere un’idea – se riusciamo a ragionare -. Le isole di rifiuti non smaltibili che vanno alla deriva negli oceani, uccidendo animali e vegetazione e l’acqua stessa, sono visibili e concrete, e pericolose. I troppo pochi che hanno visto un bellissimo e orribile film – documento, interpretato da Jeremy Irons come testimonial, con le musiche di Vangelis, non possono non sognarselo di notte, un incubo per sé e per il futuro dei figli.

Quell’anno la fiera dei libri era a Washington; tornando in albergo avevo visto delle tazze bianche e blu – esposte nella vetrina di un negozio lì accanto – erano giapponesi, molto belle e poco costose. In albergo, c’era un’atmosfera particolare: alcuni uomini, alti, scuri e grossi come armadi, si muovevano nel lounge con molta circospezione. La ragione di questo scenario un po’ particolare era una signora alta e bruna, bella e sorridente, con un completo (pantaloni e caffetano) di seta turchese che scintillava. La signora era gentile e contrita per essere la causa del trambusto e a me parve incredibile che mi offrisse un caffè per scusarsi delle domande che mi erano state fatte; fu così che presi un caffè con Benazir, con l’ingombrante sacca delle tazze giapponesi, che il giorno dopo sarebbero volate in Italia.

Quello stesso giorno di giugno, avevo spedito una cartolina a mio figlio, con una breve didascalia “è una giornata strana”. Emergevo da mucchi di libri e di idee, con l’entusiasmo guastato da un punteruolo di angoscia. Rientrando in Italia, con le tazze giapponesi pesantissime, aiutata da una signora tedesca che faceva scouting in Usa per la casa editrice, avrei scoperto che era morto un amico; se ne era andato alla fine di una rampa di scale, colpito da un infarto che era sembrato una vera e propria aggressione fisica.

Anche la signora tedesca gentile – con marito importante e coltissimo – se ne andò pochi anni dopo; per non dire di Benazir la bella, incontrata così estemporaneamente in un paese che allora sembrava la guida del mondo, o comunque uno dei mondi migliori, nonostante il Vietnam e il consumismo.

Pensavo all’impermanenza e alle tante cose che una persona ha il dovere di fare prima di volare nel niente, alla necessità di non sprecare il tempo che è davvero poco; pensavo che dobbiamo davvero essere molto stupidi per essere rappresentati da un così alto numero di stupidi arroganti. Mi chiedevo come sia possibile che così tanti non si accorgano che non si può proseguire così. Vorrei spiegarlo a tutti, dirlo ogni giorno, o almeno provarci. Per questo, però, vorrei una prolunga.