Essere, non, stampare, incontrare, scendere, risalire

Era quasi Natale, a Milano. Erano forse i primi di dicembre, ma – a Milano – è come se fosse quasi Natale. Le cose da fare si affollano e si accelerano di colpo e le giornate sono fatte di cose da fare: tutte urgenti, tutte insieme. Ero scesa a un piano di sotto; uno di quei luoghi – ce ne sono in ogni tipografia, in ogni luogo in cui si stampi qualcosa – dove ti siedi e tratti, con uomini che hanno incarichi e ruoli diversi, dei costi della stampa. Dei costi, ma soprattutto dei tempi di stampa, che sono sempre (secondo loro) impossibili e soprattutto, sotto Natale, sembra che tutti abbiano da stampare qualcosa.

Il luogo mi è familiare e gli uomini simpatici, ma il risultato della trattativa è che mi faranno “gli impianti”, ma le mie duecento copie dovrò trovare chi me le stampa: ma ho già in mente chi potrebbe, se riesco uscendo di lì a mettermici in contatto subito. Con il mio lavoro sottobraccio esco dall’ufficio della tipografia e subito penso a raggiungere la persona che potrebbe darmi una mano, prendendo un percorso più breve, dal retro; ma subito mi rendo conto che non è una buona idea perché potrei trovarmi tra la porta chiusa della tipografia (è quasi fine orario) e un cul de sac di fronte a me, in un sottopassaggio deserto.

Ma ho le chiavi e ne esco; fuori è la tipica ora della pausa pranzo milanese, affollata di suoni e di gente vociante che cammina veloce per raggiungere qualcuno. Io devo mettermi in contatto con chi potrebbe stamparmi le duecento copie e sto per farlo, ma incontro un po’ di gente che conosco. Una donna che me ne presenta un’altra che vuole parlarmi perché io la metta in contatto con qualcuno – di un’associazione nonprofit – a cui proporsi o proporre un lavoro. Mi farà piacere farlo e sto pensando a come trovare il modo più opportuno, mentre nel vociare continuo e confuso sento – dietro, sopra, da qualche parte – le voci di quelli con cui ero stata riunita poco prima, a discutere di stampa; una voce femminile – milanese e familiare – tra le altre mi dà la netta idea di come risolvere il mio problema, perciò mi giro e la chiamo: “Vigini! Vigini!”, quasi gridando. Ma le voci che si accomiatano si dissolvono e anche la sorella di Giuliano Vigini è andata via, per la sua strada. Allora torno verso le donne da cui ero stata trattenuta, per concludere quella conversazione e accordarmi con loro. Scendo gradini di marciapiedi all’angolo di via Torino, sotto un cielo luminoso e animato da nuvole e voli di piccioni. Devo stare attenta a scendere i gradini sbreccati e ricolmi di rifiuti colorati. Metto i piedi con cautela evitando gli inciampi, per risparmiare distorsioni alle ginocchia.

Devo trovare chi mi stampi le mie duecento copie di librini, che voglio spedire come auguri di Natale; voglio anche trovare il modo di mettere in contatto, quella donna che mi è appena stata presentata, con la persona giusta. Cammino con prudenza sulla spazzatura che è così invasiva da essere protagonista del paesaggio urbano, pensando che finirà che lascerò indietro il mio problema, distratta da quello di un’altra persona che neppure conosco; ma mentre rifletto su quello che mi sembra un mio modo di fare un po’ sciocco, un suono ripetitivo  mi fa svegliare. A Milano. E non saprò mai se sono riuscita a stampare in tempo le mie copie.

Passami la prolunga

Erano gli anni ottanta, verso la loro fine. Proprio nei primi giorni di giugno c’era la più grande fiera dei libri in America, quell’America che allora ci piaceva tanto, a cui guardavamo con ammirazione, come si osserva con attenzione un maestro di vita. E non c’era bisogno di questo orribile presidente per capire – prese le debite distanze –  che quell’ammirazione era eccessiva. Ora che ce ne siamo resi conto tutti, come per un effetto chiaroscuro, nessuno avrà più voglia di prendere in giro quelli che per anni hanno chiesto attenzione ai temi dell’ambiente.

E non importa se c’è qualcuno che sostiene (pochi a dire il vero) che gli allarmi sono eccessivi, che da che mondo è mondo ci sono stati alti e bassi delle temperature e così via. L’unica cosa di cui noi umani (senza eccezioni, perché nemmeno gli scienziati hanno il dono dell’ubiquità temporale) possiamo renderci conto è la sporcizia dell’aria e del suolo. Il degrado, il consumo, l’incuria, l’indifferenza, l’egoismo, il disamore, la pigrizia, l’ignoranza, la stupidità, di cui siamo attori e responsabili, ce l’abbiamo sotto gli occhi, se li teniamo aperti; di questo non possiamo non renderci conto. Della bruttezza e della sciatteria a cui riduciamo (abbiamo ridotto) tutti i luoghi in cui siamo sbarcati, non possiamo non avere un’idea – se riusciamo a ragionare -. Le isole di rifiuti non smaltibili che vanno alla deriva negli oceani, uccidendo animali e vegetazione e l’acqua stessa, sono visibili e concrete, e pericolose. I troppo pochi che hanno visto un bellissimo e orribile film – documento, interpretato da Jeremy Irons come testimonial, con le musiche di Vangelis, non possono non sognarselo di notte, un incubo per sé e per il futuro dei figli.

Quell’anno la fiera dei libri era a Washington; tornando in albergo avevo visto delle tazze bianche e blu – esposte nella vetrina di un negozio lì accanto – erano giapponesi, molto belle e poco costose. In albergo, c’era un’atmosfera particolare: alcuni uomini, alti, scuri e grossi come armadi, si muovevano nel lounge con molta circospezione. La ragione di questo scenario un po’ particolare era una signora alta e bruna, bella e sorridente, con un completo (pantaloni e caffetano) di seta turchese che scintillava. La signora era gentile e contrita per essere la causa del trambusto e a me parve incredibile che mi offrisse un caffè per scusarsi delle domande che mi erano state fatte; fu così che presi un caffè con Benazir, con l’ingombrante sacca delle tazze giapponesi, che il giorno dopo sarebbero volate in Italia.

Quello stesso giorno di giugno, avevo spedito una cartolina a mio figlio, con una breve didascalia “è una giornata strana”. Emergevo da mucchi di libri e di idee, con l’entusiasmo guastato da un punteruolo di angoscia. Rientrando in Italia, con le tazze giapponesi pesantissime, aiutata da una signora tedesca che faceva scouting in Usa per la casa editrice, avrei scoperto che era morto un amico; se ne era andato alla fine di una rampa di scale, colpito da un infarto che era sembrato una vera e propria aggressione fisica.

Anche la signora tedesca gentile – con marito importante e coltissimo – se ne andò pochi anni dopo; per non dire di Benazir la bella, incontrata così estemporaneamente in un paese che allora sembrava la guida del mondo, o comunque uno dei mondi migliori, nonostante il Vietnam e il consumismo.

Pensavo all’impermanenza e alle tante cose che una persona ha il dovere di fare prima di volare nel niente, alla necessità di non sprecare il tempo che è davvero poco; pensavo che dobbiamo davvero essere molto stupidi per essere rappresentati da un così alto numero di stupidi arroganti. Mi chiedevo come sia possibile che così tanti non si accorgano che non si può proseguire così. Vorrei spiegarlo a tutti, dirlo ogni giorno, o almeno provarci. Per questo, però, vorrei una prolunga.

Fino all’ultimo rifiuto

DSCN5744Cara Mamma, durante tutto il film mi tornava in mente quel tuo modo meticoloso – quella che allora pareva davvero una mania – di sciacquare il tetrapak del latte prima di buttarlo; quel contenitore che (con tuo grande rammarico) aveva sostituito la bottiglia di vetro chiusa dalla capsula di stagnola spessa. Mi ricordo i compagni di liceo che ironizzavano bonariamente su ‘sta mamma un po’ così che mi insegnava a buttare in pattumiera solo cose ben ripulite, per rispetto verso quelli che le avrebbero maneggiate e “per sporcare il meno possibile”.

Ma ahimè mi son venuti in mente pure i bidoni della differenziata, qui a Sant’Angelo, dove si finge di non sapere chi butta l’umido con la carta, i rifiuti inerti dove capita, e spesso cose puzzolenti nel contenitore del vetro e della plastica. Tanto ci sono un bel po’ di tunisini e la colpa ricade su di loro (che comunque un bel po’ di arditi scambi di bidone li fanno davvero).

Trashed è un docu-film da vedere, proprio per documentarsi, per sapere che cosa è finito ormai nella catena alimentare, in quali paradisi apparenti filtrano i percolati più osceni, per avere contezza delle nostre (in)civiltà.

Ma va visto anche per ammirare come si muove Jeremy Irons destreggiandosi tra immani cataste di spazzatura indifferenziata e putrida, raccontandone origini, tempistica, e zone d’influenza: è uno spettacolo affascinante. I vestiti, le sciarpe, gli stivali, le giacche, i teli e le sciarpe indossati con eleganza nonchalante per questo giro del mondo orrorifico, li ho osservati con attenzione da entomologo. Non ha sbagliato una sola sciarpa, Jeremy, non un dettaglio. Tutto perfetto, per raccontare i disastri che abbiamo combinato e per socchiudere uno spiraglio di speranza, verso un mondo (un po’) più pulito.

Alla fine della proiezione tutti volevano sapere come si fa ad averne una copia, magari per rivederlo e magari organizzare una proiezione, e misurare ciò che ci rimane del nostro istinto di sopravvivenza. Da vedere anche, per capire a che cosa serve una centrale a biomasse e perché possiamo benissimo farne a meno. Distribuito in Italia dalla BIM.