“Ti faccio paura?”

La domanda mi coglie in contropiede.

Per anni – ma ormai siamo in un altro tempo – sono stata costretta a interpretare una parte che richiedeva che io incutessi ‘un certo rispettoso timore’ … e però la cosa non era molto nelle mie corde; non perché io mi sentissi incapace di suscitare un tale sentimento, ma proprio perché mi sembrava ridicolo cercare di ‘incutere’ una cosa simile nei miei simili; a maggior ragione mi pareva inutile e financo ridicolo e fuori dal tempo tentare farlo con gente che lavorava con me, e a cui mi legava un sentimento di complicità molto profondo, anche a dispetto di incomprensioni su aspetti del lavoro … Questi erano i miei sentimenti, spesso fraintesi e talvolta criticati, sull’opportunità di incutere timore nell’altro – nella vita e nel lavoro -; ho sempre pensato che se non si ha carisma o autorevolezza, non c’è niente (o c’è ben poco) da fare.

Allora gli rispondo: “perché dovresti farmi paura, perché sei nero? ma sei anche gentile; forse potrei aver paura di un nero o di un bianco, aggressivo e rozzo …, ma io, a te, bianca come sono, non faccio paura? …”

Ci facciamo su una risata e lui ha bei denti e occhi vividi d’intelligenza, e un bel volto con una carnagione setosa. E’ senegalese, ha diciassette anni e vende braccialetti sulla spiaggia. Non ho molto da dirgli come viatico per una vita problematica. Ma gli raccomando la gentilezza; poi ci rifletto su e mi chiedo se non gli ho dato un consiglio avventato. Ma questa è una giornata tristissima … e lui sento che ce la farà, proprio perché si è posto il problema e ha osato farmi quella domanda.

Ologrammi e simulacri

DSCN6001DSCN6010DSCN5998DSCN5997DSCN6006DSCN6008Lascio per qualche ora il verde della mia campagna preferita, le vigne, i boschi fronzuti e le olivete, per andare a godermi qualche ora di beata solitudo, al mare.

Sono le otto e trenta e ho camminato per un paio di chilometri, gradevolmente, sul bagnasciuga; ho lasciato un gruppuscolo di circa trenta persone alle mie spalle e di fronte a me – in opportuna lontananza – intravedo un paio di figure umane in acqua.

Penso di aver lasciato un’opportuna (e rispettosa) distanza tra me e gli altri vocati a un po’ di solitudine; il sole è caldo, il mare passabilmente limpido. Stendo il mio modesto telo, appendo la mia borsa, tiro fuori un moleskine e la fedele (si fa per dire: ne posseggo almeno una decina) “pilot” punta fine.

Faccio un bagno e mentre mi asciugo al sole, pensando agli incapaci insipienti uomini (e donne!) della politica, mi metto a disegnare; è un’attività che mi ristora profondamente e mi dà molte soddisfazioni (c’è pure chi mi dice che sono brava, perciò: doppia soddisfazione!).

Un’ombra entra nel mio campo visivo, mentre sto fermando sulla carta le irregolarità scabre e graficamente interessanti di un palo naufragato sulla battigia e infilzato a mo’ di totem nella rena calda e luminosa. E’ una donna – al di là di ogni correttezza lessicale pseudo-femminista, a posteriori mi sento di definirla una stupida -. Esordisce chiedendo “scusi, lei è qui?” (forse pensa che io sia un ologramma); “no” profferisco “sono un simulacro”. Borbotta qualcosa e rinuncia ad accamparsi a mezzo metro dalla mia testa (forse pensa che potrei puzzare?).

La donna e l’uomo – lui mi pare un po’ passivo – si accampano a soli due metri e mezzo dal mio piccolo regno solitario. Lasciando più di cento metri a destra e altrettanti a sinistra, totalmente deserti. Li fotografo, perché non credo ai miei occhi: lei brontola qualcosa, ma non mi assalgono, come temevo.

Me ne vado, pensando che davvero non siamo tutti fatti allo stesso modo.