La spiaggia a Bologna

RSCN7606Il due agosto del 1980, avevo quarant’anni, tre figli, un lavoro nuovo e molto bello, un bikini color prugna e stavo andando in spiaggia con i miei bambini. Erano passate da poco le dieci e mezza e non sapevo che una stagione di speranze civili – già incrinata da quella che abbiamo chiamato ‘strategia della tensione’ – si sarebbe definitivamente frantumata e che le prospettive delle nostre vite sarebbero crollate, sommerse dalle macerie della stazione di Bologna.

Per ragioni diverse tra di loro ho conosciuto testimoni o scampati (mio padre, correntista della banca nazionale dell’Agricoltura, a Piazza Fontana) alle bombe eversive che hanno insanguinato gli anni di piombo del mio paese; la strage di Bologna ha il potere di farmi battere forte il cuore, di togliermi il fiato, di farmi piangere di dolore per i morti, i feriti, gli amputati – dilaniati in un giorno di sole e di imminente vacanza -. Trentacinque anni dopo.

Trentacinque anni fa, quel giorno, dopo aver ascoltato la notizia alla radio mentre andavamo in macchina al mare, forse discutendo con i bambini che volevano sentire le canzoni di Lucio Dalla, siamo ‘naturalmente’ andati in spiaggia. Senza accorgermi che una stagione era finita, anche se le spalle imbottite della nuova moda, i jingle della nuova tv, le innovazioni tecnologiche, avrebbero efficacemente fatto da controcanto alla fine di molti sogni. E stamattina piangevo, sulla stessa spiaggia di trentacinque anni fa, ricordando quelli che a Bologna quel giorno hanno perso la vita e tutti gli altri che hanno smarrito la speranza; piangevo leggendo il racconto in prima persona di un giornalista, allora all’inizio della carriera,, che quel giorno prima di andare alla stazione andò a comprare un profumo per la sua fidanzata, perse cinque minuti e si salvò la vita.

“Ti faccio paura?”

La domanda mi coglie in contropiede.

Per anni – ma ormai siamo in un altro tempo – sono stata costretta a interpretare una parte che richiedeva che io incutessi ‘un certo rispettoso timore’ … e però la cosa non era molto nelle mie corde; non perché io mi sentissi incapace di suscitare un tale sentimento, ma proprio perché mi sembrava ridicolo cercare di ‘incutere’ una cosa simile nei miei simili; a maggior ragione mi pareva inutile e financo ridicolo e fuori dal tempo tentare farlo con gente che lavorava con me, e a cui mi legava un sentimento di complicità molto profondo, anche a dispetto di incomprensioni su aspetti del lavoro … Questi erano i miei sentimenti, spesso fraintesi e talvolta criticati, sull’opportunità di incutere timore nell’altro – nella vita e nel lavoro -; ho sempre pensato che se non si ha carisma o autorevolezza, non c’è niente (o c’è ben poco) da fare.

Allora gli rispondo: “perché dovresti farmi paura, perché sei nero? ma sei anche gentile; forse potrei aver paura di un nero o di un bianco, aggressivo e rozzo …, ma io, a te, bianca come sono, non faccio paura? …”

Ci facciamo su una risata e lui ha bei denti e occhi vividi d’intelligenza, e un bel volto con una carnagione setosa. E’ senegalese, ha diciassette anni e vende braccialetti sulla spiaggia. Non ho molto da dirgli come viatico per una vita problematica. Ma gli raccomando la gentilezza; poi ci rifletto su e mi chiedo se non gli ho dato un consiglio avventato. Ma questa è una giornata tristissima … e lui sento che ce la farà, proprio perché si è posto il problema e ha osato farmi quella domanda.