La teoria della triangolazione

Qui in campagna, durante il duro inverno puoi solo amare la natura, perché gli uomini (inteso alla tedesca) è come se fossero spariti in altrettante caverne. Non siamo esenti da problemi, qui in campagna – pure in questa campagna di lusso com’è considerata Montalcino e i suoi hameaux (frazioni) -: per esempio il riscaldamento! Non quello globale, bensì quello che paghiamo ben quattro euro e cinquanta al metro cubo (e di questo parleremo prossimamente).

Per questo noi abbiamo il cuore freddo e i piedi pure: teniamo quel riscaldamento lì rigorosamente spento. Ma non è di questo che volevo scrivere stasera: volevo scrivere che talvolta la mia telepatia non è solo una mia fantasia, perché oggi è arrivata – a scaldarmi il cuore e la mente (e pure i piedi) – una telefonata proprio speciale.

Da anni mi capita di scrivere raccontando (un po’ stupita dall’assenza di reazioni altrui) dei tempi in cui ho visto nascere il made in Italy (non quello retorico, come il ‘gourmet’ o ‘gli antichi borghi’), quello vero che riconosci di più all’estero o nelle case della borghesia colta e riservata. Non alludo perciò a una sfilata di pezzi firmati da designer o a creazioni di chef e stilisti. Ho in mente quel processo di maturazione ricco di creatività e di visionarietà che ho visto mettersi in moto nei miei primi – irripetibili – anni di lavoro, a Milano, a “la Rinascente”, in un clima ‘sorgivo’ così unico da sembrarmi qualche volta inventato di sana pianta, nella mia mente durante un sogno delirante.

La speciale telefonata – venuta a sollevarmi dal dubbio di cui sopra – me l’ha fatta la figlia di un uomo a cui penso spesso. Una di quelle persone di cui vorresti raccontare ai figli e ad amici, soprattutto se giovani e di mente fresca. Un uomo che immaginavo morto (e infatti) facendo un po’ la conta degli anni, anche se questa è l’era della longevità, ma di cui ricordo bene la voce, la forma della bocca e degli occhi, il colore della pelle e l’ironia lievissima: un’espressione della sua mitezza d’animo e il suo personalissimo modo di esprimere i suoi pensieri.

Non potrebbe essere altrimenti perché a quell’uomo ero stata presentata da un esterno a cui avevo dato una mano all’esame di maturità, durante l’ex-tempore di architettura. Non ho mai saputo se fossero amici o solo buoni conoscenti, ma quella presentazione fu il momento ‘sliding doors’ nella mia vita, perché mi catapultò nel bel mezzo di un ufficio con la più alta concentrazione di designer e di pensatori, di talenti cosmopoliti, tutti confluiti a Milano, negli anni in cui la città viveva un rinascimento che avrebbe disseminato per l’Europa del dopoguerra, diventando il vettore dell’innovazione moderna, superando il concetto di artigianato (ma includendolo nella volata), aprendo gli occhi (a chi li aveva) per disegnare, alla lettera, un futuro in cui la vita poteva avere un significato più ricco e complesso, più denso e laborioso, più coinvolgente e intelligente. Senza snobismi, senza essere assatanati dal denaro, in un clima di semplicità e di conoscenza in continuo divenire.

Il luogo non è un blog, dove dire il perché e percome la telefonata è così importante, ma per sapere di più posso riassumere così. Io so, per esperienza, che quello che uno pensa da solo resta quasi sempre lì nella sua testa (escluso Einstein e dintorni); se lo si pensa in due è un dialogo (io dico a te e tu rispondi a me), ma quando sai che quello che pensavi, talvolta ipotizzando di dare un’eccessiva importanza alla tua riflessione, non è una tua valutazione personale o un tuo vaneggiamento solipsistico (la campagna è bella ma fa brutti scherzi), ma è qualcosa che pensano (e dicono) ben altri, (altri che addirittura pensano di raccontarlo, di farne comunicazione ), ecco che la (mia) teoria della triangolazione si concretizza in qualcosa di tangibile e di pratico, e ben più convincente (la teoria affascina, la pratica convince).

Tutto ciò che ‘triangola’, risuona, diventa, anzi diviene; anche se all’inizio sono parole – come biglie in quel bigliardo triangolare che per me è il campo delle idee – rimbalzando su tre lati finisce che si costruisce qualcosa. Capito?!

 

Un’eco lontana del Professore

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Sono rimasta un po’ stupita da Elisabetta Sgarbi, che durante il funerale di Umberto Eco ha mostrato l’imminente ultimo libro del Professore in uscita dopodomani per i tipi de La Nave di Teseo. Stupita per più di una ragione, ma soprattutto per l’evidente convivenza, in quel gesto, di sentimenti appartenenti a categorie diverse e tra loro lontane: alcuni umanissimi e privati, altri legati al contesto pubblico e infine una specie di ‘mozione di marketing’ che mi ha fatto ritornare, per un momento, agli anni in casa editrice, quando nel cortile dell’editoria italiana le finestre da cui mi affacciavo erano contrapposte a quelle di Rizzoli e Bompiani.

Ma quello sciorinamento del libro, durante il funerale dell’autore che diventava, secondo alcuni, un momento promozionale, mi è sembrato un estremo omaggio, un gesto sentimentale, più che una promozione, rivolto al motore di una nuova nave editoriale che ha perso, con la dipartita di Umberto Eco, il suo armatore.

Mi accorgo, mentre scrivo, di resistere strenuamente all’uso delle parentesi – stigmatizzate dal defunto – in una specie di omaggio personale alla famosa Bustina di Minerva, quella con le regole per scrivere bene, che molti hanno salvato nei propri file perché ne vale davvero la pena.

Questo lungo preambolo mi aiuta ad annotare il mio breve ricordo e giovanile del Professore, conosciuto nel 1961, collaborando alla creazione di un libro sponsorizzato (dalle Grandi Marche Associate) che aveva come tema i cocktails e il bere in generale.

Non riesco a ricordare come mi sia capitato di far parte di una squadra così dotta – insieme a quelli di Eco, altri testi del libro sono di Roberto Leydi e i disegni, freschi e ironici, di Maria Luisa Gioia, artista di grande talento -; invece ricordo bene il momento diciamo così storico: la coda di un dopoguerra autarchico e un po’ provinciale in dissolvenza incrociata con la Milano che sarebbe diventata il propulsore del miracolo culturale (e di conseguenza economico).

In quel preciso momento vivevo il primo crocevia della mia giovane esistenza: un piede nell’accademia di Brera, allieva di Achille Funi, modella di Pompeo Borra, ammiratrice di Marino Marini; studentessa di tedesco al Filologico, apprendista designer a La Rinascente, con Bruno Munari tra i grandi maestri e Giulio Carlo Argan che veniva a spiegarci nessi, influenze e contaminazioni tra storia dell’arte e la nostra contemporaneità.

Fu proprio in quell’affollato crocicchio, così ricco di stimoli da lasciare conseguenze che durano tutt’ora nella mia immaginazione, che un giorno mi ritrovai con Maria Luisa e con questo giovane che lavorava in Bompiani, a discutere del senso delle foto di cui mi era stata affidata la cura. Ancora adesso non riesco a rintracciare il bandolo di questo incarico, extra Rinascente, affidato a una ventenne che chissà come veniva accreditata come art director esperta.

Di quel giovane Umberto Eco ricordo bene la mise, super seria, e lo associo a una parola – cibernetica – imparata in quell’occasione; perché saputo che lavorava in casa editrice e che curava l’Almanacco Bompiani, corsi in libreria ad acquistarne una copia e la cibernetica era proprio il tema di quell’anno. Dopo alcune riunioni in casa di Roberto Leydi, per definire non ricordo più cosa, ho perso di vista il Professor Eco. Ma negli anni, l’ho poi ritrovato a Francoforte e a New York, alle fiere del libro, con un’allure più manageriale che professorale, poliglotta, sorridente, indaffaratissimo, e non ho mai avuto il coraggio di ricordargli la collaborazione a quel libro di cui io (sola?) conservo una copia destinata a diventare di culto, almeno a casa mia.

Solo anni dopo, a Milano, nei paraggi del Giamaica, in occasione di una presentazione di cui ho un vago ricordo, in una pausa innocua, ho osato accennargliene: erano passati trent’anni e non ho mai capito se la sua battuta, il sorriso cordiale e il modo colloquiale con cui ha reagito siano stati il frutto di un vero ricordo o un modo di essere Umberto Eco.

 

 

Sguardo azzurro con sahariana

DSCN9704Lo conoscevo quando era ancora quasi sconosciuto, quando il design era un concetto (e una parola) da addetti ai lavori; quando l’Italia – come l’abbiamo conosciuta e incastonata nel nostro immaginario – era ancora in costruzione, quando Richard Sapper  (a due tavoli da disegno dal mio) riempiva lo spazio intorno a sé con l’energia smagliante e ottimistica di uno che stava per ridisegnare un bel pezzo del nostro gusto (lampade, telefoni, sedie, utensili di cucina, radio …). Al sesto piano de “la Rinascente”, di fronte a una prima pattuglia di guglie del noster Domm (quel de Milan), inondati dalla luce che anche a Milano – a dispetto degli increduli – c’è, ho fatto parte immeritatamente di un gruppo di grafici, designer, residenti e consulenti (tutti rigorosamente pagati in nero!) che davano forma al made in Italy, di cui allora non c’era nemmeno percezione … Bruno Munari, Enzo Mari, Albe Steiner, Max Hubert, Erberto Carboni, i fratelli Castiglioni, Mario Cristiani, Georges Coslin, Vuokko Eskolin, Harry Moilanen, Norbert e Ornella Linke, Verbena Rebora … e tanti altri che con vari incarichi, esterni e interni, facevano parte di quell’Eden della grafica e del disegno industriale pensato e realizzato da Augusto Morello (successivamente Presidente dell Triennale). E Giulio Carlo Argan veniva a raccontarci l’arte italiana, con seminari geniali mai visti dopo allora, un giovanissimo Umberto Eco passava spesso da quelle parti e le ore di libertà, a fine giornata, ci vedevano tutti al Jamaica (Giamaica) a bere un bicchiere di vino (in tempi in cui il vino era retaggio di ubriaconi). I fotografi – oltre al mitico Clari – erano Libis, Mulas, Aldo Ballo; Giorgio Armani era il visionario vetrinista de la Rinascente che contribuì a crearne lo stile.

Sotto la guida di Borletti e di Brustio, furono organizzate – una dopo l’altra – le mostre di Messico, Giappone, Gran Bretagna e India; con la vendita dei prodotti di quei paesi, importati direttamente, senza mediazioni pseudo globalizzanti che avrebbero potuto appiattirli o banalizzarli, asservendoli al gusto italiano invero assai provincialotto, a quel tempo.

Un bagno nell’intelligenza e nella visionarietà, sono stati quegli anni di lavoro: senza le mediazioni di interessi finanziari o dei banchieri internazionali; quelli che, per intenderci, pensano che con il denaro si compri tutto. Con il denaro – è vero! – si fa moltissimo, ma non si sostituisce l’esperienza, né si rimpiazza la creatività di uno sguardo che intravede che cosa l’Italia e le sue storie potranno diventare. Uno sguardo azzurro, con sahariana, come quello di Richard Sapper, designer italianissimo, con passaporto tedesco.