Implosione e Compassione

Ascoltavo stamattina una trasmissione alla radio sulla nostra lingua. E’ interessante che almeno in un’emittente si siano resi conto dell’utilità – forse dell’urgenza – di prestare un po’ d’attenzione alla nostra lingua, al suo uso, e al mutare dei nostri pensieri che questo rivela.

Io ascoltavo guidando, perciò più attenta alla strada che a quello che veniva detto; ma a un certo punto ho ascoltato lo speaker recriminare sulla dissolvenza di una parola – compassione – che è ormai quasi scomparsa dal nostro vocabolario. Io non me n’ero accorta, e proseguendo nell’ascolto (e nella guida) riflettevo come la nostra vita attiva e i nostri sentimenti promuovano o congelino le parole. E in quel momento ho proprio immaginato  le parole che usiamo come un gregge di pecore sospinto qua e là dal pensiero dominante che prendeva le sembianze di cani maremmani.

La “compassione” si usava quando io andavo dalle monache, che me la proponevano come la parola per qualcosa che istintivamente non mi piaceva: si doveva provare compassione per gli evidenti casi pietosi così frequenti nel paese contuso e rabberciato del secondo dopoguerra. E bisognava ‘fare la carità’; gesti e azioni un po’ pelosi e ipocriti, in un’Italia che poi invece mi avrebbe suscitato davvero compassione (un sentimento colmo di affetto e di rammarico) guardando retrospettivamente le immagini scattate da Richard Avedon nel 1946, nel nostro paese, e pubblicate nel volume “Observations”, nel capitolo The Italian Experience.

Quelle immagini, che mettono in poesia un paese fatto di persone arretrate – soprattutto uomini – dallo sguardo un po’ allucinato; mettono in mostra un paese infantile e ignorante, di un’ignoranza dolorosa e inconsapevole: il volto peggiore del nostro provincialismo.

Quando Observations mi è stato regalato (da mio padre per il mio ventesimo compleanno) non ho dato molto peso a questo capitolo sull’Italia del dopoguerra, né al testo di Truman Capote, perché ero presa dal bellissimo ritratto di Marella Agnelli, che Avedon aveva fotografato (a mio parere) avendo in mente il Laurana; inoltre i miei vent’anni, agli albori del boom, si incantavano davanti ai ritratti di attrici e personaggi della cultura e del ‘lavoro’. Tutti erano vestiti con abiti solidi e eleganti, di un’eleganza durevole, interiore. Lì, in quelle pagine (che ho appena riguardato) ho conosciuto il concetto di borghesia intelligente – quella in grado di fare ‘la rivoluzione’-.

Sfogliare il libro e rivedere le foto – di cui si cita lo stampatore in camera oscura (un mestiere dimenticato): Frank Finocchio, a cui sono dedicate due righe di ringraziamento speciale – fa venire in mente proprio il mondo del lavoro, quello vero dove “si fa” qualcosa di preciso. Sfogliando il libro salta all’occhio la diversità, dell’abbigliamento e di stile, delle persone importanti (come ad esempio i politici), tra quei giorni e questo tempo d’oggi, in cui la politica si veste per apparire: confondendo questa necessità con quella dell’essere (dalla parte dei cittadini) e del fare (per migliorare il paese). Nonostante Matteo Renzi, magari a sua insaputa, citi Erich Fromm (forse per via dell'”avere”).

La politica sartoriale è davvero molto cambiata, diventando di maniera. Le donne, lungi dal desiderio di somigliare a statiste paiono piuttosto tante allumeuse. Gli uomini hanno come evidente modello di riferimento quello dell’uomo d’affari di successo, con Rolex e Piaget che si sprecano, al polso di gente che di affari ne fa un bel po’ e con grande successo personale.

Se tanto mi dà tanto, ovvero, se questi sono a loro volta i riferimenti per noi cittadini quasi sudditi, come si può pensare alla compassione, a quella parola per dire un sentimento di profilo alto, elegante e profondo; si può al massimo provare pena, anche per la densa presenza di cretini (della cui prevalenza scrissero un delizioso librino Fruttero & Lucentini). Non si può che provare tristezza per questo paese ad alta densità di persone i cui ideali sono così bassi da essere praticamente invisibili.

Possiamo riservare la compassione per il momento in cui risvegliandoci da questo mefitico torpore ci accorgeremo di essere vissuti non tanto al di sopra dei nostri mezzi, bensì al di sopra delle nostre opinioni: molti tra noi avendo di sé un’idea raccattata non si capisce bene in quale fondo, completamente sconnesso dalla vita reale.DSCN7220

Poveri ma Brutti

Per il mio diciottesimo compleanno mio padre mi spedì da New York, Observations,  il libro del fotografo Avedon con i testi di Truman Capote, appena pubblicato da Simon&Schuster; se ci ripenso, non posso che provare un’onda affettuosa verso quel mio genitore sempre lontano per lavoro e anche così lontano da quel mondo (design, moda, grafica, fotografia), ma così capace di essere vicino ai miei desideri e attento ai miei interessi di ragazza, da riuscire a scegliere per me il libro che divenne la cifra di quegli anni – raffinatezza e toni alti, con una grafica asciutta e impeccabile – dopo il lungo dopoguerra buio.

Se si sfoglia Observations, si incontrano i ritratti dei personaggi che formavano il paesaggio internazionale di allora – si va da una Karen Blixen vecchissima a BB trasfigurata da una nuvola di capelli – e si incontra anche un bellissimo ritratto di Marella Agnelli, che a me – allora – ricordò un busto del Laurana, tanto emanava eleganza e compattezza. Pensando alla data in cui fu scattata la foto non si può non pensare che l’eleganza sublime che emana da quel ritratto contrasta fortissimamente con l’Italia di quel tempo.

Infatti Avedon, nello stesso libro, dedica alcune pagine anche a scatti italiani, che ritraggono passanti e bambini contemporanei alla galleria di ritratti di personaggi importanti che sono il tema principale: è come se il fotografo avesse voluto fare un parallelo tra due mondi: quello dell’intellighenzia, dei personaggi internazionali, di alcuni uomini politici, e un paesaggio umano che probabilmente l’aveva colpito e emozionato, nelle vie delle città italiane.

La grande povertà del nostro paese in quegli anni ci arriva senza veli, in tutta la sua acutezza, come un grido dei bambini che ricordo in una delle immagini. Ma assieme a essa, vorrei quasi dire “dentro”, si sente la bellezza, il senso della bellezza italiana – quasi un audio, una musica – che dà ai miseri vestiti indossati da quelli che compaiono nelle foto di quelle pagine italiane già uno stile, come se fossero quelli dei personaggi di un film. Non di un film, si tratta, ma si sente che dentro c’è una storia, una poetica un mondo intero.

Queste sensazioni, anche queste, mi hanno accompagnato per anni; sono certa che il profilo immaginario del pianeta Italia sia stato nutrito, dal dopoguerra fino a vent’anni fa, forse trenta, con il racconto di come eravamo, mentre insolveva – nello stesso immaginario – il report di come stavamo diventando: la quinta potenza, la sesta forse – non so -, mondiale, con una crescita e una diffusione del benessere (sempre un po’ a macchia di leopardo) tale da farci dimenticare le acute asimmetrie di tale crescita, i buchi, le ingiustizie, le smagliature, le irregolarità, le illegalità, e poi i furti e le ruberie, le appropriazioni, i contrabbandi, le furbate, le evasioni, che hanno dilapidato la fortuna del (ex) Belpaese, esportandola nei fortini internazionali dei (relativamente) pochi ladroni – spesso con cognomi di spicco – a svantaggio dei molti fessi che si sono lasciati rubare lavoro e dignità da una banda internazionalizzata.

Ma ci resta l’ancora Belpaese, di cui si stanno sgretolando parti, tra terremoti, diluvi e frane, da un lato, svendite e cessioni, dall’altro. Quello che bisogna impedire, a qualsiasi costo è l’ulteriore avvilimento di paesaggi, beni storici e culturali, prodotti agricoli tipici, idee e cultura. La maggior parte dei cittadini l’ha capito: noi che viviamo in campagna – in una campagna molto bella e rinomata – lo sappiamo e lo tocchiamo con mano tutti i giorni. Non basta saperlo, però: bisogna parlarne; bisogna farlo sapere e capire a chi amministra e governa. Non vogliamo essere poveri e diventare anche brutti!