Sono in quattro, sono gentili, sono efficienti: è il Corpo Forestale dello stato che giunge a casa mia – pure sede di una mia microscopica (ma – presumo a posteriori – sempre più significativa) attività. E’ la Forestale, che fa i richiesti controlli – per conto del Ministero o di altri – nell’ambito ” delle politiche di tutela del Made in Italy“.
Ci tengono, e me lo sottolineano più volte. Sono i Servitori (“s” maiuscola in segno di rispetto) di uno stato che si occupa piuttosto del contorno ( chi ha detto cosa di chi e che cosa ciò può significare per la democrazia) anziché della sostanza, ovvero di che cosa bisogna fare per dare una mano ai cittadini.
Dunque arriva la Forestale, in quel di Sant’Angelo in Colle e mi fa domande per niente imbarazzanti, anzi! Osserva, controlla, chiarisce, risponde evitando abilmente tutto ciò che non è pertinente.
Tutto fila ‘liscio’ come dev’essere, finché il Maresciallo estrae i moduli per il verbale e infila tra due moduli un foglio di carta carbone, “per la copia”.
E’ un salto nel passato del nostro paese – in quello fotografato da Richard Avedon negli anni cinquanta, e pubblicato in Observations (Simon & Schuster, 1958) -.
“Dov’è il tablet, Maresciallo?” gli chiedo senza voler essere insolente (anzi sono accorata); la risposta, amici miei, è nel sorriso dignitoso del suddetto, che si autocensura.
Stamattina telefono a Radiotre e approccio la segreteria raccontando che, mentre tutta l’Italia sta discettando (fino al nostro sfinimento) di Berlusconi – evasore e vittima del giustizialismo – la Guardia Forestale se ne va in giro scrivendo verbali con il supporto tecnico della carta carbone.
“Non capisco che cosa lei voglia dire con ciò”, mi soffia rispondendo la signora di Radiotre. Capisco, solo in questo preciso istante che il paese è davvero senza speranza e che se fossimo nella giungla tutto sarebbe più facile. E penso con ammirazione al Corpo Forestale che fa il proprio lavoro con gli sfridi di qualcosa che è stato.
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Poveri ma Brutti
Per il mio diciottesimo compleanno mio padre mi spedì da New York, Observations, il libro del fotografo Avedon con i testi di Truman Capote, appena pubblicato da Simon&Schuster; se ci ripenso, non posso che provare un’onda affettuosa verso quel mio genitore sempre lontano per lavoro e anche così lontano da quel mondo (design, moda, grafica, fotografia), ma così capace di essere vicino ai miei desideri e attento ai miei interessi di ragazza, da riuscire a scegliere per me il libro che divenne la cifra di quegli anni – raffinatezza e toni alti, con una grafica asciutta e impeccabile – dopo il lungo dopoguerra buio.
Se si sfoglia Observations, si incontrano i ritratti dei personaggi che formavano il paesaggio internazionale di allora – si va da una Karen Blixen vecchissima a BB trasfigurata da una nuvola di capelli – e si incontra anche un bellissimo ritratto di Marella Agnelli, che a me – allora – ricordò un busto del Laurana, tanto emanava eleganza e compattezza. Pensando alla data in cui fu scattata la foto non si può non pensare che l’eleganza sublime che emana da quel ritratto contrasta fortissimamente con l’Italia di quel tempo.
Infatti Avedon, nello stesso libro, dedica alcune pagine anche a scatti italiani, che ritraggono passanti e bambini contemporanei alla galleria di ritratti di personaggi importanti che sono il tema principale: è come se il fotografo avesse voluto fare un parallelo tra due mondi: quello dell’intellighenzia, dei personaggi internazionali, di alcuni uomini politici, e un paesaggio umano che probabilmente l’aveva colpito e emozionato, nelle vie delle città italiane.
La grande povertà del nostro paese in quegli anni ci arriva senza veli, in tutta la sua acutezza, come un grido dei bambini che ricordo in una delle immagini. Ma assieme a essa, vorrei quasi dire “dentro”, si sente la bellezza, il senso della bellezza italiana – quasi un audio, una musica – che dà ai miseri vestiti indossati da quelli che compaiono nelle foto di quelle pagine italiane già uno stile, come se fossero quelli dei personaggi di un film. Non di un film, si tratta, ma si sente che dentro c’è una storia, una poetica un mondo intero.
Queste sensazioni, anche queste, mi hanno accompagnato per anni; sono certa che il profilo immaginario del pianeta Italia sia stato nutrito, dal dopoguerra fino a vent’anni fa, forse trenta, con il racconto di come eravamo, mentre insolveva – nello stesso immaginario – il report di come stavamo diventando: la quinta potenza, la sesta forse – non so -, mondiale, con una crescita e una diffusione del benessere (sempre un po’ a macchia di leopardo) tale da farci dimenticare le acute asimmetrie di tale crescita, i buchi, le ingiustizie, le smagliature, le irregolarità, le illegalità, e poi i furti e le ruberie, le appropriazioni, i contrabbandi, le furbate, le evasioni, che hanno dilapidato la fortuna del (ex) Belpaese, esportandola nei fortini internazionali dei (relativamente) pochi ladroni – spesso con cognomi di spicco – a svantaggio dei molti fessi che si sono lasciati rubare lavoro e dignità da una banda internazionalizzata.
Ma ci resta l’ancora Belpaese, di cui si stanno sgretolando parti, tra terremoti, diluvi e frane, da un lato, svendite e cessioni, dall’altro. Quello che bisogna impedire, a qualsiasi costo è l’ulteriore avvilimento di paesaggi, beni storici e culturali, prodotti agricoli tipici, idee e cultura. La maggior parte dei cittadini l’ha capito: noi che viviamo in campagna – in una campagna molto bella e rinomata – lo sappiamo e lo tocchiamo con mano tutti i giorni. Non basta saperlo, però: bisogna parlarne; bisogna farlo sapere e capire a chi amministra e governa. Non vogliamo essere poveri e diventare anche brutti!