Lui sta seduto in terra, appoggiato all’alto cordolo che rende scomodissimo il semicerchio che contiene l’Arco della Pace. Quasi elegante, vecchiotto quel che basta, in una città dove i vecchi – asciutti, eleganti in modo invisibile – si sprecano. Avvicinandomi mi accorgo che è una riedizione di Emilio Tadini (solo un po’ più magro), gli occhi semichiusi, il viso proteso verso l’alto (bisogna pur abbronzarsi il collo e se non lo si tende a dovere ti saltan fuori certe rughe bianche orribili. L’Emilio lo faceva sul terrazzo di casa, in basso, in via Jommelli e mio figlio lo fotografava da casa nostra al quarto piano: un micione al sole, con lo specchio abbronzante aperto come un giornale.
Solo che qui siamo in pubblico, tra gente che corre, sgambetta, fa stretching. Non è primavera, ma riesce a sembrarlo in modo plausibile. Un terzo di quelli che incontro ha il viso stropicciato, sciarpe bellissime, shopper che raccontano una vita ancora ben dentro le cose, quel benessere un po’ così che attutisce il senso della fine delle cose … non di tutto, ma di quello che era come lo conoscevi bene.
Non c’è nulla come vivere altrove e tornare spesso – ma in modo ogni volta diverso, magari a pesca d’idee – in questi posti che nel secolo scorso sono stati il punto di decollo di un paese agricolo e sottosviluppato, per sfogliare una certa storia d’Italia. Qui, nei dintorni della Triennale, sono indecisa se volgermi verso via Paleocapa e ripensare ai Berlusconis, o strizzarmi nel mondo del design (molti di quelli che ho conosciuto sono diventati nomi di vie).
Mi sto allenando a catalogare i cambiamenti – sono su diversi piani, e la città la scompongono come in un caleidoscopio ombre-luci – ne sono affascinata. Taluni ne stanno accentuando i caratteri asciutti e anche colti: riguardano la città che lavora e prospera, che è viva e pulsante, anche se il lavoro è cambiato è rimasto però cosa vera … Ma duecentomila persone arrivate a miscelarsi con i ‘nativi’ hanno portato i loro colori, i loro odori, i loro modi – sudamericani, filippini, nordafricani, asiatici, e in questo quartiere thay, cinesi, coreani, con i loro negozi, gli affari, la lingua ermetica -.
Il turismo è una novità, un turismo ricco di gente che compra, e quello che non compra lo fotografa, di donne asiatiche elegantissime che invece di camminare veleggiano, è una sorpresa, ma non è quel turismo da città d’arte, come si usa dire: questa è gente che viene a respirare una cert’aria di contemporaneità.
Tutt’intorno, ben fuori dalle circonvallazioni esterne, una folla di vecchi – coraggiosi, esitanti, ben messi, malmessi – con vecchine che hanno paura a uscir di casa perché il vicino le ha minacciate, tante donne velate, tanti uomini che ciondolano agli angoli delle strade con le mani in tasca, tanti banchetti di merci inutili. (Tante sale giochi: il vero scandalo del nostro paese e un solo giornale – l’Avvenire – che se ne occupa seriamente).
Dentro la pancia della città, però, tutti vengono sfamati: le istituzioni della tradizione del “coeur in man” si sono irrobustite, altre se ne sono aggiunte, è diventato un sistema, ben gestito, in cui operano migliaia di volontari veri – gente non pagata che serve e assiste, organizza e serve, aiuta e serve: pensionati, professionisti, casalinghe, c’è un po’ di tutti, con grande fatica e impeccabile senso del dovere – nessuno muore di fame, tutti hanno la possibilità di lavarsi e di cambiare biancheria.
Ho l’impressione che se scavassi appena un po’ mi troverei a disagio, come quando mi tocca ascoltare la donna pallida nerovestita che si trascina nella carrozza del metro cantilenando con voce stridula peer favooore, per mangiaare, datemi qualcosa.
Salgo sul tram e incrocio lo sguardo di uno che abita ancora dalle mie parti: non faccio niente per sembrare quella che sono stata e so di non sembrarlo, ma forse qualcosa glielo ha ricordato; una donna mi tossisce ripetutamente in faccia, come se cercasse di passarmi la sua tosse. Mentre penso a come vendicarmi, lei scende e sparisce. Ma sì, è salito un controllore …
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Merenda con Gioia
Ritrovare un mondo – che ti ha nutrito di conoscenza negli anni più intensi della vita – può diventare una merenda lunga un pomeriggio intero di una giornata lombarda, sotto il cielo vasto di cui ogni tanto mi dimentico. E gli ingredienti non sono solo la zucca, le verdure e i pesci, né si limitano al vino – anonimo e meraviglioso pinot nero vinificato in bianco – né alle stoviglie, al giardino più lombardo che mai, agli uccelli che chiedono di partecipare. E quello che mi torna in mente – nitido e commovente – è un mondo intero che non era solo della mia gioventù, ma quella di una città che si apriva alle arti, alle lingue, ai segnali, al lavoro intelligente delle mani, ai grandi fotografi, a Bruno Munari, a Sottsass, ai grandi architetti che non erano star, a Fornasetti e alle mostre del Caravaggio e degli astrattisti; ai grandi temi della conoscenza che entravano nei dialoghi della gente di tutte le età e di tutte le appartenenze. Una Milano che viene appena prima di quella cantata da Lucio Dalla, troppo civile e aperta al nuovo per sospettare che sarebbe stata annientata dall’invasione del nullificio. Merenda con Gioia è anche ritrovare una grande artista figlia di quegli anni e scoprire che tutto è rimasto intatto, che sotto il cielo di Lombardia dove pullula di tutto, è rimasto un angolo di ricchezza vera, fertile, feconda e piena di energia.