Bio Bio Bio Bio

DSCN5687Ammiro Giannelli (che ho anche il piacere di conoscere, fin dal tempo in cui è stato brevemente un autore Mondadori) e alcune sue vignette sono semplicemente geniali. Quella di oggi sul Corriere, invece mi ha folgorata, lasciandomi un po’ di amaro in bocca. Riguarda l’ormai nota vendita ai cinesi della Pirelli, una delle stelle del nostro firmamento industriale, giusto per non citare la brutta espressione “eccellenza italiana”, modo di dire divenuto ormai retorico.

Ma l’amarezza non aleggia tanto (o solo) a causa della vendita ai cinesi, ma piuttosto perché, con una di quelle alchimie del caso descritte da Gustav Jung, la vignetta di Giannelli, oggi, sintetizza bene il mondo alla rovescia in cui stiamo vivendo.

Sembra di stare in un racconto un po’ surreale; un mondo di paradossi. Gli emiri che finanziano il terrorismo internazionale e acquistano il nuovo centro di Milano e in chissà quali altri affari hanno le mani (qualcuno dice energia e acqua); Putin che correrebbe volentieri in soccorso della LePen; gli americani che secondo Sean Penn – ma non solo secondo lui – sarebbero all’origine (addirittura i creatori) dell’ ISIL; il capitalismo ‘comunista’ dei cinesi che però lasciano a capo della Pirelli cinese il Tronchetti Provera; e la lista includerebbe non pochi casi nostrani, anche più vicino a noi comuni mortali …

Rientrando invece in panni più campagnoli, ma non meno mediatici, si fa una carrellata su Vinitaly per apprendere che l’esecrato e stigmatizzato mondo dell’agricoltura biologica (e biodinamica), nella sua accezione vitivinicola sta diventando un protagonista ed è non solo esaltato, ma da ciò che si può leggere sui grandi quotidiani – Corsera in primis – è portato in palmo di mano dal mondo fino a ieri più critico verso le pratiche ‘naturali’ e più vicine ai bioritmi della terra. Solo che questi “nuovi protagonisti” del bio pretendono di fare i primi della classe, con un atteggiamento da “ora ti spiego io come si fa”.

Ed è tutto un predicare il nuovo corso bio, da parte di quelli che fino a ieri ne prendevano le distanze. Chi però poi allunga il passo in campagna e fa una girata tra le vigne scopre che davvero molte di quelle che venivano trattate con sostanze sistemiche e con concimi chimici, ora si presentano con un rigoglio di favino, tra un filare e l’altro. Non ci si può davvero lamentare di queste apparizioni: fa bene, fa meglio a tutti (prima di tutto alla terra stessa) questo nuovo sguardo ecologico. Io magari sono troppo maliziosa e scettica, perché penso che non si tratti tanto di un’evoluzione, quanto di una scelta fatta sulla consapevolezza di un’attenzione speciale dei consumatori per i cibi naturali (vino incluso).

Ci sono quelli che coltivano direttamente la loro vigna, da anni, anzi da decenni,  praticando l’agricoltura biologica; da qualche tempo anche alcuni produttori più grandi e particolarmente attenti – hanno adottato queste pratiche. Questa presa di coscienza, queste acquisizioni, sono un segnale positivo.

Meno positivo invece è il tentativo di chi fino a ieri lontano e scettico, rispetto a queste pratiche colturali, di ergersi a maestro, di dare indirizzo e regole, di costruire recinti e dare etichette … insomma di normare un qualcosa che è prima di tutto un modo di essere e di sentire. Da tutti gli articoli affiorano gli stessi aggettivi che fanno pensare che tra pochissimo sarà tutto un bio bio bio bio. Tutto il contrario di tutto quello che succedeva anni fa. Proprio una realtà scaravoltata, come sagacemente sintetizza Giannelli, con gli imprenditori che diventano “comunisti”, invece degli operai.

 

Tra Dubai e la ‘Ndrangheta

DSCN5571Lui sta seduto in terra, appoggiato all’alto cordolo che rende scomodissimo il semicerchio che contiene l’Arco della Pace. Quasi elegante, vecchiotto quel che basta, in una città dove i vecchi – asciutti, eleganti in modo invisibile – si sprecano. Avvicinandomi mi accorgo che è una riedizione di Emilio Tadini (solo un po’ più magro), gli occhi semichiusi, il viso proteso verso l’alto (bisogna pur abbronzarsi il collo e se non lo si tende a dovere ti saltan fuori certe rughe bianche orribili. L’Emilio lo faceva sul terrazzo di casa, in basso, in via Jommelli e mio figlio lo fotografava da casa nostra al quarto piano: un micione al sole, con lo specchio abbronzante aperto come un giornale.
Solo che qui siamo in pubblico, tra gente che corre, sgambetta, fa stretching. Non è primavera, ma riesce a sembrarlo in modo plausibile. Un terzo di quelli che incontro ha il viso stropicciato, sciarpe bellissime, shopper che raccontano una vita ancora ben dentro le cose, quel benessere un po’ così che attutisce il senso della fine delle cose … non di tutto, ma di quello che era come lo conoscevi bene.
Non c’è nulla come vivere altrove e tornare spesso – ma in modo ogni volta diverso, magari a pesca d’idee – in questi posti che nel secolo scorso sono stati il punto di decollo di un paese agricolo e sottosviluppato, per sfogliare una certa storia d’Italia. Qui, nei dintorni della Triennale, sono indecisa se volgermi verso via Paleocapa e ripensare ai Berlusconis, o strizzarmi nel mondo del design (molti di quelli che ho conosciuto sono diventati nomi di vie).
Mi sto allenando a catalogare i cambiamenti – sono su diversi piani, e la città la scompongono come in un caleidoscopio ombre-luci – ne sono affascinata. Taluni ne stanno accentuando i caratteri asciutti e anche colti: riguardano la città che lavora e prospera, che è viva e pulsante, anche se il lavoro è cambiato è rimasto però cosa vera … Ma duecentomila persone arrivate a miscelarsi con i ‘nativi’ hanno portato i loro colori, i loro odori, i loro modi – sudamericani, filippini, nordafricani, asiatici, e in questo quartiere thay, cinesi, coreani, con i loro negozi, gli affari, la lingua ermetica -.
Il turismo è una novità, un turismo ricco di gente che compra, e quello che non compra lo fotografa, di donne asiatiche elegantissime che invece di camminare veleggiano, è una sorpresa, ma non è quel turismo da città d’arte, come si usa dire: questa è gente che viene a respirare una cert’aria di contemporaneità.
Tutt’intorno, ben fuori dalle circonvallazioni esterne, una folla di vecchi – coraggiosi, esitanti, ben messi, malmessi – con vecchine che hanno paura a uscir di casa perché il vicino le ha minacciate, tante donne velate, tanti uomini che ciondolano agli angoli delle strade con le mani in tasca, tanti banchetti di merci inutili. (Tante sale giochi: il vero scandalo del nostro paese e un solo giornale – l’Avvenire – che se ne occupa seriamente).
Dentro la pancia della città, però, tutti vengono sfamati: le istituzioni della tradizione del “coeur in man” si sono irrobustite, altre se ne sono aggiunte, è diventato un sistema, ben gestito, in cui operano migliaia di volontari veri – gente non pagata che serve e assiste, organizza e serve, aiuta e serve: pensionati, professionisti, casalinghe, c’è un po’ di tutti, con grande fatica e impeccabile senso del dovere – nessuno muore di fame, tutti hanno la possibilità di lavarsi e di cambiare biancheria.
Ho l’impressione che se scavassi appena un po’ mi troverei a disagio, come quando mi tocca ascoltare la donna pallida nerovestita che si trascina nella carrozza del metro cantilenando con voce stridula peer favooore, per mangiaare, datemi qualcosa.
Salgo sul tram e incrocio lo sguardo di uno che abita ancora dalle mie parti: non faccio niente per sembrare quella che sono stata e so di non sembrarlo, ma forse qualcosa glielo ha ricordato; una donna mi tossisce ripetutamente in faccia, come se cercasse di passarmi la sua tosse. Mentre penso a come vendicarmi, lei scende e sparisce. Ma sì, è salito un controllore …