Per capire come (non) funziona l’informazione in Italia, basta osservare come viene trattata la notizia dei numeri che Morgan Stanley ha dato a proposito di produzione e consumo del vino nel mondo (globalizzato) e le prospettive che ne ha tratto. Che ne ha tratto per lo meno il Corriere della Sera, con il suggestivo articolo di Luciano Ferraro, nel cui titolo appare subito la magica locuzione “bene di lusso” …
Sempre di più, sfogliando e leggendo la stampa del nostro paese si capisce come essa sia lo specchio del nostro decadimento; ci si accorge che abbiamo tracciato una serie di sentieri molto interessanti; abbiamo vantato le nostre peculiarità nazionali – creatività, manualità, buon gusto, istinto per il bello, ingegno e tutti i talenti che sono corollario, aura e cuore del made in Italy – e mentre le vantavamo mettevamo all’incanto la nostra passione, svenduta, in cambio di un’abbuffata di lenticchie (dove questo nobile legume rappresenta la metafora del soldo), nella scia dei capitani di sventura che hanno razziato il paese, scarnificandolo di tutto ciò che era nato dall’ingegno italiano e poi consolidato dal lavoro di milioni di ex contadini inurbati e divenuti operai e tecnici di talento, artigiani e artisti che hanno lavorato sodo – per decenni – che hanno investito nel proprio lavoro creando piccole imprese, benessere per sé e ricchezza smisurata per alcuni cosiddetti imprenditori guastati poi dalla finanza, corrotti dalla politica, assaliti dai manager privati e di stato, completamente fusi nei rapporti incestuosi con partiti e cordate, alla rincorsa dei soldi – per sé – completamente dimentichi dell’interesse del paese …
Perché l’articolo sul vino (che manca) mi dà questo senso di frustrazione? Erano mesi, forse anni, che Angelo Gaja (con acribia andava sottolineando tutti i punti della questione e scrivendone, nelle occasioni perfette), parlava della produzione insufficiente. E mi aspettavo che, andando oltre la constatazione che mancando il vino i prezzi sarebbero saliti, dopo il lancio di Morgan Stanley, il Corriere guardasse un po’ più in là del mero fatto economico.
Per esempio: che cosa significa questo, per il nostro paese?, quali prospettive, quali orientamenti ci pongono questi dati? E rispetto alla situazione mondiale, i nostri vini che spazio avranno e presso quali pubblici, in quali paesi? Che cosa si può ipotizzare – oltre alle solite formule “fare squadra”, “promuovere sinergie”, eccetera, per affrontare al meglio questo imminente futuro? I nuovi paesi produttori – sia dal versante scientifico-tecnico, che per gli aspetti culturali – che prospettive avranno sul mercato mondiale? Saranno negli stessi nostri segmenti, oppure parleranno di (produrranno) ‘altri’ vini, con altri posizionamenti, altri approcci.
Mi sono posta queste domande e poi ho girato pagina ed ecco che ‘inciampo’ in un altro titolo: ” Famiglia, cibo, musica… siamo così affini all’Italia …”. E’ un coreano dal volto intenso che parla, dalle pagine della cultura. Il mondo gira: abbiamo insegnato a dare valore alla propria storia, ai propri luoghi, tramite i prodotti nati per parlarne (altro non è il made in Italy!!) e mentre ci siamo persi di vista, gli altri hanno imparato a mettere a frutto il proprio talento (e la propria cultura), con la passione che noi abbiamo perso, che si è smarrita per strada; siamo diventati quelli che per comunicare che fanno qualcosa, lo dicono (e basta). Siamo ormai solo parole al vento. Manca il vino e non ci occupiamo della struttura di questa mancanza, ma osserviamo che esso diventa un bene di lusso; quindi qualche altro “politico” diventerà vignaiolo …