Al primo momento non l’ho riconosciuta; mi sono sentita costretta a essere lì e non ricordo come sono stata invitata. Sono rimasta seduta di fronte a lei per qualche secondo, in silenzio, guardandola. Mi pareva che stessimo per iniziare a pranzare insieme. La scrutavo con attenzione, osservando la pettinatura, l’abito e l’aria preoccupata – anzi non proprio preoccupata, forse più determinata, con lo sguardo duro – . Gli anni passano e quando ti ritrovi di fronte a una persona che non hai visto da più di vent’anni è inevitabile cercare i lineamenti e le espressioni con cui l’hai ricordata per tutto il tempo in cui l’avevi persa di vista.
Con lei ci ho messo un po’ a riconoscerla: infine ho ritrovato i tratti, che un tempo mi erano familiari, ma non c’è traccia alcuna dell’espressione di un tempo. Una volta P. era bellissima, non appariscente, alta e con un corpo snello ma forte, forse ereditato dalla madre che era bracciante agricola: un’alchimia di caratteri ben mescolati, come succede per certe creature in apparenza eteree, che poi ritrovi a sfilare in passerella; giovani donne con l’aria assorta come se stessero covando un sogno impossibile. Lei invece ha sempre avuto un’espressione di scontentezza che le lasciava una ruga tra le sopracciglia, ma senza incidere nell’armonia dei lineamenti, nella sua bellezza notevole.
Non ho capito perché abbia voluto vedermi e soprattutto perché abbia scelto di confessare di aver ucciso; anzi, non credo che confessare sia l’espressione giusta, credo che abbia voluto coinvolgermi o implicarmi. Inoltre non ha usato proprio un’espressione chiara, per dirmelo. Ho pensato che sia successo per soldi, anche se non mi era mai sembrato che ne avesse bisogno, ma non so quando l’omicidio è stato commesso, e nemmeno chi è stato ucciso e come è avvenuto … Forse ha ucciso il marito?
Mi sono resa conto che non volevo sapere niente di niente e che il disagio iniziale si stava trasformando in paura, mentre proprio davanti a me lei si era messa a scavare e tutto a un tratto sembra che voglia tirar giù un intero pezzo di muro. La parete è ricoperta di piccole piastrelle come quelle di Bisazza, ma un po’ più grandi: lei ha incominciato a tirarne via due, facendo leva con un attrezzo che mi sembra troppo piccolo per un lavoro così impegnativo. Riportare alla luce un corpo non è una cosa da niente, e poi che farne? Ho provato a protestare, non so se riuscirò ad andarmene, se lei me lo permetterà.
La mia vita improvvisamente è stata sconvolta da questo incontro; mi sento travolta dalla situazione in cui sono scivolata quasi per caso, per distrazione, per incuria o per una mia negligenza …
Mi salva una spada che preme nella schiena: un dolore acuto, breve e profondo, ma sopportabile. Controllo se riesco a respirare e mi accorgo che va bene. Tutto a posto.
Sono stata nella vigna delle mie figlie, prima che iniziasse la vendemmia “vera”, quella più impegnativa da punto di vista delle attese e della suspense. Passano e ripassano, diradano, ‘buttano giù’ come dicono i vignaioli e a me continua a sembrare eccessivo. E’ un processo lungo, punteggiato dal tempo che fa, dalle variazioni della temperatura e dell’umidità.
Sono andata a vedere l’uva che sarebbe stata protagonista della vendemmia più impegnativa e ne ho approfittato per cercare un po’ di rucola al naturale per corroborare la mia insalata. Ma non l’ho vista: sono così abituata a quella che trovi dall’ortolano, in mazzetti, che non riuscivo a distinguerla. Anche perché la visione della terra, intesa come ‘ground’ elaborato, fatto di micro presenze, sassolini, stecchi, insetti, i minerali che danno colori diversi alla sostanza che chiamiamo terra e che è in realtà una miscellanea organica e inorganica, piena di vita, e di vite che interagiscono tra di loro, è così emozionante. Ti passa un film sotto gli occhi, se ti metti a guardare. E ogni erba ha una sua forma (e una sua personalità!). La rucola assume forme diverse e mia figlia me la indica, aiutandomi a coglierla. Io scelgo con cautela – con le erbe non si scherza! – e mi aiuta l’odore forte (fortissimo) di questa insalata.
A Milano abbiamo incominciato a mangiare rucola negli anni sessanta, in due o tre ristoranti toscani; l’uso di quest’erba è poi dilagato rapidamente; c’è stato un periodo in cui non c’era piatto senza rucola. Abbiamo iniziato con il “carpaccio” (allora solo di carne) e poi l’abbiamo anche messa nelle insalate, abbiamo guarnito gli arrosti, il pesce, (la pasta e i ripieni) e via a tutta rucola, per finire sulla pizza, dove mantiene ancora oggi un ruolo costante. Ma questa rucola di campo raccolta nella vigna mi rimanda a quelle che forse sono state le sue possibili qualità ‘primitive’ (chissà). Un’erba che fa sognare sogni un po’ stralunati, che porta a galla sentimenti e dolori, riflessioni e pensieri e storie di cui non ci si ricordava nemmeno più. Ai tempi dei tempi questa rucola avrebbe avuto un ruolo ‘psichedelico’, e una poetica conseguente, altro che “carpaccio”! Questa rucola muove i sogni più che condire la pizza.