I Libri, dove succede di tutto

Ne farei volentieri una canzone – invece di “the man I love” “the books I love” – perché si tratta dell’amore più duraturo, benefico, quasi materno nel senso che è un amore che ti nutre, ma che può anche consolarti dalle spine della vita; qualcosa che ti resta dentro e che nessuno ti potrà mai togliere, nemmeno tutti i Goliath in cui s’inciampa cammin facendo.

Non ho smesso di amare la lettura nemmeno andando a lavorare in casa editrice e finendo quindi per conoscere molti autori (e chi ha lavorato con loro sa quanto siano insopportabili). Anzi, con alcuni si è stabilito pure un rapporto (quasi) d’amicizia, da parte mia per un senso di gratitudine – vedi sopra i benefici di una buona lettura -, da parte loro per pura venalità – il mio lavoro e quello di chi lavorava con me significava più copie vendute, più recensioni, più pubblicità -.

In campagna, non si può vivere senza un buon libro sottomano; cioè si può sopravvivere, soprattutto lavorando, ma si perde quel misterioso cortocircuito che avviene tra la vicinanza agli aspetti ‘primitivi’ (la terra e gli alberi) e la parola scritta che porta a galla le emozioni e allo stesso tempo ti aiuta a capirle. Chi non ha provato perde un pezzo di vita, anche se beve vini sublimi e mangia a quattro palmenti (per tacer dei rimanenti spassi).

Sbaglia di grosso chi magari pensa che siano pensieri di una vecchia snob; col mio snobismo la goduria della lettura c’entra ben poco. Ho cominciato presto ad amare le parole scritte sulle pagine di “12 fiabe di 12 maghi”, un libro che mi è stato regalato da mia madre a sei anni e che rileggo tutt’ora sempre con piacere e ogni volta trovando aspetti e senso inediti. In un libro può succedere quasi di specchiarsi e di trovare la spiegazione a scelte, tic e modi di sentire che proviamo ma di cui non capiamo il perché. Capita di riconoscere situazioni, scoprire analogie e di riconoscersi, senza sconti, ma anche con notevoli vantaggi nei confronti della vita senza libri. Una vita piatta, alla ricerca di pienezza.

Penso che l’Italia sia abitata da un popolo un po’ bue (ma con sentimenti assolutamente amichevoli nei confronti dei buoi), perché troppi non provano a leggere o non provano nel leggere quel piacere rotondo che ti riempie la vita. Anche bere un buon bicchiere di vino da lettori di libri è ben diverso che bere lo stesso bicchiere da ignari della parola scritta.

Penso che non si possa fare un vino straordinario senza leggere libri meravigliosi; ti allenano a capire le emozioni della vita e i misteriosi piaceri della campagna!

Taping

Così si chiama e vuole dire che c’è qualche speranza. Speranza di non rimanere in ginocchio, non nel senso di “in ginocchio da te”, come nella canzone che mi pare di ricordare; bensì ‘senza’ ginocchia, cioè senza un pezzo di sé la cui deprivazione toglie la gioia di camminare.

Da decenni ormai, per alleggerire un handicap che mi affligge, mi costringo a citare “tre uomini in barca” (ho ancora un’edizione bigia della BUR) e ogni volta non posso evitare di associare il nome dell’editore – Rizzoli – a quello identico di un rinomato ospedale dove si va in pellegrinaggio per problemi ortopedici. La citazione del ginocchio della lavandaia, da parte di uno dei tre uomini, quale malattia lamentata da un altro dei tre notoriamente ipocondriaco, mi ha messo di buonumore (è divertente riconoscere la propria ipocondria in un libro molto amato dai tempi dell’adolescenza), finché non è diventata elemento di alleggerimento per una pena assillante.

Tuttavia, con il passare degli anni, ho scoperto di essere in compagnia numerosa – con gente anche giovanissima afflitta da rotture, distorsioni, distrazioni, …, alle ginocchia – e  in questo caso “mal comune” non è affatto “mezzo gaudio”. Ma come spesso accade a tutti i miei compagni di sventura, più sento male più provo voglia di camminare, di saltellare, di usare queste malandate articolazioni per farmi portare a esplorare i luoghi interessanti che sono tali, o lo sono molto di più, solo se visti a piedi, in piedi, in avvicinamento lento, o camminandoci in mezzo.

Perché se ci arrivi lentamente hai modo di lasciare che le immagini ti lavorino dentro, di osservare come la luce batte su un ramo e gli dà un ruolo diverso nel contesto in cui lo stai guardando, o di lasciarti pervadere dalla vastità di una montagna che incombe e lasciare che rotoli su di te, in una sorta di mite sopraffazione. Come accade anche nell’assaggiare un vino o un frutto, per arrivare al cuore del sapore, cioè al senso del suo essere, vedere le cose nelle diverse luci non è così immediato; e le ginocchia sono importanti, perché ti portano proprio lì.

Sto scoprendo un sacco di cose sulle ginocchia (anche sul vino, se posso divagare un attimo) e sulla loro importanza. Naturalmente ho la mia guida fisioterapica e anche lì (le scoperte non finiscono mai) ho capito che la scoperta è reciproca, che riattivare le mie articolazioni non lascia indifferente la mia fisioterapista – una sorta di transfert che passa dalla manipolazione delle mie ginocchia, da cui acquisiamo conoscenza, entrambe.

Così ieri, nel percorso (l’ennesimo) verso la remissione da un piccolo trauma, mi è stato applicato un ‘taping’, una gabbia di nastri che inviano messaggi stimolanti al mio sistema neuromuscolare; il messaggio deve essere particolarmente penetrante perché riesce a modificarmi l’umore e la vista. E a farmi camminare spedita.DSCN7013