Sublimare il porco

Ovvero chi siamo, dove viviamo, che cosa mangiamo

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Ricordo che una ventina di anni fa, in tempo di vacanza, passavo spesso a piedi per la strada che da Sant’Angelo in Colle conduce a Castelnuovo dell’Abate, cioè all’Abbazia di Sant’Antimo; a qualche chilometro da Sant’Angelo, mi capitava di incontrare una grossa scrofa che pascolava nell’oliveta sottostante la strada bianca, da cui ne ammiravo le evoluzioni. Si chiamava Tina – me l’avevano detto gli abitanti del podere – e al richiamo, quando era lontana, arrivava al galoppo, facendo tremare la terra. Avevo preso l’abitudine di portarle una mela o un pezzo di pane raffermo e Tina rispondeva all’appello con tale entusiasmo che pensavo mi riconoscesse.

Un giorno, passo di lì e mi metto a strillare per chiamarla, ma Tina non risponde e io – da vera milanese che guardava la campagna con affumicati occhiali cittadini – busso al podere e chiedo ragguagli.

Tina non c’è più, mi rassicurano, “l’è salami”; io resisto al groppo di pianto, penso che comunque non sono vegetariana, ma non tralascio un apprezzamento un po’ sciocco: “oh ma era così buona!”.

Quello del podere, non so se ironico o sarcastico, mi rassicura dicendomi che Tina è sempre buona: “anche ora”.

Mi torna in mente questo episodio, leggendo la recensione a un libro dell’antropologo Marino Niola, che ‘fotografa’ il nostro approccio al cibo, analizzando il profondo cambiamento dei consumi; saltano agli occhi le nuove sensibilità, che aggregando le persone in veri e propri gruppi, in questi anni sono diventate sempre più visibili, fino a configurare nuovi mercati e nuovi interessi.

Vent’anni fa leggevamo le mappe dei consumi, per capire – attraverso i cluster psicografici – com’era il profilo ideale di un potenziale lettore di libri; oggi, quegli stili di vita che parevano numericamente flebili si sono consolidati e spesso radicalizzati, dando vita a un universo alimentare variamente segmentato, con l’irruzione sulla nostra tavola di istanze ambientaliste, salutiste, etniche, religiose, animaliste, spirituali, paesaggistiche; e forse ho dimenticato qualcosa …

Ai tempi della pubblicità – quella vera, scientifica, che deve servire a vendere e non altro – è nozione acquisita che non puoi pensare di fare una campagna per vendere un prodotto, se non ci sono i presupposti per affermarlo; sembra una banalità, ma non siamo arrivati a tenere in rispettosa – se non reverente – considerazione i vegani, oltre agli ormai scontati vegetariani, per inerzia; né la “massaia” (che nel frattempo è diventata sempre più unisex e spesso gay – Barilla insegna –) pretende il “bio” solo per sentito dire o perché sempre più spesso l’aggettivo ‘biologico’ qualifica un cibo più sicuro (o più benefico, o meno inquinante, o più salutare).

Il cibo è diventato conversazione, è affermazione – non tanto di un’identità nazionale o regionale –, è divenuto (non solo diventato) un presidio culturale, nel senso più profondo dell’aggettivo. Io mangio così, perché così io penso, così io sono.

Penso quindi mi nutro; e i pensieri, spesso inespressi, latenti, magari vaghi, vanno e provengono da molteplici direzioni: la crisi ci ha abituati tutti a una maggiore attenzione (anche quelli che non hanno troppo sofferto in questi anni), una specie di pauperismo è diventato quasi un modo nuovo di consumare (meno, ma meglio); sempre la crisi ha accelerato un processo di maggior attenzione agli sprechi, anche ambientali; la crisi, ancora, ci obbliga a volgere lo sguardo alla ricerca di risorse che possano diventare lavoro, nuovo lavoro.

Queste considerazioni sfiorano appena la complessità di un cambiamento di sguardo generalizzato – quindi anche a proposito del cibo – di cui è urgente tenere conto, perché al capolinea delle scelte diverse che diventano di massa, ci sono posti di lavoro, tipi di attività, situazioni economiche – che cambiano, che crescono, che cessano di essere redditizie –.

Chi scrive è tutt’ora onnivora – ma in modo residuale e con notevoli contraddizioni – difatti mi rendo conto di evitare la carne e pure il pesce, ma mi capita ancora, ma raramente, di mangiarne. Vivo in Toscana e in campagna, cioè in un contesto più carnivoro di quello da cui provengo; molti anni fa, arrivando dal nord non mi pareva vero papparmi una fetta di arista, tagliata spessa, colante olio profumato, tenera e invitante e appagante; e mai l’avrei chiamata Tina, me la sarei sbafata e basta.

Ora, il mio avvocato – cacciatore di lungo corso – mi ha confidato, senza sentirsi un traditore della patria tosco-senese, le delizie di un nuovo ristorantino vegetariano, apprezzando e descrivendomi la raffinatezza dei piatti e permanendo (per ora) carnivoro.

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Senza sondaggi, ma tastando i gusti della gente e le nuove abitudini, segno dei tempi mutati è l’apertura a Montalcino di un negozio la cui insegna dice ‘bio’; ora, in questa terra di cacciatori, di salsicce, di carne che accompagna mitici vini, di gente ligia a una tradizione in completa controtendenza rispetto alle considerazioni che ho esposto qui sopra, accanto ai cibi della tradizione – il miele, il farro, le lenticchie, i ceci, i caci, l’olio extravergine e naturalmente i vini (rigorosamente bio o addirittura biodinamici) – ecco il futuro cosmopolita e nostrano che avanza, sotto forma di quinoa, soia, pasta integrale e panetti di tofu.

E se il vino resta il protagonista, la zizzania è un legume o un cereale alternativo al riso, e il latte di riso è apprezzatissimo dai neo-lattofobi, una casta tutt’altro che esigua, che mette a rischio i meravigliosi formaggi della zona, anche quelli bio.

Ogni tanto io penso al prosciutto, qualche volta ne mangio; ma so bene che perfino chi alleva animali non sfugge a una nuova forma di sensibilità verso la loro vita; è un sentimento che si sta diffondendo e che non necessariamente si traduce in astinenza; spesso prende la forma di una richiesta: un mondo meno ‘bestiale’, anche per gli animali.

Il cibo è davvero diventato conversazione e Expo – se la politica non è abitata da stupidi, come ogni tanto lascia intuire – potrebbe figliare una vera attenzione al riguardo, con molte implicazioni positive.

Possiamo, potremmo, nutrire un pezzo di mondo, spaziando dal porco al farro, ma saziando soprattutto la fame più sublime di quelli che non si accontentano di riempire solo la pancia, e mettendo a frutto vecchie nuove vocazioni, possiamo trovare strade nuove, nel cibo, nell’ambiente e nell’arte, per far avanzare la nostra civiltà.