Chiamiamolo pure blog; tuttavia questo ‘spazio’ è più pieno di cose non pubblicate che di ‘cose postate’. Perché una delle deformazioni del mio modo di pensare mi viene dagli anni frizzanti della pubblicità; è qualcosa che potrebbe essere sintetizzato con l’espressione “mettersi nei panni degli altri”. Perché lavorando in pubblicità ti trovi a ragionare secondo obiettivi che non sono i tuoi personali (ammesso che uno viva così lucidamente – o stupidamente, o intelligentemente – dandosi degli obiettivi, e magari anche dei sub obiettivi, come si dice che facciano quelli dei club dei super potenti che di fatto governano il mondo).
Se fai la pubblicità gli obiettivi sono quelli del tuo cliente, che ti paga per raggiungerli, ma per farlo devi mettere in atto azioni che tengono conto dei gusti, dei tormenti, delle ansie e soprattutto delle aspettative di quelli a cui ti rivolgi per far raggiungere al tuo cliente gli obiettivi di cui sopra. Quelli a cui parli sono il tuo “pubblico” e di solito, chi fa la pubblicità quelli lì li conosce bene, perché ha letto, consultato e imparato, delle ricerche che raccontano i pensieri, le ansie, le paure e le aspettative di quei raggruppamenti di persone indispensabili a raggiungere gli obiettivi del cliente.
Questo modo di procedere (conoscere per agire di conseguenza), di muovere le cose per ottenere degli obiettivi, più o meno consapevolmente nella vita è usato da tutti. Negli animali lo chiamiamo istinto, negli affari si chiama fiuto, talvolta ci può portare a comportamenti spietati – sovente lo vedo fare in politica e nel cosiddetto mondo degli affari -; ogni tanto diventa una storia, o un bel film; qualche altra volta diventa uno spot pubblicitario, come quello del Buondì Motta, di cui discutono in molti in questi giorni su Facebook, scrivendo di tutto, e soprattutto razionalizzando un messaggio che non deve essere razionalizzato, perché il punteruolo di quella “storia” deve andare a colpire un obiettivo che (magari) non è quello di chi la guarda. Per lo meno non è quello di tutti quelli che guardano la pubblicità alla tv : è l’obiettivo del cliente e solo quello importa che sia raggiunto. Perché magari mentre la mamma “muore”, il Buondì Motta resuscita. E la presenza, e l’assenza, delle virgolette non è casuale.
Io però penso che i pochi che leggono (e chissà perché lo fanno) questo blog minimalista … pensino. Ne sono quasi certa e quando mi viene da scrivere qualcosa – indotta dal mezzo che ti permette di essere letta, ma che nel farlo ti espone al rischio di passare per stupida – mi metto nei loro panni e perciò, il più delle volte, parcheggio quello che ho scritto (magari interrompendomi) nelle bozze, perché riesco a immaginare l’effetto che gli può fare … oppure perché mi accorgo che sto rivelando un mio pensiero che non mi va di condividere.
Tutto questo mi veniva in mente risvegliandomi in questo incredibile mattino, freddo e terso (e ancora buio), mentre nella testa mi risuonava un coro, proveniente da un sogno, un coro di voci bambine che recitavano perentorie: dire fare baciare lettera testamento. Quel gioco infantile che quando ero bambina mi poneva il mistero di quello che (mi) sarebbe successo, a seconda di quello che avrei scelto, dovendo scegliere a occhi chiusi. Dire che cosa, fare cosa, baciare chi, che lettera (e quanto lunga) scrivere, e la misteriosa voce ‘testamento’ che nel gioco ha un significato e corrisponde ad azioni, che cambiano di volta in volta e un po’ arbitrariamente. Dire, fare, baciare, lettera, testamento. Che pena scegliere?