Montalcino e un sabato di sorprese

Intanto, la nebbia:  … non è una novità – penserà qualcuno – e non lo sarebbe, se non accadesse in una serata (ormai i giorni si raggrumano in sere) con più appuntamenti. E la seconda sorpresa la trovo nel titolo, quello di un libro che è una specie di scatola cinese (ilcinese?!) in cui scovi fili e fila che si svolgono pian piano raccontando storie.
Succede così che forando la nebbia densa, odorosa di fumi di legna e di essenze aromatiche, arrivo fino al ventre del municipio, in tempo per assistere alla presentazione di quel libro.
“Ma che sorpresa è!”, obietteranno alcuni; non c’è ora, minuto, in cui non si presenti un libro. Da quando si è saputo che paesaggio, cultura, libri, arte sono chic e sarebbero anche l’ancora di salvezza del paese, tutti ci danno dentro … e che sarà mai un libro?
Ma qui sta la sorpresa, appunto nel titolo – “Montalcino di sorpresa” – e la successiva sorprendente sorpresa (ancora!) è che il contenuto è poetico, lieve, accattivante e attraente. In altre parole: ci ho trovato dentro la bellezza dei luoghi, che non è affatto oleografica – al contrario è piuttosto scabra e pungente -, l’ironia dell’autore, i sarcasmi degli abitanti, la parola che i luoghi ti rivolgono se li sai ascoltare.
E’ con il librino di Alessandro Schwed sottobraccio per ripararlo dall’umido che mi sono rituffata nella nebbia per avventurarmi su una strada sterrata che frequento poco e conosco ancora meno.
Con il finestrino a tratti aperto, per orientarmi meglio, bioccoli di nebbia che si impigliavano nei filari di viti che costeggiavano la discesa balzellante – difficile vedere le indicazioni, ma appassionante il percorso, soprattutto se l’auto non decide di abbandonare la partita sul più bello – giungo al podere ormai saldamente in mano milanese, per ritrovarmi a cena con gli affabili padroni di casa. La nebbia dunque ha un suo perché, se vai a cena come fossi a Milano …
“Trippa!”, annuncia giubilante la padrona di casa. “Troppo!”, penso con un po’ di rammarico, già rimpiangendone l’abilità non comune in cucina.
Dovevo aspettarmelo: autunno, nebbia, quasi come a Milano; la trippa è un must proprio come il Cartier della pubblicità d’antan.
Ma, sorpresa nell’ultima kokeshi della serata, c’è anche il pollo fritto. Che bontà! (e questa non è una sorpresa). Come quando fuori piove, a Milano. Ma qui siamo a Montalcino e il padrone di casa mi fa assaggiare un Rosso così profumato che penso “sì, Montalcino ti porta di sorpresa in sorpresa …”. E chissà che anch’io non ne sforni una!

La Danza immobile della Finanza

I ricchi, quelli veri, possono essere molto simpatici – soprattutto quando lo sono in misura tale da far parte di un mondo totalmente alieno, in cui tutto avviene diversamente e molto facilmente -, invece il giornalismo prono nei loro confronti è molto meno attraente. Questo mi è venuto in mente, l’altro ieri, leggendo il Corrierone e rammaricandomi sentitamente per un articolo che sta al vino come i racconti di certi ‘reportage’ di guerra scritti in albergo stanno al sangue che si versa nelle battaglie dove si muore.

Così, dopo aver incontrato per la prima volta Piero Palmucci, nell’ormai lontano 1995 (esattamente sabato 24 giugno 1995), agli inizi del suo faticoso e appassionato (e appassionante) lavoro, e dopo averlo reincontrato e frequentato negli anni, fino a diventarne in un certo senso amica, sono rimasta esterrefatta nel “ritrovarlo” (insieme all’uomo che con il suo “senso del Sangiovese”- Giulio Gambelli – l’aveva indirizzato e sostenuto e fatto crescere) raccontato implicitamente come uno che dato “il microclima, il terreno, la posizione, …” ben indovinati, si era ‘ritrovato’ a produrre un vino formidabile…

E’ proprio questo giornalismo che riduce il vino famoso a una perla rara che uno molto facoltoso che fa tutt’altro può semplicemente comprare, perché con i soldi si può fare. E aggiungo per chiarezza: va benissimo che un ricco alieno acquisti questi beni: spesso poi le cose procedono come si deve, perché spesso i ricchi sono anche molto ambiziosi e perfezionisti. Tuttavia il vino non è – da quello che osservo, conosco e so, da qualche decennio – solo una sala d’attesa. E’ lavoro – tanto lavoro – è gente capace che scruta la terra e la capisce, è rischio (quando una grandinata, una stagione storta, un incidente di percorso mettono a repentaglio un’annata), è soprattutto talento e passione; ed è un peccato che chi si mette a raccontare Re Brunello (e non il Re dei vini, perché esistono anche altri reami), si incarti davanti a una montagna di soldi – fino a darne conto al lettore (parliamo di vino?) – anziché davanti alla complessa storia di Piero Palmucci, alle sue visioni e alle sue fatiche e al racconto della scontrosa passione di quell’uomo (Gambelli escluso in quanto c’entra solo con il suo personalissimo rapporto col fare vino di Piero).

E, naturalmente non c’è (ancora nei suoi vini) solo il Palmucci, ma penso ai tanti piccoli viticoltori, alle grandi famiglie che nel vino ci stanno da sempre, e penso anche ai grandi proprietari che sono mille miglia distanti dai primi, ma che della poetica del vino fanno altrettanto parte. E’ la conoscenza di questo variegato mondo che può migliorare la tipologia dei consumi del vino, e nel contempo, la comprensione di quel “lavoro”(!) e del nostro tessuto paesaggistico e perciò produttivo. Non il capitalismo che quel mondo se lo incastona nella corbeille dei successi mondani: e, ribadisco, senza alcuna pre-riserva nei confronti di quel capitalismo (quando ha fatto i soldi facendo). Il vino è importante per il nostro paese; la ricaduta mondana è una spolverata di belletto su un mondo vero, complesso, profondo quanto la terra.

E’ questo giornalismo di avant’ieri, così lontano dal lavoro e così incantato davanti alla ricchezza, che allontana la gente dal (vero) mondo del vino, un mondo importante che, in questo scorcio temporale così strano, con guerre sull’uscio di casa e con la finanza che governa gli umani e tra un po’ ci dirà anche a che ora si fa la pipi, ancora esiste, costituisce un principio di realtà, ed è – posso assicurare: io che di ricchi buoni e cattivi, banali e coltissimi, ne ho conosciuti un bel po’ e da molto vicino – più affascinante del denaro, addirittura irripetibile. Tant’è che chi il denaro ce l’ha, ne spende un po’ per comprarselo. Il mondo del vino è un mondo infinitamente più attraente e dinamico e battagliero e reale della sala d’attesa dorata descritta sul Corsera: si vende la terra, si vendono i muri, si acquistano vigneti e annate, si acquistano persino uomini di talento, ma non si compra la passione, né la fatica di fare, né la poetica del vino. Che sono un po’ le forche sotto cui passano tutti gli uomini (e ovviamente, le tantissime donne!) del mondo del vino, anche quelli che non vanno in prima persona a zappare la vigna. Ma questo la proprietà del Corriere della Sera non lo sa, intenta a seguire la danza immobile della finanza. lavoro finito