Bolla di luce

Mentre disegno, dalle brevi linee che traccio a penna sulla carta escono frammenti di pensieri e ricordi spezzettati e tutti mescolati. Vivono un attimo, il tempo di depositarli sul foglio, srotolandoli dalla treccia fitta della memoria. Non si intralciano, si sommano e si intrecciano confondendosi e fondendosi gli uni negli altri. E’ la pasta sfoglia della mia vita che prende corpo: ah se riuscissi a disegnare tutte le linee che mi svaporano dalla mente e diventano colori e sapori che mi rimandano a mattinate grigie milanesi, con pause bianche: le tazze delle ceramiche Laveno, con quel disegno identico a quello di porcellane della stessa epoca ma di un altro marchio, e la trama del fondo rigato come un piquet.

Lì, dopo avere bevuto il tè della prima colazione si leggeva la giornata, i destini dell’interrogazione di latino, i voti, le piccole avventure di scolara reduce da impensabili trasgressioni – firme false, giustificazioni idem, e pure le pagelle – disperazione delle suore a cui invidiavo le divise elegantissime (che avrei ritrovato nei tailleur maschili di Yves Saint Laurent).

Mia madre scansava le briciole e rovesciava la tazza sul piattino, lasciava che le foglioline del tè si spostassero trovando una posizione definitiva, aiutate dalle ultime gocce di liquido rimaste sul fondo della tazza. Ritornando dal bagno, dove mi ero lavata i denti, mia madre, in vestaglia, ma ben pettinata, lucida e sveglia, leggeva il breve futuro della mattinata scolastica, aggiungendo ricordi personali, tradizioni tramandate da sua madre, gli usi della famiglia Emery – dove era stata au pair, per imparare l’inglese – e consigli che sembravano un po’ delle consulenze.

Basta un tratto della penna sul foglio per riattaccare l’intero rito, recuperando i cocci del ricordo, divenuti preziosi, suturarli con un kintsugi giapponese in cui la luce prende il posto dell’argento e tutto si ricompone e nella bolla di luce il ricordo vibra e diventa oggi; capisci che ci si può perdere e si può dimenticare, o ricordare, o entrambe le cose insieme. Si può trasferire la stessa emozione guardando una foglia screpolata d’autunno. Oppure si può tornare a sentire la piccola voce di una bimba. Non sai se sei tu, tua madre o una piccola nipote che raccatta il ricordo e lo rimette insieme. In una bolla di luce ci si lascia svanire.

Un giglio come metafora

DSCN6741Erano raffigurati su tutte le ‘immaginette’ della prima comunione. Appaiono pure nell’iconografia di San Luigi. Per tutta l’infanzia li ho detestati, per il profumo ridondante e per l’abbinamento a un concetto di purezza che puzzava di monaca; e io le monache le avevo subite, alle elementari e persino in prima media. Da un istituto religioso mi ero fatta espellere, dopo aver commesso una serie di nefandezze da bambinona silenziosa e testarda. Sempre in un’aura di profumo intenso, abbinato in modo, per me, quasi indissolubile all’immagine dei gigli.

Li ho amati invece dopo averli ammirati tutt’intorno alla Costaccia – piccolo affascinante podere dei vicini – e Lola, la mia vicina di podere me li aveva piantati a Fonterenza, per proteggere gli iris dalle ‘spinose’-. Lola portava un copricapo a cono per proteggersi dal sole e tornava dalla fonte, camminando silenziosa e dritta come un fuso, magra, con un portamento da contadina viet, infinitamente più elegante di certi signorotti banali. (La incontro ancora, Lola, a qualche anno dalla sua morte – avvenuta a novant’anni, sorbendo un cucchiaio di minestra poi reclinando il capo – quando svolto una certa curva, prima della fonte; e c’è sempre un ramoscello che si agita o una foglia che ha un fremito, per dirmi che lei è lì e pensa al tempo che farà).

I gigli dunque, e Lola Fagnani, con la sua voce acuta e sonora e il dono della terra: i suoi orti, le sue piante, i suoi fiori, e l’estetica della fertilità. Ora, stamane in particolare – dopo l’ennesima (milionesima?) cronaca di malversazioni, corruzione, ruberie in tailleur, cravatte firmate e autoblù, i gigli che perseverano a crescere, nell’incolto, tra i lavori che scaravoltano la campagna, talvolta deturpandone la bellezza, ritornano per segnalare con il profumo prepotente e il loro candore imperterrito, la necessità di recuperare la purezza, senza mezze misure. Non quella un po’ pelosa e sudaticcia a cui mi rimandavano le prediche delle monache noiose – di cui ho un pessimo ricordo – ma quella di una coscienza vitale e vivace, vogliosa di futuro, di pulizia e di energia intelligente. Gigli, insomma, da rivoluzione!