Ciò che resta del Maiale

DC_25016556

Le lenticchie sono una delle mie manie; ogni volta che le mangio – cioè molto spesso – provo un’inaudita sensazione di benessere, un sentimento che parrebbe avvalorare il loro carattere simbolico. Infatti le lenticchie hanno una reputazione benaugurante in quanto porterebbero denaro, o addirittura benessere – cioè qualcosa che va ben al di là del valsente -.

A MIlano, le lenticchie sono un classico di Capodanno: te le offrono con lo zampone o con il cotechino; ma nonostante io sia consapevole delle ottime intenzioni dell’anfitrione, ogni volta che mi sono trovata di fronte alle lenticchie di Capodanno, accompagnate da  “ciò che resta del maiale”, penso con una fitta di nostalgia al mio cucchiaio – quasi quotidiano – di lenticchie bollite che accompagnano spesso una pasta corta condita con un filo d’olio crudo (talvolta, sempre crudo e a tocchetti, aggiungo al mio frugale piatto un pomodoro nostrano, ben maturo).

Mangio il prosciutto, ma sempre più raramente, e ogni volta che accade non riesco però a liberarmi del ricordo del maiale come creatura viva. Jonathan Safran Foer e il suo libro toccante e disturbante – “Se niente importa, perché mangiamo gli animali?” non sono stati il ‘clic’ che mi ha deviato dal regime onnivoro in cui sono cresciuta, perché erano ormai anni che la carne nel piatto non era più solo un manicaretto, ma era anche cosa morta.

In questo mio allontanamento dalla carne insolvono con decisione le lenticchie, insieme ad altri legumi, come ceci, fagioli, cicerchia e piselli, ma le lenticchie mi piacciono più di tutti gli altri e penso che questa predilezione venga proprio dal mio ‘de profundis’ per il suino intelligente.

In realtà, vivendo in campagna e in luoghi in cui la vita quotidiana non è (ancora) improntata a stili metropolitani, il rapporto con certi animali, che in città si conoscono solo morti e cucinati, è più scoperto e più fragile. Anni fa, in un campo a qualche chilometro dal paese in cui abito ora, passando ho sentito muggire disperatamente una mucca e uno di lì mi ha spiegato che alla bestia avevano appena tolto il vitello, cioè il figlioletto. In città è difficile che uno conosca il dolore di una mucca e ci debba anche fare i conti…  Ed ecco che non mangio più il nodino di vitello.

E’ solo un esempio, ma sono rimasta toccata nel profondo – da quell’esperienza e da altre, con maiali, soprattutto – e gradualmente compenso rivolgendomi alle lenticchie, possibilmente nostrane (quando riesco a trovarle) e molto più rasserenanti; anche se agli appassionati di miti o di Bibbia, esse potrebbero ricordare altre storie toccanti, come quella di Esaù, di Giacobbe, la loro faida per la primogenitura e i trucchi per ingannare il vecchio Isacco.