Un algoritmo ai tempi di Ebola

 

Un algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero determinato di passi. Il termine deriva dalla trascrizione latina del nome del  persiano al-Khwarizmi che è considerato uno dei primi autori ad aver fatto riferimento a questo concetto. L’algoritmo è un concetto fondamentale dell’informatica anzitutto perché è alla base della nozione teorica di calcolabilità.

Ma non ho capito come fa, dove pesca i dati, le immagini e i (?)concetti che mi rimette addosso, come un vestito, sì, un vestito.

Con un flashback mi sono tornate in mente scene del secondo dopoguerra, quando la vita quotidiana prevedeva pasti equilibrati, uso degli avanzi (quando capitava che ve ne fossero), che diventavano i protagonisti  del pasto successivo (come alla corte d’Inghilterra, mi informava mia madre diplomaticamente) e soprattutto – una cosa che mi è rimasta indelebilmente nei ricordi – si rivoltavano i cappotti, qualcosa di un po’ dimenticato oggi, di cui ci si potrà ricordare per ripetere, ma solo se il cappotto è stato cucito da un sarto – un buon sarto – e la stoffa è di pregio; con un ulteriore ‘soprattutto’: se il costo dell’operazione sarà commisurato al beneficio ottenuto.

Bene: tutte queste ‘politiche di economia’ davano un risultato tutt’altro che spiacevole. Capivo solo dopo anni perché mia madre era così puntigliosa ed esigente nella scelta delle materie prima – inclusa la stoffa dei cappotti! – e non ero certo in grado di apprezzare, perché non avevo termini di paragone, ovvero un’altra vita con cui confrontare quella che stavo vivendo e che ogni tanto ritrovo in qualche libro (una delle scoperte più suggestive, di quest’unica – finora – vita che mi è stata affidata sono proprio le altre vite che ci è dato di vivere leggendo un libro che ti ‘prende’). Però il risultato era gradevole e certo di buon gusto, anche al palato.

Questo è stato un po’ l’effetto che mi ha fatto scoprire l’Anno di Silvana o come diavolo l’hanno intitolato, su Facebook. La mia vita risvoltata, abbastanza arbitrariamente e di certo solo parzialmente, con alcune frequentazioni e incontri notevoli estrapolati (L’Autore ai tempi del Colera), ma non capisco da dove, una foto – alla lettera – di un momento saliente in cui è persino immortalato il gatto Abril – storico e indimenticato compagno di diciassette anni della mia / nostra esistenza, mixato a un’idea che ho del luogo in cui attualmente vivo e a immagini di quello che ho guardato con la mia vecchia camera digitale con cui alimento la biblioteca delle mie immagini; ma l’elemento che mi ha impressionato di più sono le foto dei miei disegni, che mi balzano incontro, grazie all’algoritmo(?), quasi con l’emozione dei cipressi “alti e stretti”, seppure non “in duplice filar” …

L’amica giornalista Alessandra, che ne sa una più del diavolo, e forse il diavolo è proprio lei (di certo per alcuni politici recensiti a dovere), mi svela l’arcano: “è un algoritmo”. Cioè un ‘modus’, penso – qualcosa che non capirò mai, ma conoscendomi andrò da uno degli amici hacker che bazzicano il mondo del vino e mi farò spiegare -, un processo, un procedimento, un occhiale magico in cui infili tutto ed esce un piacevole riassunto per punti di qualcosa che hai annotato (di te), qua e là on line, non solo su FB, ma anche per esempio sul tuo blog, o sull’altrui.

Il risultato ti lusinga abbastanza da calmare l’ansia di essere osservata con la lente, da qualcuno capace di discernere e catalogare; ma l’elemento più sconvolgente è la cornice disegnata (e personalizzata): perché mi rifiuto di pensare che l’algoritmo sappia scegliere (ed eseguire) un progetto grafico così raffinato. Mi domando che cosa farà Facebook dei miei – dei nostri – ricordi, della nostra memoria di sé che pensavamo fosse cosa nostra, cioè nostra cosa. Mah …DSCN2320

Chocolate crossing

L’impatto è così forte, repentino, esteso, da lasciarmi senza fiato. Ma non priva di consapevolezza. E’ stato come se la nebulosa di pensieri che si stavano addensando nella mia testa fosse così sgradevole da farmi perdere le misure della realtà e piombare in terra, come un salame – dicevano quando ero piccola – sei caduta come un salame. E il mio primo pensiero è andato all’appuntamento di lunedì mattina, dopodomani, con impegni precisi (tutto che funzionava come un orologio, nonostante tutto). Tutti i miei pensieri sono rimasti contusi, mentre tre o quattro uomini ciondolavano sul marciapiede di fronte, davanti al circolo Arci, guardandosi bene dall’avvicinarsi – chissà mai che dovessero chinarsi e aiutare ‘una di fora’, passata al team dei vecchi, con l’aggravante di pensare -. E’ un nero intorno alla trentina ad avvicinarsi chiedendomi se mi sono fatta male e se può fare qualcosa. Osservo la giacca in pelle color cacao – un bomber? un chiodo?, mi domando – mentre ascolto le reazioni del mio corpo … il ginocchio destro polarizza la mia attenzione e mi pare il punto più preoccupante, anche ricordando i suoi precedenti . Del ghiaccio, subito, per favore … ah l’arnica per bocca ci vorrebbe; arriva una donna che riconosco, è la barista dell’Arci, e intanto mi domando che fine ha fatto il nero col chiodo (o il bomber) e come mai non torna con un po’ di ghiaccio. E’ a lei che serve il ghiaccio?, mi chiede la barista: io sono ancora seduta sul marciapiede, intanto si è fermata un’auto e una ragazza gentile, con accento dell’est mi promette di rimanere finché mi alzo. Capisco che la barista non si è fidata della richiesta del nero (si sa mai: da loro c’è la guerra, c’è l’Ebola e comunque non capiscono la nostra lingua e nemmeno il nostro modo di fare). Comunque il nero rispunta dal bar, i tipi che ciondolavano si sono percettibilmente avvicinati, forse per capire se ci sarà spettacolo e di che genere, la ragazza dell’est mi strattona piano per convincermi ad alzarmi. Il nero è pragmatico: mi consegna il ghiaccio chiuso in uno shopper bianco, io mi ci tampono il ginocchio mentre sento che mi spunta un bernoccolo in testa; la ragazza dell’est mi consegna le chiavi dell’auto che mi erano sfuggite cadendo.

Mentre i tipi dell’Arci si dondolano con aria assente, mi chiedo se qualcuno mi ha spinta, per cadere così di colpo; ringrazio la ragazza dell’est e mi rimetto faticosamente in piedi. Mi guardo le scarpe che ho acquistato un paio di anni fa a Saint Vincent e capisco che è tempo di buttarle via, anche se paiono ancora buone: sono loro che mi hanno tradita. Penso a quello che mi aveva detto la signora che me le aveva vendute, mettendomi in guardia. Forse le scarpe hanno una vita propria? Credo che solo Nabokov saprebbe descrivere questa scena, cogliendone la dinamica in profondità, con quel modo di guardare fino in fondo l’evolversi delle situazioni, ma solo Marquez sarebbe in grado di rispondere ai pensieri di quelle scarpe e scriverci un racconto.

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