Ciò che resta di Biella

DSCN9298L’amica con l’occhio lungo e il tatto da intenditrice dà una palpatina alla  giacca (non nuovissima) che indosso a un vernissage. Sono cinquant’anni che vado ai vernissage e, come quasi tutte le signore di mia conoscenza, ho una specie di ‘divisa’ che indosso con la pretesa di essere a mio agio, sufficientemente elegante (dovrei virgolettare anche questo) e non apparire come una sciuretta che vuole (appunto) apparire. La giacca lunghetta che indosso me la sono disegnata io: ha tasche interne, un taglio semplice ma, soprattutto, il tessuto caldissimo e leggero con cui è stata realizzata mi ripara dal rinculo di freddo di un inverno inesistito; il discreto bon ton, spero che racconti scelte cromaticamente oculate: se il tessuto pregiato è costoso, lo è soprattutto perché garantisce una lunga durata, senza alcun esibizionismo.

E’ delicato scivolare nella terza età cercando di non essere presa per una vecchia babbiona un po’ rincoglionita, e spesso la giacca giusta aiuta. Spesso, ma non sempre, perché in questa società – abbastanza incivile – talvolta persino professionisti, che dovrebbero essere dotati di sagacia e interessati a lavorare correttamente, ti prendono sottogamba o addirittura non ti considerano affatto. Ho un bel daffare a telefonare a PrimaPagina e provocare chiedendo di guardare ai vecchi come a una risorsa: questa è una società incolta, che non sa di non sapere e che non è minimamente interessata a saperlo …

L’amica intenditrice mi scocca un sorriso complice e fa un piccolo commento sulla speciale morbidezza della giacca. E’ ciò che resta di Biella, le rispondo, e di tutte le frequentazioni biellesi che mi hanno fatto conoscere il lavoro, geniale talvolta, di quell’enclave della lana che ha saputo nel tempo conquistare il mercato inglese – spesso indossiamo capi con etichetta loro, per scoprire poi che si tratta di finissimi tessuti italiani -; Biella dove ho potuto scegliere, anche in luoghi segreti, scampoli, campioni, numeri zero, di quel lavoro meraviglioso.

Ma mentre le rispondo è come se saltasse un tappo e i ricordi colgono l’occasione per prendere la via diurna e riportarmi a qualche anno fa, alle mie avventure in quella terra così ricca di ingegni, e piena di trabocchetti. Una terra a cui sono rimasta legata, anche perché è morta lì mia madre, perché un’amica che mi ha svelato il mondo raffinato dei telai, delle cardature, dell’acqua che fa bella la lana (chi lo avrebbe mai detto) ha perso la ragione e non mi può più dare consigli e io non posso più girarmi dall’altra parte e scegliere di non seguirli.

E’ un attimo e nel ricordo mi ritrovo seduta nell’ufficio di un direttore di banca, con la donna elegante e gentile che mi ci ha accompagnata, a proporgli con spavalda timidezza di finanziarci un bel progetto, pur essendo noi così piccole di fatturato.

Ma no che non siete piccole, mi sorride bonario e ottimista il direttore. E mentre mi accorgo palpabilmente del pallore improvviso e della tensione dell’elegante e gentile accompagnatrice seduta al mio fianco, apre la nostra cartellina e cita il nostro fatturato che ammonta a otto volte circa quello che mi era stato fatto firmare da un commercialista locale molto chic…

Sono passati tanti anni da quei giorni; anni di incontri e di scoperte di un’Italia che non conoscevo; un paese che, letto sui quotidiani, assomiglia a un mosaico policromo di imbroglioni, azzeccagarbugli, furbacchioni e incapaci, che fa da fondale a farabutti più grandi e a un imponente sistema di corrotti e collusi. Nel tempo ne ho incontrati alcuni ma non tutti sono o erano così eleganti, né gentili, come la signora che impallidiva al mio fianco ascoltando il direttore della banca che le scopriva incautamente gli altarini.

Ho una piccola serie di giacche nate a Biella: sono le testimoni della capacità creativa e artigianale di quelle fredde valli. Le indosso volentieri, riscoprendo ogni volta il tepore e il senso di protezione che un tessuto di alta qualità può dare; però quel ricordo mi tormenta un po’ e mi chiedo: ma davvero do l’idea di essere una vecchia babbiona a cui far credere quel che si vuole?

Essere o non Essere (madeinItaly)

Mi telefona uno che non conosco e che ha beccato il numero del mio cellulare sul mio sito. MI coglie mentre esco da un’edicola di Sinalunga, dove ho lasciato tre uomini alti dal volto toscanissimo (come si fa a capire ‘toscanissimo’? si capisce, si capisce molto bene) a parlare della crisi e della ‘mancanza di ricette’ per curarla.

Il tipo che ha chiamato è del nord e mi ci riconosco subito – magari non interamente nell’aria un po’ cauta, quasi esitante, con cui mi saluta -, mi riconosco soprattutto nelle parole ammirate con cui si bea della bellezza della Val d’Orcia, dichiarandosi visitatore abituale (e frequente). In realtà è uno che va al sodo; vuole il mio famoso (chissà?!) chocolat ed è andato sul mio sito, come si direbbe in milanese, a ‘ravanare’.

Stabilito il contatto e ‘rotto’ il ghiaccio, rompe pure gli indugi e scopro che sa un sacco di cose su di me e pure che vino fanno le mie figlie. Mi accorgo di aver perso un po’ i codici dialettici nordici, da come stavo per tirar su un muro, esattamente come fa la gente di qui che è cordialissima, ma che salvate le eccezioni, che pure ci sono, si può esser certi che i sorrisi sono di comodo. Ma anche a causa dei tre dal volto così toscano e dalla recriminazione facile, che mi ritornano in mente, nella seconda telefonata che, come si sul dire, tra noi intercorre, dopo aver esordito con lusinghiere (per me) richieste di chocolat (mio costoso passatempo), gli chiedo qual è l’attività della sua azienda.

Ne parla, come mi è tornato subito familiare, con quella passione quasi sensuale per il proprio fare che riconosco solo nel lombardoveneto (i piemontesi sono più chiusi al proposito) – non che altre (tutte) regioni italiane siano sprovviste di passione per il lavoro, ma nel lombardoveneto questa viene espressa in un modo particolare che mi è noto -. E mi racconta tutto un ‘inside’ che mi lascia interdetta.

In pratica mi racconta come nel settore – rubinetteria, mi cita ad esempio – vi siano aziende che acquistano le componenti in India o in Cina, incuranti della presenza di un’altissima percentuale di piombo (che in Italia è bandito da decenni, per gli effetti dannosi alla salute). Poi assemblano la rubinetteria, ci mettono il marchio “made in Italy” e furbescamente vendono con il loro prestigioso ‘marchio italiano’; con tanti saluti alla salute, alla verità delle cose, e non da ultimo ai posti di lavoro – mi viene da pensare. Me lo racconta per spiegarmi come sia diventato difficile, addirittura impervio, lavorare facendo sfoggio dei talenti e della conoscenza tutti italiani, che ci hanno reso famosi. Ecco uno in grado di apprezzare un lavoro fatto con passione, penso, e un giorno a quelli come lui racconterò la mia storia: la storia di una “strulla”.

Dopo aver parlato con il signore in questione mi viene in mente che di made in Italy c’è rimasto poco più di quella che ci piace chiamare furbizia, ma che è, ancora una volta, una frode concessa da chi dovrebbe controllare che queste porcherie non succedano.

Le Mani in Pasta

Le parole sono quelle per dire un gesto arcaico e bellissimo, un lavoro di quelli che nutrono il mondo. Quando le senti ti puoi immaginare mani di rezdora appoggiate a un grembiule candido e un po’ ruvido, mani sporche di farina che si muovono – robuste e veloci allo stesso tempo – oppure le mani di un maestro di pasticceria, che ti propone una delle sue ‘chicche’ naturali (magari dopo averti proposto per anni altre ghiottonerie un po’ più artefatte; ma si sa oggi se non è naturale che ne parliamo a fare? Perciò il ‘maestro’ più o meno silenziosamente convertito alla naturalità, ti propone con ‘naturalezza’ gli stessi prodotti – buoni, buonissimi! – che prima ti vendeva sotto altre spoglie (mentite?).

Lo stesso maestro – la rezdora è introvabile, a meno che si tratti della comparsa di un set di cuisine, o di pasticceria: uno di quei ‘master-qualcosa” che ora vanno per la maggiore – però, pilotato da maestri di pensiero (e di parola), dai soliti spin doctor o loro succedanei ti racconta che uno degli ingredienti del suo dolce prelibato è (udite, udite!) l’amore, addirittura. Magari l’amore per i soldi? Insomma è l’era della parola, anche se mai il dire (parole) e il fare (cose concrete) sono stati più lontani, e così a lungo, l’uno dall’altro.

Così può accadere che ad avere le mani in pasta possano essere personaggi un po’ equivoci, tutti succedanei di (ex) figure prestigiose. Professionisti, ora un po’ scalcinati; artigiani, che si rieditano quali business men, figure pubbliche dall’aria un po’ disorientata e sì, anche qualche chef divenuto succedaneo di sé stesso, per pura ambizione, e magari di seconda mano … finiti i bei tempi del lievito madre che era la madre di tutti i lieviti. Ora quello che conta sono le parole e quando va bene delle belle foto che cantano il Kyrie al recente passato, fatto di croissant e di charlotte, di cioccolato e di torte mimosa, con in mezzo i salati più salati (per via del prezzo) mai passati su questo schermo.

Avere le mani in pasta può voler dire cercare le scorciatoie – conoscendo un paio di persone ‘giuste’, essendo ben collocato nel sistema (come un topo nel burro chiarificato) – per rastrellare soldi, per far fare carriera a quelli che ti interessano, per pensare a rimediare una gaffe…

Sì, le parole possono impressionare, contribuire a scaldare un’atmosfera, ma da sole non portano lontano, non bastano a rattoppare le coscienze un po’ sudaticce, a rasserenare un volto arcigno e teso, insomma a cambiare la sostanza delle cose; soprattutto se di ‘cose concrete’ si era abituati a trattare.

Chocolate crossing

L’impatto è così forte, repentino, esteso, da lasciarmi senza fiato. Ma non priva di consapevolezza. E’ stato come se la nebulosa di pensieri che si stavano addensando nella mia testa fosse così sgradevole da farmi perdere le misure della realtà e piombare in terra, come un salame – dicevano quando ero piccola – sei caduta come un salame. E il mio primo pensiero è andato all’appuntamento di lunedì mattina, dopodomani, con impegni precisi (tutto che funzionava come un orologio, nonostante tutto). Tutti i miei pensieri sono rimasti contusi, mentre tre o quattro uomini ciondolavano sul marciapiede di fronte, davanti al circolo Arci, guardandosi bene dall’avvicinarsi – chissà mai che dovessero chinarsi e aiutare ‘una di fora’, passata al team dei vecchi, con l’aggravante di pensare -. E’ un nero intorno alla trentina ad avvicinarsi chiedendomi se mi sono fatta male e se può fare qualcosa. Osservo la giacca in pelle color cacao – un bomber? un chiodo?, mi domando – mentre ascolto le reazioni del mio corpo … il ginocchio destro polarizza la mia attenzione e mi pare il punto più preoccupante, anche ricordando i suoi precedenti . Del ghiaccio, subito, per favore … ah l’arnica per bocca ci vorrebbe; arriva una donna che riconosco, è la barista dell’Arci, e intanto mi domando che fine ha fatto il nero col chiodo (o il bomber) e come mai non torna con un po’ di ghiaccio. E’ a lei che serve il ghiaccio?, mi chiede la barista: io sono ancora seduta sul marciapiede, intanto si è fermata un’auto e una ragazza gentile, con accento dell’est mi promette di rimanere finché mi alzo. Capisco che la barista non si è fidata della richiesta del nero (si sa mai: da loro c’è la guerra, c’è l’Ebola e comunque non capiscono la nostra lingua e nemmeno il nostro modo di fare). Comunque il nero rispunta dal bar, i tipi che ciondolavano si sono percettibilmente avvicinati, forse per capire se ci sarà spettacolo e di che genere, la ragazza dell’est mi strattona piano per convincermi ad alzarmi. Il nero è pragmatico: mi consegna il ghiaccio chiuso in uno shopper bianco, io mi ci tampono il ginocchio mentre sento che mi spunta un bernoccolo in testa; la ragazza dell’est mi consegna le chiavi dell’auto che mi erano sfuggite cadendo.

Mentre i tipi dell’Arci si dondolano con aria assente, mi chiedo se qualcuno mi ha spinta, per cadere così di colpo; ringrazio la ragazza dell’est e mi rimetto faticosamente in piedi. Mi guardo le scarpe che ho acquistato un paio di anni fa a Saint Vincent e capisco che è tempo di buttarle via, anche se paiono ancora buone: sono loro che mi hanno tradita. Penso a quello che mi aveva detto la signora che me le aveva vendute, mettendomi in guardia. Forse le scarpe hanno una vita propria? Credo che solo Nabokov saprebbe descrivere questa scena, cogliendone la dinamica in profondità, con quel modo di guardare fino in fondo l’evolversi delle situazioni, ma solo Marquez sarebbe in grado di rispondere ai pensieri di quelle scarpe e scriverci un racconto.

DSCN6279