La Mercedes che non so dove sia

Quando, anni fa, a un tale con cui stavo chiacchierando di lavoro avevo mostrato un’affichette che illustrava i libri di Garcia Marquez, mentre gli stavo raccontando il primo incontro con il grande scrittore, cogliendomi di sorpresa, questi mi chiese “e chi è ‘sto Garcia Marquez?”. Io avevo risposto che era un signore con una moglie che si chiamava Mercedes ma non era un’auto. Era una battuta, venuta lì per lì, una forma di esasperazione trattenuta, per la sua non conoscenza di un personaggio che aveva acceso l’immaginazione di almeno due generazioni di lettori, e non solo; una battuta solo a metà, perché forse lui è rimasto con l’idea dell’auto e io non me la sono sentita di impegnarmi raccontandogli di Macondo, della casa di calle Fuego a Città del Messico, dei racconti raminghi, né del premio Nobel. Tagliai corto poi, non ricordo bene come. Nel frattempo Gabo è morto e ora la Mercedes, quella che non era un’auto – quella a cui veniva dedicato ogni libro in pubblicazione (“para Mecedes por supuesto”) – lo ha raggiunto in un immaginario magico almeno quanto quello che Garcia Marquez aveva saputo raccontarci con i libri.
Ma quasi dappertutto e anche nei luoghi dove vive quell’uomo che mi fece la sorprendente domanda, la Mercedes è solo e sempre stata un’auto che sfreccia per strada e pochissimi, sentendo questo nome, sospetterebbero oggi che si possa trattare di una donna.
Io invece, fino agli anni del liceo quando ho sentito dire  Mercedes ho sempre pensato all’amica che abitava sul mio stesso pianerottolo di casa, la figlia dei vicini più grande di me di tre anni, che nonostante la differenza d’età – rilevante in quella stagione della vita – è stata ideatrice e complice di terribili marachelle, ma anche organizzatrice di balli e commedie con cui abbiamo intrattenuto i vicini di casa (con me protagonista “in scena” e lei nel ruolo di regista). Mai avevo sentito citare Maria de la Mercedes, né avrei sospettato che quel nome fosse traducibile come mercede in quanto perdono, o pagamento. Quanto alle auto, ce n’erano talmente poche in circolazione ed erano così lontane dal mio mondo di ragazzina, che non sapevo nemmeno che ce ne fossero di varie ‘marche’. Per dire come fosse diverso da quello contemporaneo il paesaggio cittadino di quel tempo, devo ricordare le botteghe con i cassetti dal frontalino in vetro per mostrare il contenuto, la pasta alimentare sciolta, devo ricordarmi dello zucchero venduto nella carta blu (carta-da-zucchero) che veniva anche applicata, umida, sui lividi che ci procuravamo noi ragazzini cadendo e giocando, devo pensare al latte venduto in bottiglie di vetro spesso, a rendere, con il coperchietto argenteo su cui era impressa la data di scadenza.
(Solo molti anni dopo, quel nome ha acquisito la consistenza di un’auto, forse addirittura ascoltando Janis Joplin cantare Mercedes Benz; ma la mia amica dell’adolescenza era ormai un ricordo lontano, travolto da nuovi incontri e altre storie).
Con la Mercedes ci si vedeva tutti i giorni; avevamo orari e compiti di scuola un po’ diversi – lei alle medie e io ancora alle elementari dalle suore. Io avevo una gran passione per il ballo e lei possedeva un grammofono; i suoi genitori erano ricchi, ma moderatamente, come si usava allora, senza auto né accessori lussuosi. Suo padre aveva una fabbrica di occhiali da sole, e sono convinta che potrebbe anche tornarmi in mente il nome. L’agiatezza si concretizzava nelle vacanze al mare in albergo, e nell’appartamento con un locale in più – quello che ora chiamiamo soggiorno – che aveva un balcone in pietra affacciantesi su via Venini; e da quel balcone, un giorno, la Mercedes mi convinse a sputare mentre passava una signora con cappello ad ala larga e un’ondeggiante gonna godè. L’idea era che lo sputo finisse sull’ala del cappello, ma io sbagliando i tempi e sbavando con qualche esitazione andai a colpire proprio la gonna: la donna – ricordo ancora lo sgomento che mi prese – alzando di scatto la testa ci colse sul fatto e salì inviperita fino al secondo piano. Ci andò bene perché eravamo sole in casa, i genitori erano via e io pulii diligentemente la gonna, che mi sembrava elegantissima, sotto gli occhi inferociti della vittima a cui chiesi umilmente scusa. Quella volta la Mercedes fece la parte dello chaperon a cui ero sfuggita di mano, ma ci sono state molte altre occasioni di complicità con quell’amica più grande, che però poi frequentai a intermittenza, perché crescendo io facevo anche altre amicizie e soprattutto mi si delineava un percorso diverso da quello suo; lei intanto si allontanava, tanto che non ricordo nemmeno che scuola frequentasse alle superiori. A un certo punto suo padre morì d’infarto – lo ricordo disteso, sul letto matrimoniale, ma non ho memoria di lacrime della mia amica, né di un clima di lutto, quasi come se quella morte fosse stata naturale e pienamente accettata. Da quel lutto passo repentinamente, quasi non ci sia stato niente in mezzo, a un matrimonio della Mercedes con il ricco proprietario della filanda di Roubaix, un matrimonio lontano invisibile e forse combinato, in un luogo molto a nord, e mi rimane il ricordo di sua madre che, ormai sola, veniva a prendere il tè da noi e a mia madre raccontava che la Mercedes ora viveva in un’importante famiglia, dove la madre del marito aveva sempre con sé un gran mazzo di chiavi che aprivano (e chiudevano, a me veniva in mente) tutte le porte di casa, armadi e dispense inclusi.
Sul nostro stesso piano, in via Venini, abitava un medico ortopedico con l’hobby della scultura: aveva ritratto la mia amica modellandone una testa in terracotta; era il suo dono di matrimonio. La testa, molto somigliante all’originale e la scritta alla base – Mercedes -, mi sono tornate in mente diverse volte – il ricordo si intreccia con altri di anni diversi e meno lontani, quasi ne fosse il capostipite.
Consultando testi che raccontano la storia dell’industria in Europa, ho letto che la filanda Motte a Roubaix è stata la più grande e importante di Francia e, vittima della crisi industriale di quel settore, ha chiuso l’attività nel 1981. Restaurati e recuperati successivamente, gli edifici della filanda ospitano dal 1991 gli Archives Nationales du monde du Travail; le foto dei luoghi mostrano un complesso enorme, monumentale, e mi chiedo se da qualche parte vi sia rimasto un pezzetto della vita della Mercedes con cui ho ballato e giocato in via Venini, prima di capire che sarei andata via di lì.

All’armi siam turisti

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Non solo uno sfogo: un vero allarme

Non so voi, ma io mi ricordo piuttosto bene delle “vacanze intelligenti”, lanciate dall’Espresso, che a quel tempo – ma che tempo era, e dov’eravamo? – era il punto di riferimento di un genere di persone (un gruppo socioeconomico disomogeneo con consumi e atteggiamento culturali simili) che in quel giornale ritrovava le proprie propensioni e opinioni.

Ripensandoci, cerco di ricordare com’erano le vacanze, prima di diventare intelligenti – un po’ stupidine, magari – e com’eravamo; sarebbe meglio scrivere ‘com’era la gente nei miei dintorni allargati’.

Per soccorrermi potrei andare a rileggere qualche ricerca Eurisko del professor Calvi, o di Giampaolo Fabris, o di Enrico Finzi, oppure qualche annuario Esomar, per dare una sbirciata ai consumi in Europa – trent’anni orsono – e vedere di nascosto l’effetto che fa.

Scriverei in modo molto ben documentato, ma meno empatico: in verità preferisco attingere al pozzo personale, essere meno scientifica (ma lo scrivo solo per mettermi al riparo da qualche geologo dell’animo umano) e consegnare a questo blog l’emozione violenta (e sincera) che mi suscita il vespaio turistico di cui il belpaese è l’involontaria e finora supina vittima.

I ricordi – quelli con tanto di documenti a suffragio – li riservo alla carta stampata, perché è lì che si può dire “l’ho messo nero su bianco”, con buona pace del blog che ha altre ambizioni … Ma questa è un’altra storia.

Tornando alle vacanze stupidine d’antan, io c’ero; c’ero ma facevo già vacanze intelligenti (secondo quello che scriveva l’Espresso). A questo punto qualcuno ridacchia e dice tra sé e sé eccola qui la nostra che si parla addosso … Ehm, no, aspettate a ridere alle mie spalle, potrebbe rivelarsi paradossale …

Sì, perché io ero tra quelli – pochini ancora, ma ‘intelligenti’, secondo l’Espresso – che venivano in Toscana, anzi: si precipitavano. Qualche volta scegliendo un villaggetto da niente, con annessa pieve e paesaggio “incontaminato”, preferendolo a una sortita in una delle cittadelle europee che rigurgitano cultura e buona (almeno in apparenza) educazione.

Come mai questa preferenza? Intanto bisogna dire che non ero sola a fare questa scelta e che allora – con gli italiani indaffarati a diventare cosmopoliti – c’erano persone, qualche volta anche intere famiglie, che sentivano dentro di sé l’urgenza di conoscere l’Italia. Allora non si usava citare il Grand Tour (ora lo si cita scrivendolo senza la “d” finale, come se fosse una specialità gastronomica un po’ volgarotta).

Strano, no?, conoscere l’Italia, questo paese rimasto un po’ medievale ma solo nella mentalità, perché la parte più fisica è disseminata di scritte zimmer frei, già da qualche decennio e anche nell’Emilia di allora (in Toscana no, allora le zimmer – frei o besetz che fossero – in Toscana, grandi alberghi a parte, erano una rarità). Perché, come appresi a Montalcino dalla viva voce di un’ostessa, i turisti meno vengono meglio stiamo noi, affermazione sottolineata in tempi più recenti da qualche senese docg piuttosto imbufalito.

Ma torniamo a noi e alle vacanze intelligenti, che consistevano in un pellegrinaggio reverente, racchiuso tra due viaggi – andata e ritorno – talvolta faticosi, altrimenti trascorsi guidando in un traffico ancora plausibile, ma su un percorso troppo lungo per sopportare delusioni. E le delusioni, allora, erano pochine: la gente, ispida ma quasi sincera, ti accoglieva volentieri, raccontandoti aneddoti veraci e storie belline; la gente era contenta di ‘questi strulli’ che arrivavano giù dalle loro comode città, perché i nativi si svagavano un po’. Con il visitatore era un po’ come andare al cinema; lui si raccontava con accento esotico e si lasciava a sua volta incantare dai racconti dei nativi, che osservava con rispetto e venerazione, perché li viveva come i testimoni di una vita speciale (‘stile di vita’ non si usava ancora dirlo, e ora per fortuna non si usa più), di una vita più umana, meno di corsa a fare la spesa, di corsa in ufficio, di corsa alla riunione, di corsa al cinema, di corsa, di corsa!

Perché i nativi vivevano di quello che coltivavano nell’orto e nella vigna, del loro miele e del formaggio che magari veniva dalla montagna, e uno dei loro caratteri di fondo era la parsimonia; l’altro era la generosità, soprattutto dei loro racconti. Una vera narrazione di un paesaggio austero e poetico: qualcosa che ognuno di noi – proto-intelligenti – avrebbe voluto infilarsi dritto nel cuore e portarselo a casa, nella città crudele.

La narrazione era punteggiata di fette di pane con cibi esotici – salame vero, buristo, prosciutto d’oro (in quanto rarità preziosa) e assurdamente salato – e persino il pane, da solo, sapeva di verità: qualcosa di un po’ dimenticato. Il vino – salvo eccezioni speciali pessimo e grossolano – era delizioso e ci parlava del coraggio di quelle genti abbarbicate alla terra, che manco conoscevano il significato della parola ‘paesaggio’ (del resto, se è per quello, il significato non lo sapevano nemmeno i ministri della Repubblica) né quanto fosse preziosa la tavola ‘del dugento’ (sparita) nella chiesuola in fondo al viale di cipressi.

Noi “intelligenti” sì che sapevamo tutte queste cose: forse perché venivamo da lontano, lavoravamo una quantità mostruosa di ore, guadagnavamo molto (rispetto a salari incerti e rari e le pensioni precoci) e poi, soprattutto!, volevamo conoscere il bel paese. …

Ora, guardo le coppiette che non sono riuscite a parcheggiare la loro Mercedes Benz (e mi ricordo il canto a cappella di Janis Joplin) accanto al tavolo del ristorante, si fermano un attimo per fare una foto e portare via un po’ di paesaggio (tanto non sanno cos’è), i tacchi dodici stridono sulle pietre (ma d’altronde se ci fosse l’asfalto sarebbe peggio); la gonna palpita, la sera cala tiepida: andiamo a cena …

Mi domando quanti di loro abbiano una vaga idea di quanto era forte e netta l’emozione che ci coglieva salendo l’erta fino alla piazzetta e se sanno apprezzare quanto di buono e vero qui assaggiano e sperimentano. Di certo, per quanto quasi tutti iper connessi, nessuno di loro può arrivare a vedere quello che allora c’era e alcuni riescono ancora a sbirciare, se hanno qualcosa dentro, se hanno strappato un ricordo a uno che una come me ha (ancora) il privilegio di conoscere.

Poi leggi dei tuffi a Venezia dal Ponte dei Sospiri, vai a Roma e senti che l’incenso che aleggiava si è convertito in pizza; Firenze che puzza di fritto …

Allora mi viene in mente che se non ci pensiamo noi (noi chi?) a curare la bella Italia – lingua e pizza, luoghi della fede e fontane, prode e costoni, boschi e uliveti, tabernacoli e chiostri – a curarla ferocemente, a ‘farla pagare’ e valere in termini di rispetto, riguardo, cura, attenzioni in punta di piedi, anche la bella Italia diventerà altro, qualcosa da strada, da kleenex buttato, da orinatoio d’emergenza, da pietre porta mozziconi, cartacce … bottiglie … lattine … blister …

La grande emozione diventa una bellezza di ricordo. Avanti un altro.

Oh Lord, won’t you buy me a Mercedes Benz? / My friends all drive Porsches, I must make amends. / Worked hard all my lifetime, no help from my friends, / So Lord, won’t you buy me a Mercedes Benz?…