Riparare stanca

Che in Italia ci si stia avviando, o abituando, a vivere di espedienti? Forse non è solo una sensazione se metto insieme i piccoli e grandi imbrogli di cui si legge soprattutto stando in campagna, dove c’è un maggior controllo su quel che accade tutt’intorno, nelle pieghe della vita quotidiana. Sono come un ‘basso continuo’ in cui risuonano i colpi di grancassa degli scandali che valgono miliardi, e lo schianto dei ‘paletti’ che regolavano la nostra vita di cittadini. Un’espressione che sento sempre più spesso “il mondo alla rovescia” fa parte di una nuova letteratura del quotidiano, insieme ad altre locuzioni, la più frequente tra tutte “il lavoro che non c’è più”.

A quest’ultimo proposito ci sarebbe da ragionare (e da leggere) per mesi. Ma davvero “il lavoro non c’è più”? Di certo sono spariti molti lavori; altri proseguono sottopagati all’estero, in luoghi dove i lavoratori costano meno e la vita pure. Ma tutti i (preziosi) lavori di manutenzione, per cui non si può ancora chiamare un robot, ma che sono indispensabili per continuare a vivere più o meno la vita di pochi anni fa, chi li fa?

Se lo è chiesto un pizzaiolo campagnolo qualche giorno fa, prima di chiudere imbufalito il suo locale, dopo aver atteso invano che la ditta fornitrice di attrezzature alberghiere, di cui era cliente gli riparasse il forno (in garanzia) a cui era saltata la resistenza. Dopo nove giorni d’attesa inutile e di sue risposte sempre più imbarazzate ai clienti, è saltata anche la resistenza del pizzaiolo che non sapeva più a che santo votarsi.

E’ solo un episodio, ma mentre me lo raccontavano mi tornava in mente che avevo chiesto la revisione della mia caldaia campagnola e che dopo un’esitazione lievissima mi hanno pregato di attendere che si riuscisse a fare un groupage di utenti “così con un unico viaggio facciamo il lavoro”. Peccato che la caldaia fosse in panne e io sia dovuta ricorrere a un bricoleur del villaggio per tornare a lavarmi con l’acqua calda.

E che dire delle innumerevoli revisioni, dei restauri, riparazioni, adeguamenti e rinnovamento di tutto ciò che ci circonda? Dalla casa agli uffici, dai vestiti alle auto e agli attrezzi di tutte le attività immaginabili. Forse riparare stanca?

Il lavoro di riparazione e rinnovamento è diventato un’attività protagonista, in tempi di benvenuta oculatezza; vuoi perché riparare allunga la vita a un attrezzo, vuoi per i nuovi criteri che tengono in conto (o che dovrebbero) il consumo delle risorse, vuoi per una neonata decenza di pensiero, obbligatoria nei confronti dei troppi poveri nel mondo degli spreconi.

Sono anni però che i cascami dell’informazione promuovono il “lavoro creativo”, sdegnando i lavori che richiedono ingegno e manualità, assieme ad abilità artigianali. E pare che gli unici lavori la cui manualità sia creativa siano il cuoco e il contadino, non certo il riparatore di forni o altri macchinari; ma anche i pizzaioli, certo, sarebbero i benvenuti nel mondo in cui si crea (ma non si ripara).

Ieri sera ho finalmente mangiato la pizza, cotta alla perfezione, accompagnata da un bicchiere di buon vino bianco. Mentre pagavo il conto cercavo di valutare il lavoro perso dal pizzaiolo e di contare quante centinaia di pizze non erano state servite o consegnate, nei giorni in cui quel forno aspettava di essere riparato. Una riparazione eseguita in due ore. Dopo nove giorni di attesa.

Dire, fare, lavorare

Più del bicchiere di vino, mi affascinano i tanti lavori che gli stanno intorno. Intorno e dentro alla vigna, al vino e alla cantina; intorno e dentro all’agricoltura colta. Sono lavori lontani da un’idea (sbagliata) d’Italia che affiora sulle pagine dei giornali e nei discorsi che intesse la politica: impiego pubblico, lavoro ai giovani, sgravi fiscali (!) per dare un lavoro, senza chiedersi quale, con quali competenze e come procurarsi queste ultime.
Sono cresciuta in un’Italia che rifuggiva il lavoro manuale, confondendolo con ‘manovale’ e tacitamente attribuendogli connotati di rozzezza e incultura; dove i giovani sono stati spinti dalle famiglie a mettersi un colletto bianco, dopo che la Fiat aveva indotto i contadini a lasciare le campagne per arruolarli in fabbrica (in una Torino ben diversa da quella del Salone del Libro e anche di Eataly).
Mi domando se il precipitare imminente di quella che ci siamo abituati a chiamare crisi (ma che è una strategia globale di appropriazione indebita di beni e diritti) darà tempo ai giovani di capire la bellezza del lavoro, di quello vero, non del posto (che non c’è più) di lavoro cantato dal film di Ermanno Olmi.
Penso ai giovani di tante età che aspirano a diventare giornalisti, registi, pubblicisti, pubblicitari (ma in realtà venditori di spazi), e che non conoscono il lavoro manuale, anzi magari lo disprezzano pure.
Poi capito in cantina e vedo il “vecchio” e il giovane al lavoro, un lavoro vero e affascinante (e pure ben pagato). Mi viene in mente che a Milano ci sono tanti avvocati quanti nella Francia tutta, che tutti i pizzaioli milanesi sono egiziani. Che gli operai agricoli sono arabi e i più umili lavori della vigna – per produrre vino – spesso li fanno dei musulmani che forse si pongono domande imbarazzanti. Che sono i macedoni a tagliare i boschi e accudirne le legna ….Che han più occhio gli americani dei nativi a promuovere lo stile toscano.
Mi viene in mente anche l’ineffabile bellezza un po’ noiosa della vita in campagna e quanto ci sarebbe da fare per ripopolare – senza enfasi, e neppure annunci – con gente e raffinato (e produttivo) lavoro agricolo (e dintorni) la (quasi ex) bella terra d’Italia. Mentre i due maestri bottai lavorano di gran lena, con competenza e un profondo legame con quello che stanno che stanno facendo,,,in particolarerisultatoolslavoro impegnativoil sapere al lavorobatman è stato quisapere e farelavoro finitomaestri bottai