Il Ritorno della Schiscetta

Quello che pochi anni fa – all’inizio dell’epocale ribaltamento di fotogramma – poteva anche sembrare l’inizio di un’era di revival quasi modaiolo, ora appare (e si fa pure toccare con mano) in tutta la sua crudezza per quello che è, un tempo nuovo, da affrontare con occhi tersi, muniti di buoni strumenti culturali – quelli che ti permettono di non soggiacere se non ce la fai, e comunque ti consentono di sopravvivere – per esempio la padronanza della propria lingua (almeno quella!), e l’abitudine a consultare dizionari e vocabolari, non solo per essere certi del significato delle parole che stiamo adoperando per esprimerci, ma anche per arricchirla di tutte le sfumature richieste dai nostri pensieri (almeno da quelli che vogliamo dividere con qualcuno). E a proposito di pensieri: a me sembra che si pensi meno; si mugugna molto ma in modo un po’ vacuo, poi però mi pare che ci si accontenti di pensieri minimi. Si potrebbe obiettare che tutte le energie sono concentrate altrove, impegnate ad affrontare un’esistenza diversa da come ce l’avevano lasciata immaginare… sarà ma mi pare che anche a questo proposito circolino poche idee, poche riflessioni costruttive e che si metta in campo poca energia.

Questa riflessione non riguarda solo la gente in generale, ma anche (soprattutto) i mezzi d’informazione e il loro rapporto con la politica o almeno con ciò che ne resta. Difatti mi pare che giornali e tv (ma anche la radio) siano diventati dei ripetitori e che solo pochissimi media analizzino in modo critico le “proposte” che la politica emette. Insomma un piattume, con la gente zitta zitta e i più audaci tra i giornalisti che riportano – ma quasi di sfuggita – questo silenzio di bonaccia, che non dice nulla di buono. E’ un silenzio che parla di annichilimento più che di rassegnazione.

Ma in questo spaesamento spuntano gesti e comportamenti (saranno nuove abitudini?) un po’ come i fili d’erba che si fanno strada nelle fessure di un marciapiede poco curato. Non so se sia un “fare di necessità virtù” o un rifugiarsi nei piccoli gesti (talvolta sono minuti piaceri) consolatori. Qua e là si assiste a dei ritorni e a rivalutazioni che rispondono a due criteri: quello di far risparmiare e a pari merito quello di ‘far bene’.

Una delle riscoperte più notevoli è quella della schiscetta – non solo come oggetto, per chi ne possiede una -; sta diventando una nuova abitudine, e chi non ha la schiscetta rimedia con un Tupperware scientificamente riempito a casa, con cibo casalingo – più sano, più economico (mi pare che il sandwich sia in calo) -. Prevedo che ci saranno ristoratori che compenseranno eventuali e non augurabili contrazioni di fatturato entrando nell’ora pranzo con proposte / schiscetta allettanti soprattutto per chi non ha a casa qualcuno che cucina.

Osservavo – ma non sono riuscita a fare una foto! – l’altro giorno a Milano una vetrina di Humana, un’agenzia per il lavoro. Numerosissime le offerte, ma non ho la più vaga idea delle retribuzioni; cercavano “sarte finite”, “responsabili delle vendite, lingua cinese”, “interpreti” (lingue varie), e una sfilza di addetti a lavori manuali che credo si stiano tutti rivalutando. Perché si tende ad aggiustare tutto, a riparare (c’è stata pure una manifestazione in questo settore). Se ora fossi in cerca di lavoro eviterei però un’attività che prevede un intermediario, l’eviterei come il fuoco. L’intermediario assomiglia troppo a uno che ‘rastrella’ i lavori da fare, li distribuisce, riscuote dal cliente, trattiene un’abbondante provvigione e paga chi ha lavorato “a babbo morto”.

Se cercassi lavoro, mi munirei di una schiscetta – possibilmente di metallo come quelle originali con cui potevi anche scaldare il cibo contenuto (il fermaglio che la chiude fa le funzioni di un manico di pentola) – e mi avventurerei ogni mattina verso un lavoro manuale (da cercare in rete). DSCN9633Un lavoro che richieda abilità specifica, ma soprattutto pazienza e buona educazione. Cercherei di apparire (oltre che essere, beninteso) affidabile; credo che l’affidabilità sia una qualità apprezzata che sta un po’ come una specie di ombrello al di sopra di altre capacità più specifiche. In un mondo in cui tutto è molto labile – la parola data ha un valore molto relativo – e non ci si può fidare più manco di chi governa, penso che l’affidabilità sia un valore in crescita (ma non si tratta della parola che di per sé, ancora una volta, non basta!). L’altro aspetto che curerei è l’esercizio di buona educazione e un lessico non troppo ricco (i clienti non capirebbero o diverrebbero sospettosi), ma molto corretto e puntuale, senza (troppe) parolacce. E poi una schiscetta piena ma non stracolma di cose buone per poter sostenere un lavoro efficiente, senza cadute di tono (né di zuccheri!).

La Danza immobile della Finanza

I ricchi, quelli veri, possono essere molto simpatici – soprattutto quando lo sono in misura tale da far parte di un mondo totalmente alieno, in cui tutto avviene diversamente e molto facilmente -, invece il giornalismo prono nei loro confronti è molto meno attraente. Questo mi è venuto in mente, l’altro ieri, leggendo il Corrierone e rammaricandomi sentitamente per un articolo che sta al vino come i racconti di certi ‘reportage’ di guerra scritti in albergo stanno al sangue che si versa nelle battaglie dove si muore.

Così, dopo aver incontrato per la prima volta Piero Palmucci, nell’ormai lontano 1995 (esattamente sabato 24 giugno 1995), agli inizi del suo faticoso e appassionato (e appassionante) lavoro, e dopo averlo reincontrato e frequentato negli anni, fino a diventarne in un certo senso amica, sono rimasta esterrefatta nel “ritrovarlo” (insieme all’uomo che con il suo “senso del Sangiovese”- Giulio Gambelli – l’aveva indirizzato e sostenuto e fatto crescere) raccontato implicitamente come uno che dato “il microclima, il terreno, la posizione, …” ben indovinati, si era ‘ritrovato’ a produrre un vino formidabile…

E’ proprio questo giornalismo che riduce il vino famoso a una perla rara che uno molto facoltoso che fa tutt’altro può semplicemente comprare, perché con i soldi si può fare. E aggiungo per chiarezza: va benissimo che un ricco alieno acquisti questi beni: spesso poi le cose procedono come si deve, perché spesso i ricchi sono anche molto ambiziosi e perfezionisti. Tuttavia il vino non è – da quello che osservo, conosco e so, da qualche decennio – solo una sala d’attesa. E’ lavoro – tanto lavoro – è gente capace che scruta la terra e la capisce, è rischio (quando una grandinata, una stagione storta, un incidente di percorso mettono a repentaglio un’annata), è soprattutto talento e passione; ed è un peccato che chi si mette a raccontare Re Brunello (e non il Re dei vini, perché esistono anche altri reami), si incarti davanti a una montagna di soldi – fino a darne conto al lettore (parliamo di vino?) – anziché davanti alla complessa storia di Piero Palmucci, alle sue visioni e alle sue fatiche e al racconto della scontrosa passione di quell’uomo (Gambelli escluso in quanto c’entra solo con il suo personalissimo rapporto col fare vino di Piero).

E, naturalmente non c’è (ancora nei suoi vini) solo il Palmucci, ma penso ai tanti piccoli viticoltori, alle grandi famiglie che nel vino ci stanno da sempre, e penso anche ai grandi proprietari che sono mille miglia distanti dai primi, ma che della poetica del vino fanno altrettanto parte. E’ la conoscenza di questo variegato mondo che può migliorare la tipologia dei consumi del vino, e nel contempo, la comprensione di quel “lavoro”(!) e del nostro tessuto paesaggistico e perciò produttivo. Non il capitalismo che quel mondo se lo incastona nella corbeille dei successi mondani: e, ribadisco, senza alcuna pre-riserva nei confronti di quel capitalismo (quando ha fatto i soldi facendo). Il vino è importante per il nostro paese; la ricaduta mondana è una spolverata di belletto su un mondo vero, complesso, profondo quanto la terra.

E’ questo giornalismo di avant’ieri, così lontano dal lavoro e così incantato davanti alla ricchezza, che allontana la gente dal (vero) mondo del vino, un mondo importante che, in questo scorcio temporale così strano, con guerre sull’uscio di casa e con la finanza che governa gli umani e tra un po’ ci dirà anche a che ora si fa la pipi, ancora esiste, costituisce un principio di realtà, ed è – posso assicurare: io che di ricchi buoni e cattivi, banali e coltissimi, ne ho conosciuti un bel po’ e da molto vicino – più affascinante del denaro, addirittura irripetibile. Tant’è che chi il denaro ce l’ha, ne spende un po’ per comprarselo. Il mondo del vino è un mondo infinitamente più attraente e dinamico e battagliero e reale della sala d’attesa dorata descritta sul Corsera: si vende la terra, si vendono i muri, si acquistano vigneti e annate, si acquistano persino uomini di talento, ma non si compra la passione, né la fatica di fare, né la poetica del vino. Che sono un po’ le forche sotto cui passano tutti gli uomini (e ovviamente, le tantissime donne!) del mondo del vino, anche quelli che non vanno in prima persona a zappare la vigna. Ma questo la proprietà del Corriere della Sera non lo sa, intenta a seguire la danza immobile della finanza. lavoro finito

Dire, fare, lavorare

Più del bicchiere di vino, mi affascinano i tanti lavori che gli stanno intorno. Intorno e dentro alla vigna, al vino e alla cantina; intorno e dentro all’agricoltura colta. Sono lavori lontani da un’idea (sbagliata) d’Italia che affiora sulle pagine dei giornali e nei discorsi che intesse la politica: impiego pubblico, lavoro ai giovani, sgravi fiscali (!) per dare un lavoro, senza chiedersi quale, con quali competenze e come procurarsi queste ultime.
Sono cresciuta in un’Italia che rifuggiva il lavoro manuale, confondendolo con ‘manovale’ e tacitamente attribuendogli connotati di rozzezza e incultura; dove i giovani sono stati spinti dalle famiglie a mettersi un colletto bianco, dopo che la Fiat aveva indotto i contadini a lasciare le campagne per arruolarli in fabbrica (in una Torino ben diversa da quella del Salone del Libro e anche di Eataly).
Mi domando se il precipitare imminente di quella che ci siamo abituati a chiamare crisi (ma che è una strategia globale di appropriazione indebita di beni e diritti) darà tempo ai giovani di capire la bellezza del lavoro, di quello vero, non del posto (che non c’è più) di lavoro cantato dal film di Ermanno Olmi.
Penso ai giovani di tante età che aspirano a diventare giornalisti, registi, pubblicisti, pubblicitari (ma in realtà venditori di spazi), e che non conoscono il lavoro manuale, anzi magari lo disprezzano pure.
Poi capito in cantina e vedo il “vecchio” e il giovane al lavoro, un lavoro vero e affascinante (e pure ben pagato). Mi viene in mente che a Milano ci sono tanti avvocati quanti nella Francia tutta, che tutti i pizzaioli milanesi sono egiziani. Che gli operai agricoli sono arabi e i più umili lavori della vigna – per produrre vino – spesso li fanno dei musulmani che forse si pongono domande imbarazzanti. Che sono i macedoni a tagliare i boschi e accudirne le legna ….Che han più occhio gli americani dei nativi a promuovere lo stile toscano.
Mi viene in mente anche l’ineffabile bellezza un po’ noiosa della vita in campagna e quanto ci sarebbe da fare per ripopolare – senza enfasi, e neppure annunci – con gente e raffinato (e produttivo) lavoro agricolo (e dintorni) la (quasi ex) bella terra d’Italia. Mentre i due maestri bottai lavorano di gran lena, con competenza e un profondo legame con quello che stanno che stanno facendo,,,in particolarerisultatoolslavoro impegnativoil sapere al lavorobatman è stato quisapere e farelavoro finitomaestri bottai