Provisional, temporary, fleeting

L’urgenza mi è venuta risvegliandomi, sotto un foglio leggero, fragrante dei noti odori di stampa, che sono cambiati nel tempo.  La sensazione di provvisorietà – simultanea a quella di impellente necessità di permanere (per cosa, per chi, non si sa bene) – è stata così acuta, che per riavermi e capire dov’ero (chi ero, per fortuna, continuavo a saperlo), che ora era, e perché provavo quel senso di smarrimento nello spazio e nel tempo, ho dovuto abbarbicarmi alla lettura di un paio di articoli del noto quotidiano sotto le cui pagine mi ero arresa al sonno.

Tornavano in fila, prima il pallido volto di Dell’Utri fotografato in aereo, nel viaggio di ritorno dal Libano, poi DeRita e il titolo del suo libro che voglio leggere, subito dopo, da un altro quotidiano, il titolo “un bulletto a Palazzo Chigi” con le illazioni plausibili su prossime gesta del governo; quindi le nuove tendenze fusion di una creatrice di moda italo-haitiana, poi ancora il libro di Arbasino (che vorrei leggere, ma per ragioni molto diverse da quelle per cui voglio leggere quello di DeRita); intanto mi sfuggiva il titolo (ma anche l’argomento) di un piccolo (solo questo ricordavo) terzo libro che mi voglio procurare, ma insolvevano mostrine e divise degli alti ufficiali della GdF. Pensieri guizzanti che si intrecciavano, appena prima di sparire per sempre, in una breve nuvola di polvere – poof! – : eppure avrei dovuto acchiappare almeno le frange di un cambiamento (che c’entra!: il cambiamento è continuo!) che riuscivo a vedere, fotografare e – se fossi riuscita ad aprire bocca in tempo – a sintetizzare con poche parole in cui inserire un pensiero di speranza.

Sulle parole che ogni tanto mi sfuggono (mentre la necessità di usarle con precisione mi incalza) avevo semi-perso una battaglia poche ore prima. Mentre sedevo a tavola con l’altra nonna della mia più recente nipote, parlavo della California e della luce speciale che la illumina, dandole quell’aria biondo miele che nella mia immaginazione bagna un po’ anche tutto ciò che da lì proviene. Ma le stavo già raccontando (c’eravamo appena conosciute) anche il mio timore del terremoto; poi nel tentativo di smussare un po’ la rozzezza che mi pareva di mostrare (a una che abita a San Francisco vai a dire che quando sei stata in California avevi paura del terremoto!) avevo raccontato anche le mie paure dei vulcani, durante una vacanza a Pantelleria, soggiungendo poi che bisognerebbe accettare il fatto che siamo … e lì mi ero inceppata. L’aggettivo inglese non mi veniva, ma nemmeno riuscivo a formulare nella mia testa l’espressione italiana, che mi si era invece perfettamente materializzata in questo risveglio, un ritorno che mi sembrava piuttosto l’anticamera di uno svanir per sempre …

Mentre cercavo l’aggettivo, annaspando più del solito perché mi mancava anche il corrispettivo in italiano, una specie di molla dentata fatta di luce aveva cominciato a ruotare e vibrare tra me e quello che raccoglievo con la forchetta, nel piatto. Ho uno scotoma, in questo momento – e non sapendo dove piazzare correttamente l’accento, in inglese, ho ripetuto la parola variandolo -; l’ho detto ad alta voce immaginando che fosse ben più complicato comunicare questo disturbo così particolare da descrivere, rispetto all’aggettivo che mi mancava per affermare un sentimento che mi pareva significativo per la nostra conversazione … ah, io invece sono colta spesso da una terribile emicrania oculare, mi ha risposto con naturalezza, e ho capito che aveva capito che cosa mi affliggeva in quel momento. E’ stato allora che John, intuendo quello che mi sforzavo di dire, ha detto che may be ‘provisional’? No, e comunque anche se gli somiglia non è un sinonimo, in questo caso; allora ‘temporary’ – ritenta John, mentre a me scappa da ridere malgrado lo scintillio ossessivo dello scotoma – no, non proprio, noi non siamo ‘temporary’, non è questo, ma io continuo a pensare a quale diavolo sia l’aggettivo italiano che definisce così bene il sentimento che mi sembra importante chiarire alla mia consuocera, che ha un’aria mite e distesa (nonostante il jet lag) e nel frattempo mi porge l’insalata.

Ho la sensazione che sia successo un black out, qualcosa che sta mettendo fine alla mia capacità di pensare, non provo le consuete sensazioni che caratterizzano il sabato, mi sembra di boccheggiare, balbetto, mentre lo scotoma svanisce com’è venuto, ma l’aggettivo continua a mancarmi.

Decidiamo che mi telefoneranno più tardi, per combinare un appuntamento, vado a casa e mi metto a leggere semisdraiata, lasciando libera la mente di spegnere il giorno;  mi addormento così profondamente da svegliarmi senza capire dove sono e che ore sono: provo un senso di ‘provvisorietà’ così acuto, da farmi temere per la mia salute. Poi mi viene da sorridere ritrovando l’aggettivo: provvisorio, siamo provvisori!, eccolo lì in tutta la sua semplicità.

Il telefono suona e mi avvisano che qui vicino piove in modo violento; raspano alla porta è la micia di mia figlia che è venuta a cercarmi: sembra impaziente di rientrare, contrariamente alle scorse sere, quando ha scelto di starsene a vagabondare sui tetti del paese. Esco e mi accorgo del cielo, nero come raramente mi è accaduto di vedere. Sento scariche di energia attraversare l’aria e penso a noi e alla nostra vacillante permanenza.

Restitution Time

RESTITUTION

  1. (nome) a sum of money paid in compensation for loss or injury
  2. (nome) the act of restoring something to its original state
  3. (nome) getting something back again

La radio irrompe nel silenzio della campagna, portando voci e suoni che ci lasciano lo spazio-tempo di visualizzare situazioni, volti, miracoli e disastri. La radio irrompe nei nostri silenzi e nella nostra distrazione e ci costringe a vedere e pensare. Se la voce, se la scelta delle parole, se la sintesi, se il momento (o il tempo) sono giusti, la radio – più di ogni altro mezzo – senza banalizzare con immagini (alle immagini siamo troppo abituati) ci porta dritti dritti al punto.

Questa mattina a radio3 – Prima Pagina -, un programma benemerito, che i giornalisti conduttori tendono ad annacquare (per non irritare troppo i vari padroni dei giornali e il mondo della politica), ha fatto irruzione la voce cantilenante di un veneziano. Un accento – distinguere il veneziano dal veneto! – che ci porta subito accanto a un canale e si sente forte l’odore dell’acqua di laguna; siamo a Venezia, dunque e ci sono le navi mostruose che sovrastano la città e la sua storia, la mettono in mutande e in ginocchio, alla mercé di un qualsiasi turista un po’ fesso (non può che essere un po’ fesso uno che vuole vedere Venezia così!) che la penetra e la sfascia (perché lo spostamento generato da navi gigantesche che passano più volte al giorno non sarà senza conseguenze).

L’accento veneziano non nasconde i sentimenti che squarciano il ritmo consueto di tutti i mali italiani: il MOSE è servito soprattutto a favorire gli interessi di qualcuno che guadagna con un turismo che sfrutta biecamente la città, il MOSE inoltre è stato gestito in modo talmente disonesto che tutta la cordata dei ‘responsabili’ ora è sotto inchiesta e molti sono finiti agli arresti domiciliari. Ma è di tre miliardi di euro il malloppo che manca all’appello, anche se la magistratura indaga, anche se i giornali pubblicano con le consuete oscillazioni, anche se ne parla la radio e si vede in tv.

Il veneziano erompe, con il pensiero dei cittadini onesti, normali. “Questi signori saranno riconosciuti colpevoli, faranno un po’ di carcere o di detenzione ai domiciliari, poi torneranno in circolazione tenendosi il denaro sottratto alla collettività. Ma questo modo di procedere dura da decenni, depredando il nostro paese. Ogni volta si scopre l’ennesimo scandalo, si parla e si scrive, si accusa, si condanna, ma non si sa mai che fine hanno fatto i soldi sottratti; ai cittadini ora interessa solo questo: che venga restituito ciò che è stato rubato”. E il pensiero ovviamente non riguarda solo il MOSE. Perché la somma di tutti i malloppi spariti è una cifra enorme.  

Di certo non sono riuscita a scrivere con la stessa efficacia con cui sono state dette, le frasi che danno corpo al pensiero del signore veneziano, un’idea condivisa da tutti i cittadini esasperati dalle connivenze e dal malaffare, dalla mafiosità pervasiva che inquina il paese, lo immiserisce e lo taglieggia. Restituire il maltolto deve diventare un obiettivo comune da perseguire e da raggiungere. Non interessa tanto il destino dei corrotti, quanto la restituzione del bottino alla collettività derubata.

Per ascoltare questo pensiero, detto molto meglio di come io l’ho scritto, collegarsi a radio3 – primapagina, per sentire in streaming l’efficace intervento del signore di Venezia.