Moretto

Senza allusioni. A un certo punto della mia vita mi sono ritrovata – spero con qualche merito, ma certo con buona fortuna – alla testa di una direzione importante, in un’impresa editoriale che viveva anni di grande sviluppo e di iniziative epocali.

A un certo punto, durante una fase aziendale delicata ebbi una promozione che implicava anche una riorganizzazione profonda della struttura che riferiva a me, con alcune promozioni di quadri e dirigenti – uomini e donne – che avrebbero avuto maggiori responsabilità e ruoli di spicco, non solo all’interno della stessa direzione, ma anche in azienda, proprio grazie alla tipologia della nostra attività che prevedeva alcune autonomie sinergiche e ben organizzate.

C’erano tre uomini che potevano ambire a uno dei ruoli più interessanti; erano tre quadri con qualità precise per i ruoli che ricoprivano, e con caratteristiche generali diverse tra loro. Un aspetto che mi interessava era anche quello dell’affidabilità e della loro trasparenza nei comportamenti, perché si aveva a che fare con un contesto pieno di insidie, anche politiche. Uno dei tre uomini – che chiamerò Pacchia – era molto brillante, aveva indiscusse capacità di ‘visione’, un’ottima cultura ma un curriculum mediocre, che lasciava un po’ perplessi riconoscendogli intelligenza e vivacità intellettuale; era una persona con un passato discontinuo che però mi piaceva nonostante si prendesse qualche volta delle autonomie non sempre opportune.

C’era tensione perché si sapeva che la decisione era imminente: io ero ancora incerta, perché costretta a scegliere dall’interno dell’organico esistente e sapevo che la promozione di uno dei tre sarebbe diventata anche un po’ un giudizio negativo nei confronti degli altri due uomini e non potevo poi permettermi ripercussioni negative sulla qualità del lavoro. Erano anni (gli anni ’80) in cui il sindacato era forte in azienda e tutte le decisioni manageriali venivano messe in discussione, passate al vaglio in modo strumentale e divenivano talvolta occasione di ostruzionismi o malintesi.

Un pomeriggio, nell’imminenza della scelta definitiva per quella promozione, mi chiese un appuntamento il Pacchia, che sapeva di avere un certo ascendente su di me e che non mancava di farmi notare – in modo un po’ ingenuo – la sua cultura ricca e variegata che sovrastava sulle altre. Aveva un atteggiamento non dico intimidatorio, ma era come se immaginasse sé stesso perennemente in groppa a un cavallo bianco.

Il Pacchia venne nel mio ufficio e sedette dall’altra parte della scrivania: con un largo sorriso e gli occhi fissi nei miei, allungò una busta bianca verso di me, che gli stavo di fronte abbarbicata alla scrivania, forse apparendo (più di quanto non fossi nella realtà) sulla difensiva. La busta bianca stava tra di noi e spiccava sul legno della pregiata scrivania Knoll – me la ricordo bene – trattenuta solo dall’indice del Pacchia che facendo mossa di spingerla ulteriormente verso di me disse all’incirca queste parole “se il posto di direttore creativo non è mio, qui ci sono le mie dimissioni”.

Ovviamente non ricordo precisissimamente le parole, ma ho bene in mente la brevità della frase e il tono educato e sobrio ma fermissimo, e poi lo sguardo. Ma ho soprattutto in mente la busta bianca e il pensiero che in quel momento mi attraversava la mente (“e se poi lì dentro c’è un foglio vuoto?”), mentre capivo che il mio essere donna – soprattutto in quei tempi – mi faceva debole agli occhi del Pacchia che giocava sulla sua superiorità, anche di genere.

Quindi allungai la mano e la misi sulla busta bianca, tirandola verso di me e sottraendola da sotto il dito del Pacchia, e dissi: “Accettate”. Una semplice paroletta, poi mi alzai e gli strinsi la mano, ringraziandolo per il lavoro svolto fino ad allora. Dopo non successe proprio niente di drammatico; passato qualche mese mi accorsi che a fronte del risparmio di uno stipendio da quadro, il lavoro andava avanti bene e con piena soddisfazione di tutti. 

Le notizie estive davano il Pacchia al mare, a vendere, in un baracchino molto chic di un luogo alla moda, insieme alla compagna del momento, delizie di stagione a caro prezzo. Senza illusioni. 

Restitution Time

RESTITUTION

  1. (nome) a sum of money paid in compensation for loss or injury
  2. (nome) the act of restoring something to its original state
  3. (nome) getting something back again

La radio irrompe nel silenzio della campagna, portando voci e suoni che ci lasciano lo spazio-tempo di visualizzare situazioni, volti, miracoli e disastri. La radio irrompe nei nostri silenzi e nella nostra distrazione e ci costringe a vedere e pensare. Se la voce, se la scelta delle parole, se la sintesi, se il momento (o il tempo) sono giusti, la radio – più di ogni altro mezzo – senza banalizzare con immagini (alle immagini siamo troppo abituati) ci porta dritti dritti al punto.

Questa mattina a radio3 – Prima Pagina -, un programma benemerito, che i giornalisti conduttori tendono ad annacquare (per non irritare troppo i vari padroni dei giornali e il mondo della politica), ha fatto irruzione la voce cantilenante di un veneziano. Un accento – distinguere il veneziano dal veneto! – che ci porta subito accanto a un canale e si sente forte l’odore dell’acqua di laguna; siamo a Venezia, dunque e ci sono le navi mostruose che sovrastano la città e la sua storia, la mettono in mutande e in ginocchio, alla mercé di un qualsiasi turista un po’ fesso (non può che essere un po’ fesso uno che vuole vedere Venezia così!) che la penetra e la sfascia (perché lo spostamento generato da navi gigantesche che passano più volte al giorno non sarà senza conseguenze).

L’accento veneziano non nasconde i sentimenti che squarciano il ritmo consueto di tutti i mali italiani: il MOSE è servito soprattutto a favorire gli interessi di qualcuno che guadagna con un turismo che sfrutta biecamente la città, il MOSE inoltre è stato gestito in modo talmente disonesto che tutta la cordata dei ‘responsabili’ ora è sotto inchiesta e molti sono finiti agli arresti domiciliari. Ma è di tre miliardi di euro il malloppo che manca all’appello, anche se la magistratura indaga, anche se i giornali pubblicano con le consuete oscillazioni, anche se ne parla la radio e si vede in tv.

Il veneziano erompe, con il pensiero dei cittadini onesti, normali. “Questi signori saranno riconosciuti colpevoli, faranno un po’ di carcere o di detenzione ai domiciliari, poi torneranno in circolazione tenendosi il denaro sottratto alla collettività. Ma questo modo di procedere dura da decenni, depredando il nostro paese. Ogni volta si scopre l’ennesimo scandalo, si parla e si scrive, si accusa, si condanna, ma non si sa mai che fine hanno fatto i soldi sottratti; ai cittadini ora interessa solo questo: che venga restituito ciò che è stato rubato”. E il pensiero ovviamente non riguarda solo il MOSE. Perché la somma di tutti i malloppi spariti è una cifra enorme.  

Di certo non sono riuscita a scrivere con la stessa efficacia con cui sono state dette, le frasi che danno corpo al pensiero del signore veneziano, un’idea condivisa da tutti i cittadini esasperati dalle connivenze e dal malaffare, dalla mafiosità pervasiva che inquina il paese, lo immiserisce e lo taglieggia. Restituire il maltolto deve diventare un obiettivo comune da perseguire e da raggiungere. Non interessa tanto il destino dei corrotti, quanto la restituzione del bottino alla collettività derubata.

Per ascoltare questo pensiero, detto molto meglio di come io l’ho scritto, collegarsi a radio3 – primapagina, per sentire in streaming l’efficace intervento del signore di Venezia.