Mi chiamavano cuore di burro

Cara mamma l’ho proprio pensato qualche decina di minuti fa, quando sono ritornata sui miei passi, verso il bar dove ho appena preso un caffè, per pagare un succo di frutta a un tale a cui ogni tanto lo offro, come ho visto fare da qualche persona di qui. Lui stava arrancando per strada, veniva verso il bar e ho pensato alla sua delusione nel vedermi salire in auto per andare via…
Che mi chiamavano così mi è tornato in mente proprio in quel momento, ma me ne ero già ricordata anche ieri, parlando dei tempi in cui lavoravo in azienda: io sono quasi sempre stata ‘debole’ nei confronti di chi mi sembrava debole, e questo nel mondo del lavoro, di solito, non è consentito, non lo era neanche allora e tanto meno lo è di questi tempi. Te ne sei andata – ventiquattro anni fa – ti sei persa quindi questo scivolare in un mondo cane che assomiglia sempre di più a un racconto di Ray Bradbury. Cara mamma, allora mi chiamavano ‘cuore di burro’ forse perché pareva che fossi un po’ troppo cedevole, ma erano ancora tempi in cui non era indispensabile essere carogne o semplicemente mostrare i muscoli per fare carriera, tanto è vero che io l’ho fatta col mio appariscente cuore di burro; un comportamento e un’allure che ho dismesso solo una volta, quando un uomo davvero brillante e ambizioso mi ha sfidata, trattandomi “come una donna”. So che se tu fossi qui capiresti il senso dell’espressione che sto usando, perché proprio tu mi hai inculcato quotidianamente un paio di concetti: non farti mai mantenere da un uomo e non lasciare mai che essere donna ti metta in una condizione di subalternità.

Cara mamma i tempi che corrono sono molto diversi da quelli che tu hai vissuto, quando mi predicavi dignità e mi raccomandavi di sciacquare i contenitori prima di buttarli (per rispetto di chi raccoglieva l’immondizia), ma sospetto che ‘tenere botta’ davanti alla grettezza in cui mi capita di inciampare quasi quotidianamente, soprattutto nella smagliante campagna in cui saltuariamente ancora abito, sia sempre utile, e forse addirittura un modo per distinguersi. Non solo perché ci sono i figli e tre piccine che devono crescere pensando bei pensieri, ma anche perché scopro che ci sono ancora giovani e meno giovani, in circolazione, che vorrebbero mettere a frutto la loro intelligenza e i loro sguardi su questi paesaggi. E sono più bravi e hanno idee e voglia di lavorare per vederle crescere e affermarsi.
Cara mamma che ne dici?, mica avrò ancora quel cuore di burro?

Poche illusioni e nessun idraulico

Un piccolo carnet e una piccola penna, o una matita, ma anche una biro; anzi, una biro può disegnare meraviglie, e farlo in un modo così rozzo che chi guarda il disegno non potrà fare a meno di considerare quella rozzezza una cosa molto raffinata. E può anche essere vero. I miracoli del disegno – quando si disegna davvero, senza remore, senza paura, lasciando che la mano segua quello che il braccio le segnala, e il braccio e la spalla e il collo lasciano che fuoriesca dal loro tremito quello che vaga per la mente, vagamente – sono autentici miracoli. Anzi, non lo sono; sono pensieri e paure che vengono a galla e se li lasci uscire a girellare sul foglio possono diventare segni piacevoli, anche emozionanti … basta lasciarli uscire per quello che sono, senza pretendere troppo da loro (dai risultati sulla carta) o da sé stessi. Senza illudersi di essere artisti, ammesso che pensarsi artisti, in qualsiasi arte, possa essere un pensiero lusinghiero.
Conosco famiglie o clan i cui membri sono tutti artisti – registi, poeti, fotografi, attori, modelli, scultori, pittori, performer, e ovviamente scrittori -, neanche un bravo idraulico; tutto crolla quando un tubo perde. Nessuno che si illuda di essere un idraulico perfettamente performante. Quando lavoravo in un’agenzia pubblicitaria c’era gente che mi guardava con sospetto, perché pronunciavo spesso la parola mercato, che allora era ‘proibita’, perché aveva a che fare con i soldi e i soldi non avevano (in apparenza) niente a che vedere con la creatività e comunque era meglio non nominarli.
Mi sono resa conto che tutt’ora essere idraulico – o peggio!, ragioniere – è qualcosa di cui in certi gruppi ci si vergogna un po’; anzi, ci si vergognerebbe, perché nessuno si sogna anche lontanamente di essere idraulico. Al massimo si può sognare di essere falegname. Penso che molti credano che essere idraulico (o ragioniere) non sia creativo: e si sa che molti (tutti) vorrebbero essere creativi.
Quando disegno io mi sento un po’ idraulico: perché metto a posto le cose, naturalmente a modo mio. Un tratto dopo l’altro, incrocio i segni come mi scendono dalle spalle, giù per il collo, prima, e poi nel braccio e nel polso che si flette veloce, e poi le dita e finalmente la pennina e la carta. Non importa niente: quello che viene, viene. Tanto si sa già che sarà bellissimo, e armonioso. Perché l’hai lasciato uscire, così com’era, da un misterioso orifizio della mente. E poi ti senti bene, svanisce tutto ciò che era oscuro e angosciante; tutto s’illumina e le cose tornano al loro posto. E anche se non è così, il tuo disegno lo fa sembrare. Per questo tutti dovrebbero disegnare, e il mondo sarebbe meno inquieto, perché molti smetterebbero di pensare che bisogna essere creativi. Anzi, smetterebbero di pensare e basta.

Io non so chi sono io

Di solito è meglio scrivere di mattina: resta la traccia dei sogni e poi qualcosa di fresco affiora tra una parola e l’altra. Al mattino folate di parole mi frullano intorno e non sempre riesco a fermarle; anche se raccomando di restare: c’è troppo vento, troppa luce, troppo tutto. Il mattino è il momento più bello, ma non subito: dapprima può sembrarti difficile, ma se ti agiti un po’, ti scuoti e ti riscuoti e ti pensi come un contenitore – non solo succhi gastrici, saliva e tutto il resto -, ma come una fiala, una fiasca, in cui far stare o mettere insieme a quello che già c’è, tutto quello che arriva, con il tempo e la pioggia o a folate, appunto, parole, sabbia, foglie, pensieri, gocciole e prima colazione.

Ma prima è meglio muoversi, uscire, guardarsi intorno; finire di disintontirsi e incominciare a stupirsi; non sapere se hai “le ali ai piedi” e pensare di stare attenta a non prendere una storta (non c’è mica la mia fisio a miracolarmi, qui). Invece il ritmo non include la scrittura; scrivo da seduta e non va bene: il mattino vuole movimento, solo muovendo le gambe si mette in moto la testa, lentamente (ma invece sembra che tutto accada così in fretta) le idee rientrano negli appositi alloggiamenti e si mettono quiete, spesso cambiano significato, a volte impallidiscono, altre volte addirittura scompaiono senza lasciare il minimo segno. Tutto sembra normale, ma poi ti trovi a camminare e guardi la gente in controluce e vedi come il sole mangia i contorni e li fa baluginare, affondi in questa visione e ti viene da pensare se gli altri ti vedono come tu vedi loro. E magari pensano a chi sei e si raccontano delle storie, come fai tu. Di mattino, prendendo a prestito una vita.