Un’altra Abbazia, un altro tempo

Quando ho letto della trasferta in Abbazia, di questo strano governo, mi son venute in mente delle immagini – piuttosto buffe, nonostante tutto – di matrimoni in crisi, con coppie che fanno un viaggetto per tentare di superare la noia (o il disgusto?) dell’unione che non funziona, alla ricerca di un diversivo improbabile, per sanare contrasti insanabili.

Conosco i luoghi, che hanno un loro charme e poi sono politicamente corretti; pare che la Toscana abbia una funzione taumaturgica, o almeno tale dote le viene attribuita. Ci sono cose, però che ho trovato ‘disturbanti’, a cominciare dal tone of voice con cui si esprime il luogo dell’auspicabile miracolo.

Cominciamo con il nome – Abbazia -. Mi pare che quel luogo non lo sia più, ma che sia (o aspiri a essere) una sede per convegni o per attività residenziali (mi ritorna in mente il programma europeo chiamato “Convention Bureau“, finanziato dall’EU, e un po’ maliziosamente – lo ammetto – mi sono chiesta se la proprietà vi ha attinto).

Perché mi faccio queste domande? Semplice: sento blaterare quotidianamente di turismo e benefici economici di cui esso sarebbe foriero; poi osservo gli arredi, le ambientazioni, il ‘restauro’ (ristrutturazione?) di Spineta e ci ritrovo le stesse banalizzazioni che mi è capitato di incontrare nei luoghi la cui gestione era finita nel giro della politica. Dovunque la stessa assenza di visione – né carne, né pesce -, la stessa incapacità di essere altro, se non un luogo da parvenu, esattamente come gli ospiti pervenuti, pur prendendo atto delle ovvie eccezioni.

Questi pensieri vaganti mi hanno riportato il ricordo di ben altri anni e di altre crisi – che parevano meno fasulle e spudorate di quella che ci stanno facendo vivere -; i primi anni settanta, quelli della crisi energetica, quando – forse grazie all’età giovane – tutto sembrava più trasparente e meno asimmetrico.

Allora lavoravo in pubblicità, che allora era un settore brillante, dove si sfornavano idee (ma non a casaccio), e già allora l’Italia era un paese arretrato, rispetto alla comunicazione, soprattutto per assenza di cultura, di istruzione e di formazione professionale. Chi aveva la fortuna di lavorare in un ambiente internazionale, acquisiva più strumenti specifici e generali, e poteva toccare con mano la situazione di miopia generale in cui versava l’imprenditoria (anestetizzata da finanziamenti pubblici e da intrallazzi con la politica).

Una delle circostanze in cui – da italiana – dovetti fare i conti con la mentalità paesana del nostro paese e l’urgenza di mettersi a lavorare diversamente, fu proprio durante un seminario che Philips – la multinazionale di cui ero uno dei direttori creativi in un’agenzia europea – organizzò, per alzare il livello di integrazione delle politiche di marketing tra le aziende (conglomerate) del proprio gruppo.

Innanzi tutto la sede: un’Abbazia cistercense – vera e funzionante (ricordo la grande biblioteca) – l’Abbazia di Royaumont, fondata da San Luigi, condotta da una fondazione creata da una coppia di mecenati (Isabel e Henry Gouin) per promuovere il progresso delle scienze umane; sostenuta da eminenti personalità che lo facevano per passione civile e pro bono (!).

Poi gli ambienti e l’accoglienza: monacali ed efficienti. La mensa: o mangi la minestra o salti anche se non dalla finestra. Infine il lavoro: sereno e ben ritmato.

Che c’entra questo scarno ricordo autobiografico con lo “spogliatoio” del governo? Poco, anzi niente. Quello che mi turba è toccare la pochezza di questa gita fuori porta con litigio: organizzata per acquisire sintonia(?), conoscenza reciproca(?), oppure  – in mancanza di ben altre concretezze pure urgenti – per far fare due chiacchiere al bar sport (di berlusconiana memoria) ai poveri cittadini che non sanno più per che santo voteranno?

Nel frattempo i marines sono sbarcati a Sigonella e mi pare che stia per alzarsi il sipario su un’ulteriore tragicommedia.