Ritrovare il nonno e la memoria

DSCN9017Non conosco la sua data di nascita, non so dove sia sepolto. La leggenda di famiglia narra che fosse soprattutto un gran giocatore, e che si fosse giocato tutto, ma soprattutto la dote di mia nonna – nata borghese e benestante e madre dei suoi quattordici figli: dodici maschi e due sole femmine, mia madre e la zia che l’ha aiutata ad allevarmi – .

L’ho incontrato un’unica volta, a una riunione di famiglia. La parte francese della mia famiglia, la più numerosa e prolifica ma anche la più desiderosa di ritrovare le radici. Eravamo tutti cugini primi, riuniti intorno a un tavolo di ristorante nell’antichissimo anfiteatro naturale de La Brigue, dopo aver vagabondato nei dintorni parlando di nonni e bisnonni e delle loro – presunte – gesta. Fuori, sui terrazzamenti millenari, le vigne della mia prima infanzia promettevano bene.

Ho letto, sul libro scritto da un vecchio amico giornalista, una riflessione sulla memoria delle proprie origini. Ora non mi vengono le parole esatte, né ritrovo il libro, ma ricordo bene, invece, che egli scriveva dell’importanza di ricordare chi è venuto prima di noi: non solo i genitori e i nonni, ma gli antenati, per capire meglio, per conoscersi meglio. E’ una lettura di almeno vent’anni fa e avevo ancora la possibilità di incontrare i miei antenati e la storia del loro tragitto nella vita e nei luoghi; molti vecchi erano ancora vivi e avevo (e ho sempre) memoria dei loro racconti. Da parte di mio padre e di mia madre mi sono rimasti documenti e scritti personali, certificati – una prima comunione a Goeschenen nel 1880, una Médaille de Sainte Hélène conferita da Napoleone III al trisavolo Pierre nel 1821, foto e documenti della nonna materna e di quella paterna -, ma lui non lo conoscevo. Eppure era il nonno, morto prematuramente, in una sera d’inverno, lasciando vedova mia nonna, incinta del quattordicesimo figlio a cinquant’anni. Tornato a casa dopo una bisboccia, era rimasto all’addiaccio sul calesse tutta la notte, forse ubriaco, anche se non sta bene dirlo, perché dopotutto era il nonno. Nessuno ne parlava, né gli zii né mia madre, soprattutto non me ne ha mai parlato mia nonna, che deve aver vissuto una vedovanza durissima, di lavoro e accudimenti, per crescere tutti quei figlioli, con la dote sfumata insieme al marito. Di lei mi è rimasta una spilla di filigrana con un lapislazzulo striato, che faceva parte del suo modo di vestire e che ha lasciato a mia madre, negli ultimi anni di vita.

Ma il nonno non c’è, non c’è mai stato, non parole e nemmeno immagini, fino a quel giorno di maggio di pochi anni fa, a La Brigue, quando mia cugina Christine e suo marito Lucien hanno tirato fuori la foto color seppia, vecchia ma intatta, e ho riconosciuto il volto di mia madre (fronte alta e sguardo tra severo e riservato) nell’uomo che usciva dallo sfondo scuro con una giacca e una cravatta annodata spavaldamente sulla camicia candida che sarebbe piaciuta a Gianfranco Ferrè.

Tutti i cugini francesi la conoscevano bene quella foto – Christine l’aveva avuta dal padre, uno dei pochi zii scampati dalla guerra – ma io non l’avevo mai vista prima. Ormai eravamo alla fine dei tre giorni trascorsi insieme e chissà quando ci saremmo ritrovati; Lucien mi stava raccontando la ‘numerazione’ SOSA che serve per costruire  un albero genealogico, mio cugino Jean Pierre ha tirato fuori il galoubet du tambourin e si è messo a suonare un’aria provenzale. Intorno al tavolo scioglievano la lingua a mio beneficio, cugini e cugine, con motti e ricordi; il vino diluiva rancori e rimpianti e io disegnavo, copiando con la foto, tre generazioni di sguardi famigliari, mentre una cugina vecchissima a capotavola si chiedeva, a mio beneficio: les chaussettes de l’archiduchesse sont elles seches?    

Tutti i fagiolini della mia vita

DSCN1037Il mio primo ricordo di bimba piccolissima (mi raccontavano che avevo due anni) è legato a una bomba e a uno spezzone incendiario. Ma nelle immagini ci sono anche il mio cane volpino bianco, mia zia e il grande orto in cui l’avevo accompagnata a raccogliere i fagiolini. Nonostante la violenza dello scoppio, le lacrime di sgomento attraverso cui vedevo la scena, i fagiolini mi piacciono molto – lessati al punto giusto, conditi ancora tiepidi con una lacrima (!) d’aceto e un filo d’olio: in questo caso quello ligure sarebbe perfetto. Non so se e quanto i fagiolini mi piacessero prima di quel momento spaventoso, ma hanno continuato a piacermi, anche se ogni volta la mente correva a quello spezzone incendiario, che poi rimase sull’uscio del ‘mas’ di mia nonna e veniva usato per pulire le scarpe dal fango prima di togliersele … Ho sempre interpretato quel gesto come una specie di ‘vendetta’ nei confronti della guerra e dei suoi orrori: un gesto di disprezzo nei confronti di un micidiale pezzo d’acciaio (lanciato dalle truppe di liberazione, su un pezzo di Francia occupata) che avrebbe potuto trasformare la zia e me stessa in danni collaterali. Invece eccomi qui a scriverne, non senza un brivido d’orrore residuo, per quell’orrore che ha lasciato tracce indelebili nella mia memoria.

I fagiolini si sono affacciati qualche altra volta nella mia vita, ma in modo più sottile e decisamente più vitale. Ho un ricordo preciso di aver raccolto una grande quantità di fagiolini – ma non ricordo dove fosse situato il campo in cui crescevano – insieme a un uomo intensamente amato. Un altro appuntamento con il fagiolino è avvenuto a Chicago, ed è legato a un momento interessante e ricco del mio lavoro: un momento di idee che crescevano e si inanellavano una sull’altra, proprio come una pianta di fagiolo che si arrampica, fiorisce, produce i suoi frutti e dondola nell’aria, guardandosi intorno. I fagiolini, a Chicago, li ho mangiati da sola in un ristorante alla moda, alla fine di un pomeriggio di lavoro … ma erano terribili, fritti direttamente, senza sbollentature; fagiolini sacrileghi contrabbandati per french cuisine. A Chicago meglio passare una serata bevendo Goose Island Beer accompagnando un piatto da carnivori.

Il mio pensiero è tornato ai fagiolini della mia vita recentemente, andando a coglierne un cesto- qualche giorno fa – nell’orto di Fonterenza; in quel momento mi son tornati in mente lo spezzone incendiario, il mio cane bianco, mia zia il grande campo verde con i filari di fagiolini pronti da cogliere; in quel momento mi è tornato fortissimo il ricordo del  rombo del cacciabombardiere che volava basso sulle nostre teste. Invece era la moto di John, il padre della mia seconda nipotina, che tornava a casa. Il che fa una bella differenza, tra fagiolino e fagiolino