Io sono qui e provo a guardare più in là

DSCN9764Questa gallina non è un pollo. Non è un pollo a cui io possa guardare come facevo da bimba con quelli di mia nonna. Sono una che prova a guardare “più in là”, non riuscendoci sempre però. Ma ogni tanto succede qualcosa che aiuta – che dà quella spintarella che fa ruzzolare i tuoi pensieri esitanti e incerti – a vedere quello che magari hai sotto gli occhi. Da quelle galline (tante, ruzzolanti e bianche, sul prato verde di mia nonna) a questa che ho fotografato l’altro ieri e di cui conosco razza, abitudini e vocazioni ne son successe di cose. Ma di tutto quello che è successo, non tutti si sono (ci siamo) accorti.

– Banale – direte, ed è vero, lo ammetto. Ma quei polli bianchi della nonna mi tornano in mente perché oggi sul Corriere della Sera ho letto l’articolo di Gian Antonio Stella sul primo traforo del Gottardo, quello realizzato della Societè du grand Tunnel du Gothard dove il mio bisnonno faceva il contabile, a Goeschenen, e sono andata a riguardare il documento che certifica l’avvenuta cresima di mia nonna, il 4 aprile 1880, proprio a Goeschenen, appunto. Perché la nonna alle galline ci era arrivata molti anni dopo. Dopo aver sposato, a diciott’anni, il nonno (un bellissimo uomo appare dalla foto, ma un giocatore incallito che mandò in rovina la famiglia), dopo la sparizione della propria dote, dopo un numero ragguardevole di figli, alcune guerre, la perdita di uno status ‘borghese’ che non riesco a immaginare, ma che è ben evocato dalla raffinatezza del suo ventaglio di debuttante. Costretta dagli eventi la donna minuta e severa che mi faceva le trecce da bambina, capace di inchiodare al rispetto i tedeschi che avevano installato una contraerea accanto alla sua fattoria (e ai suoi polli), era riuscita a crescere e proteggere figli e nipoti con la forza di volontà e molta energia.

I polli della nonna venivano allevati in un mondo in guerra, la seconda guerra mondiale, un globo i cui abitanti non raggiungevano i due miliardi (vado a memoria): La gallina qui sopra razzola tra le salvie, in un mondo che, pur guardandosi, non riesce a vedere sé stesso, abitato da oltre sette miliardi di esseri umani.

Che questo mondo – cioè noi – non abbia le idee chiare lo sapevo già: lo sappiamo tutti. Ma non abbiamo tempo di pensarci, cioè non sappiamo che dovremmo farlo. Per questo, accendendo la radio – ieri mattina – e ascoltando un paio di frasi, mi sono  fermata, ho spento il motore e mi sono messa ad ascoltare e a prendere qualche appunto.

Ho saputo, ho capito, ascoltandolo dalla voce viva di un geografo, che la “mappa del mondo” così come l’abbiamo interiorizzata tutti noi che ci viviamo è qualcosa che non corrisponde a un’odierna realtà necessaria. Quella mappa non è la copia del mondo com’è, ma è il mondo che abbiamo in testa una copia della nostra mappa. Avessi mai dubitato dell’importanza strategica della geografia (infatti l’hanno eliminata dai programmi scolastici!) ascoltando l’intervento alla radio del geografo Franco Farinelli sarei stata immediatamente rassicurata. Farinelli, da non confondere con Farinetti, al massimo con Farinata degli Uberti, citato da Dante come un fiorentino tra coloro ch’a ben far puoser li ‘ngegni, oppure a una delle ‘farinate’ squisite che costellano i luoghi della cucina povera nostrana. Perché il Farinelli geografo e umanista, che ho ascoltato ieri, spiegava anche – sempre alla radio – che la globalizzazione vera fa emergere i valori locali rispetto alla (sempiterna e retorica) valorizzazione della quantità.

“Ogni americano che arriva in una delle nostre ‘vecchie’ città va preso per mano, condotto nel centro e fatto inginocchiare (affinché conosca e interiorizzi la sacralità dei luoghi)”, così ha pure detto il Farinelli, che ho anche ascoltato mentre diceva che “la geografia è immaginata come se tutta l’umanità fosse immobile”. Invece gli uomini si sono sempre mossi, si muovono, eccome, e anche l’Italia ora ne sa qualcosa.

Tra i polli di mia nonna e la gallina che io – nonna a mia volta – ho fotografato l’altro ieri, il mondo è cresciuto di sei miliardi di persone e finalmente ho ascoltato qualcuno che mi ha fatto capire che non avevo capito che per capire devo cambiare il mio sguardo.