Ti odio

Suggestivo, fiabesco, evocativo, poetico, avvolgente, commovente, mirabile o mirabolante, cinematografico, leggendario, superbo, classico, mitico, dolcissimo, inebriante, epico, sublime, bellissimo, scabro, selvaggio, ricco, sorprendente, nebbioso, misterioso, mutevole, luminoso o lucente, splendido, rasserenante, sensuale, romantico, antico, coinvolgente, autunnale (primaverile, invernale; mai estivo), eterno, antropizzato (poco o molto, o scarsamente), vasto, vertiginoso, aulico, …DSCN7761Un paesaggio può essere tutto questo e molto di più (o di meno): basta chiudere in una parola l’emozione che produce nella nostra mente, descrivere l’effetto sul nostro umore. Basta lasciarsi andare alla nostra lingua, magari riconoscere le nostre emozioni nelle parole di un autore amato, o particolarmente efficace. Non ci vuole molto, solo un po’ di sensibilità e l’allenamento a vedere e a cogliere il bello (o il brutto!). Tutto si può dire di un paesaggio, ma proibirei, anzi sanzionerei l’uso dell’orrendo, fasullo e provincialoide “mozzafiato”. Un aggettivo finto, usato a ruota libera, per sentito dire, senza senso. Un aggettivo che odio per la sua inadeguatezza e incapacità di raccontare le nostre emozioni.

Un Albero a Camme mi cambia la Vita

 

DSCN0442La camma è un elemento di forma eccentrica “ancorato” su un asse, viene impiegato in innumerevoli cinematismi, l’impiego più conosciuto è nei motori a scoppio, dove prende il nome di albero a camme o asse a camme.

La camma è una metafora, naturalmente; di questi tempi è un’immagine che mi torna spesso in mente. Quando ero giovane, ero appassionata di auto e la funzione dell’eccentricità delle camme l’avevo capita intuitivamente: tutt’ora mi resta difficile tradurla in parole, ma mi ha sempre fatto venire in mente quel momento particolare in cui si “acquisisce in tutta chiarezza” un cambiamento o qualcosa che è divenuto; come l’insolvenza nel cinema, quando si mette a fuoco un’immagine e il racconto diventa improvvisamente chiaro.

Oppure quando la luce cambia, in modo importante, delineando qualcosa in modo finalmente chiaro. Ecco, per me la “camma” è un po’ l’emblema di questo momento storico, in cui i valori si stanno muovendo, come tessere di un mosaico che rappresentava un’immagine e che spostate in modo radicale vadano a formarne un’altra. Un’altra immagine non solo di forma diversa dalla precedente, ma di genere, categoria e finanche racconto diversi. Qualche volta solo ribaltati (quello che valeva non vale più, quello che veniva lasciato ora viene ricercato), ma qualche altra volta, il risultato dello spostamento è addirittura foriero di fine di qualcosa o di inizio di qualche cosa.

Ho provato questa sensazione molto spesso in questi ultimi tempi, ma in alcune circostanze l’ho proprio “toccata con mano”.

Mi è successo di recente, leggendo due o tre articoli – sulla Lettura – relativi all’agricoltura; in uno di questi si constatava l’assenza del contesto agricolo nel panorama della narrativa nostrana e si azzardava una ragione di questa assenza, quasi un’assenza di tipo culturale. A fianco del primo, un altro articolo presentava un “grattacielo fattoria”, come una prossima soluzione alle necessità alimentari di un’umanità cresciuta a dismisura, fuori controllo; come corollario si criticava il modello “bucolico” a cui si rifà l’agricoltura biodinamica, perché la terra (si diceva a un certo punto) è piena di infestanti, di microrganismi nocivi, insomma di porcherie da cui ci salva solo la chimica. Ho capito che l’agricoltura è stata acquisita finalmente come tema centrale; dopo essere stata ai margini di chiacchiere da enoteca, ora diventa prepotentemente protagonista e ci si accorge che la terra … ci sta letteralmente per mancare sotto i piedi. La terra non si produce, non si sintetizza, non si inventa. Vedo nero, a questo proposito, anche perché stiamo leggendo sempre più frequentemente di ‘land grabbing’. 

Ho visto in un’altra luce le camminate nella frescura in mezzo alle vigne o accanto ai boschi; mi domando quando la pressione demografica che accende la cronaca, la politica, lo scenario internazionale, si avvertirà da vicino anche qui.

La condizione di ‘esilio’ campestre, di isolamento nel bello, di ricercata solitudine (come non unica beatitudine), di aria, spazio, colori, stagioni, sole-pioggia, natura sentita fisicamente, tutto ciò mi è sembrato per un attimo un privilegio pazzesco. Passato quell’attimo, pensavo che fosse stato un mio momento di ‘fuga in avanti’, invece mi sono accorta di essere entrata in un’altra dimensione: sono cambiate le proporzioni dell’esistere (di quello mio, almeno). Quelli che si intendono di alberi a camme, forse sanno che a cosa alludo; gli altri penseranno che sono impazzita definitivamente.

Cenerentole senza principe, ma con marito regolamentare

Stavo rileggendo qualcosa che avevo scritto mesi fa e nel testo, parlando di agricoltura, ritrovo la definizione “Cenerentola senza principe“. Il primo pensiero è stato che davvero l’agricoltura è “senza principe”; subito dopo però ho fatto caso all’espressione usata, che dà per scontata l’urgenza di un “principe” per poter essere degnamente Cenerentola.

Per quanto riguarda la fiaba di Perrault è vero, ma se dimentico la necessità avuta a suo tempo di sottolineare che l’agricoltura – così strategica nel nostro paese – manca dell’attenzione e di strategie consapevoli, da parte di chi prende le macro-decisioni, ho fatto subito mentalmente autocritica per la metafora usata; così datata, così superata già durante la mia infanzia. Una metafora che avrebbe lasciato perplessa mia madre – il cui mantra era “Silvana sii indipendente e ricordati di non farti mai mantenere da un uomo” – e che per il mio sesto compleanno mi aveva regalato un libro di fiabe, edito da Marzocco (Firenze), che sembravano scritte apposta per rompere tutti gli schemi dell’educazione al femminile.

Questa attenzione così specifica e se vogliamo sottile (la storia di Cenerentola ha anche alimentato altre suggestioni), mi è venuta leggendo ciò che ha scritto Ida Dominijanni (de il Manifesto), osservando la storia della deportazione di Alma Shalabayeva, che durante la drammatica vicenda è stata costantemente trattata (barbaramente) in quanto moglie, dando per scontato che il suo destino si giocasse di riflesso a quello di un marito; “in altre parole la signora Shalabayeva non appartiene a sé stessa, ma a scelta, al marito o allo stato kazaco“.

Ehi – ho pensato – in fondo quelli che “governano” l’Italia sono molto simili al pirla che l’altra sera ha assalito la nostra amica americana. E sono molto lontani dagli altri paesani – rannuvolati e intristiti dalla storiaccia che ci è capitata tra capo e collo – che aspettano il ritorno dell’amica americana a cui si vogliono presentare le indispensabili scuse!