Kako di Capodanno

DSCN9696Come festeggiare questa ricorrenza senza farlo? Ecco, questo è il kako con cui festeggio il capodanno. Una festa che non amo e che subisco adottando un profilo basso e cercando di mangiare poco – cosa che per fortuna mi riesce abbastanza bene – . Quest’anno, con una gamba ingessata sono automaticamente esentata dai brindisi e dalle feste; anzi suscito pure un po’ di compassione, o almeno mi illudo di riuscirci …

E il kako che sto per mangiare è una vera chicca di bontà, è l’ultimo rimasto di una dozzina di frutti che ho colto e lasciato maturare in casa: una festa per gli occhi. Il kako viene dalla Costaccia, dall’albero dei Fagnani – c’erano una volta Lola, Primo e suo fratello; e prima ancora c’erano Rosa e Armando: ora c’è Luciano che l’ha ereditata, insieme alla mano per la terra e al gusto per coltivarla – ed è tutto un fluire di ricordi e associazioni suscitati da questo frutto così rustico e sottovalutato.

Il Luciano l’ho incontrato ieri, alla bottega del paese e gli ho fatto i complimenti per questi frutti così buoni e lui – pur guardando il gesso che mi fa zoppicare – mi ha detto di andare a raccogliere gli ultimi, prima che finisca la stagione.

Il kako, come i gatti, divide il mondo in due. Ci sono quelli a cui piace e quelli contro che gli trovano ogni difetto possibile. A me ricorda l’infanzia e un momento preciso dell’anno, quando l’autunno era inoltrato e l’ortolano da cui andava mia madre proponeva questi frutti polposi e la mamma mi spiegava come mangiarli evitando le parti opache che allappano: anche oggi seguirò i suoi consigli, ma la mamma avrebbe centodieci anni, se vivesse ancora. Anche per questo il capodanno non mi piace.

Perché non tutti sono come Gillo Dorfles che sta trasferendo sé stesso nei suoi dipinti e nei suoi scritti, quasi una transumanza in cui si smaterializza sul filo delle idee e riprende corpo e sostanza in un quadro. Chissà se a Dorfles piacciono i kaki.

Io ho imparato a condirli con un sorso di buon Cognac o con un passito, poi li cospargo di semi e diventano un dessert buonissimo. Ma il kako qui sopra me lo mangio liscio, così com’è, mentre penso all’albero e ai suoi bei colori. L’albero stracarico, non molti anni fa, davanti alla Costaccia, in una giornata di neve e di gelo era l’unica nota di colore nel paesaggio segnato dai filari neri delle vigne spoglie e tutti gli uccelli dei dintorni erano accorsi a cibarsi dei frutti arancione …

Ciò che resta del Maiale

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Le lenticchie sono una delle mie manie; ogni volta che le mangio – cioè molto spesso – provo un’inaudita sensazione di benessere, un sentimento che parrebbe avvalorare il loro carattere simbolico. Infatti le lenticchie hanno una reputazione benaugurante in quanto porterebbero denaro, o addirittura benessere – cioè qualcosa che va ben al di là del valsente -.

A MIlano, le lenticchie sono un classico di Capodanno: te le offrono con lo zampone o con il cotechino; ma nonostante io sia consapevole delle ottime intenzioni dell’anfitrione, ogni volta che mi sono trovata di fronte alle lenticchie di Capodanno, accompagnate da  “ciò che resta del maiale”, penso con una fitta di nostalgia al mio cucchiaio – quasi quotidiano – di lenticchie bollite che accompagnano spesso una pasta corta condita con un filo d’olio crudo (talvolta, sempre crudo e a tocchetti, aggiungo al mio frugale piatto un pomodoro nostrano, ben maturo).

Mangio il prosciutto, ma sempre più raramente, e ogni volta che accade non riesco però a liberarmi del ricordo del maiale come creatura viva. Jonathan Safran Foer e il suo libro toccante e disturbante – “Se niente importa, perché mangiamo gli animali?” non sono stati il ‘clic’ che mi ha deviato dal regime onnivoro in cui sono cresciuta, perché erano ormai anni che la carne nel piatto non era più solo un manicaretto, ma era anche cosa morta.

In questo mio allontanamento dalla carne insolvono con decisione le lenticchie, insieme ad altri legumi, come ceci, fagioli, cicerchia e piselli, ma le lenticchie mi piacciono più di tutti gli altri e penso che questa predilezione venga proprio dal mio ‘de profundis’ per il suino intelligente.

In realtà, vivendo in campagna e in luoghi in cui la vita quotidiana non è (ancora) improntata a stili metropolitani, il rapporto con certi animali, che in città si conoscono solo morti e cucinati, è più scoperto e più fragile. Anni fa, in un campo a qualche chilometro dal paese in cui abito ora, passando ho sentito muggire disperatamente una mucca e uno di lì mi ha spiegato che alla bestia avevano appena tolto il vitello, cioè il figlioletto. In città è difficile che uno conosca il dolore di una mucca e ci debba anche fare i conti…  Ed ecco che non mangio più il nodino di vitello.

E’ solo un esempio, ma sono rimasta toccata nel profondo – da quell’esperienza e da altre, con maiali, soprattutto – e gradualmente compenso rivolgendomi alle lenticchie, possibilmente nostrane (quando riesco a trovarle) e molto più rasserenanti; anche se agli appassionati di miti o di Bibbia, esse potrebbero ricordare altre storie toccanti, come quella di Esaù, di Giacobbe, la loro faida per la primogenitura e i trucchi per ingannare il vecchio Isacco.