

Esco dal cinema, salgo in auto, avvio e accendo la radio. Sento una voce nota che non identifico – accento partenopeo: un attore, senz’altro – che dice “è chiaro che uno non diventa molto ricco, risparmiando sullo stipendio mensile, ma rasentando i confini del codice penale, o addirittura oltrepassandoli”.
Resto a bocca aperta. Questa voce che dà corpo a ciò che stavo pensando uscendo dal cinema è una coincidenza abbastanza impressionante. Sì perché al cinema avevo appena visto Margin Call, un film scabro e di rara intensità, che racconta – con un cast di attori molto convincenti – il ‘fallimento’ di una di quelle banche “too big to fail” che ha preso le mosse da una colossale ‘vendita bluff’, di (chiamiamoli semplificando così) titoli privi di qualsivoglia contenuto – pure illusioni, aria -. Insomma, una colossale truffa che ha lasciato migliaia di persone sul lastrico, permettendo così a un pugno di farabutti di arricchirsi enormemente.
Una delle innumerevoli speculazioni sporche che stanno contribuendo alla ‘crescita delle diseguaglianze’, fenomeno di cui saremo costretti a parlare per moltissimo tempo. E’ qualcosa di cui è difficile individuare contorni e dinamiche – perché ci viviamo dentro, nel quotidiano -, è qualcosa in cui scivolano le nostre vite – abituati come siamo a criteri e pensieri condizionati altrimenti -.La prima persona plurale, in questo caso ha un riferimento preciso; il “noi” riguarda chi vive in campagna, vicino alla terra, in luoghi solo apparentemente estranei o marginali rispetto a queste dinamiche.
Perché la terra – che è anche sentimenti e cultura che si esprimono tramite il paesaggio e gli elementi che lo determinano – è più che mai nel mirino della speculazione. Più è bella più è concupita (ma anche fraintesa). Perché i (nuovi) ricchi sono anche impazienti:tutto quello che comprano deve rendere (tanto e subito). Comprano tutto, ma capiscono poco.
Ogni epoca ha i propri miti. Sfogliando un libro scritto da Stella Pende – Confessione Reporter – ho trovato una foto che le ho scattato a Calle Fuego, nella casa di Garcia Marquez, nell’anno in cui usciva in Italia ‘Dodici Racconti Raminghi’; le storie visionarie che Stella e l’Irene Bignardi hanno poi fulgidamente recensito, ognuna a modo suo. I ricordi, molto intensi, dei giorni trascorsi con “el Gabo”, i suoi commenti su Berlusconi, le sue manie affettuose, il racconto delle sue storiche amicizie italiane e le raccomandazioni affettuose di cui mi gratificava – persino su come comportarsi in caso di terremoto – mi si affollano tutti insieme nella mente e si raggrumano come un gomitolo fatto con un filo di un tempo finito. Se ripenso a Macondo (e al Macondo) in questa contemporaneità fatta di discorsi sui soldi e sugli andamenti della Borsa (valori), di crisi finanziaria, di crisi della politica (che non tiene in alcun conto i valori, al di fuori di quelli della Borsa), mi pare di stare in un mondo capovolto, agli antipodi di quello rigoglioso e magico raccontato da Marquez nei libri che hanno riempito l’immaginario di almeno due generazioni. Oggi, la fabbrica del ghiaccio non è più l’incipit di un mito, ma sta nel cuore della gente che vive una nuova solitudine ormai senza ideali, e Macondo me lo immagino in mezzo a un deserto.