Mentre il solco tra l’immaginario del turista e ciò che ci si attende da lui rischia di diventare ogni giorno più profondo, può succedere – anche di questi tempi – di incappare in piccoli miracoli, che ti riportano al tuo, di immaginario, e ai giorni giovani dei primi viaggi in Toscana, così fertili di sorprendenti meraviglie.
Prima meraviglia fra tutte, a quei tempi, la semplicità. Qualcosa che oggi mi pare un po’ dimenticato, che era invece l’ingrediente principale dei viaggi primigeni, emergendo persino dalle fotografie che riportavano a casa (magari Milano), l’idea che lì in Toscana la vita fosse più serena e più ‘vera’, più gentile e più esteticamente accettabile; altrimenti perché farsi tutte quelle centinaia di chilometri in auto?
Io credo che, se chi amministra, chi produce, chi vende, chi ospita viaggiatori e turisti (insomma chi tratta il marchio “Toscana”) e anche chi fa i famosi vini, non si libera dal folklore (pieno di panzane) per recuperare lo stile d’antan – che altro non era se non il frutto di una vita più semplice ma assai armoniosa e un uso virtuoso e colto delle risorse disponibili –, l’economia fiorita sull’idea della Toscana Felix, si scontrerà con la disillusione che ogni tanto ho sentito nei commenti degli ospiti di questa terra; e non ci sarà campagna pubblicitaria che tenga, né promozioni più o meno articolate a far barriera. La disillusione chiede pedaggi assai alti e complicati da scontare.
Ma tornando alle sorprendenti meraviglie di cui sopra e alla speranza che esse mi suscitano (ma gli altri sono ciechi?), eccole qua. In sé non avrebbero niente di eclatante; si tratta di panzanelle, per la precisione due: una mangiata allo Scalo, all’Osteria di Pino e Daniela, l’altra al Colle, al Leccio di Gianfranco (e l’autore è il figlio Luca).
Per i non esperti dei luoghi, Scalo e Colle sono le due declinazioni di Sant’Angelo – frazione di Montalcino –, praticamente un ossimoro, come usa dire, ma in questo caso lo è davvero, perché è difficile trovare due luoghi più diversi – l’uno dall’altro – di questi.
Non vi darò la ricetta delle due panzanelle, anch’esse molto differenti, ma ne cito solo l’ingrediente principale: “il dono di raccontare”. Invece voglio parlare dei due locali e dei loro clienti e di come può accadere che da due visioni diametralmente opposte, si possa arrivare alla stessa clientela – non identica, si badi – qualche volta (ma non sempre) con diversa capacità di spesa, ma sempre con la stessa identica idea nella testa: regalarsi un’esperienza.
Mi è accaduto di pranzare ieri allo Scalo, con una frugale panzanella, tra l’editor di Chomsky, autisti di corrieri, impiegati, due giovani produttori di Brunello, alcuni operai della provincia, due importatori anglosassoni. C’era anche un gruppo di cinesi di Hong Kong – giunti in processione, sotto un sole implacabile, protetti da variopinti ombrelli parasole – che hanno assaggiato ogni pietanza (tutte diverse una dall’altra) commentandole vivacemente.
Poi ho cenato ieri sera al Colle, tra i titolari di due grandi produttori di Brunello, l’ordinario di storia del cinema (UNIGE) e la moglie originaria di Montalcino, una tavolata di americani che annuivano con entusiasmo ad ogni portata, un’altra comitiva di anglosassoni, con cinque bambini, elegantissimi e molto sciolti, e mi è tornata voglia di panzanella. E l’ho ordinata: ancora più frugale e diversissima.
Bisognerebbe che molti andassero a scuola da queste due panzanelle, per un indispensabile ripasso di turismo.
Viva la panzanella!
…ma Silvana quando pranzi chiedi anche il curriculum ai viandanti?…
Certo!