Ci si immagina che chi, come me, non ha fede, non sia toccato dal destino di un luogo ad alto contenuto spirituale, come l’abbazia di Sant’Antimo, che da oltre un mese è al centro di incontri, commenti, versioni diverse.
Ma Sant’Antimo, e la piccola comunità di canonici premostratensi che l’hanno abitata da poche decine d’anni a questa parte, sono (stati) anche per la gente come me, fino a poche settimane fa una presenza speciale, nitida e irradiante, come il saio quasi candido indossato da quei monaci. Troppo carismatica per passare inosservata, la comunità di questi canonici è anche stata per lunghi anni, da queste parti, l’unico tocco di autentica eleganza (se l’eleganza è la capacità di esserci senza apparire, in senso ostentativo, ma lasciando un segno distintivo). Gli uomini angelicati dal saio bianco sono anche stati i testimoni del cambiamento che ha toccato i versanti delle colline, con la crescita di presenze – doviziose, anche se non sempre altrettanto carismatiche – insieme alla crescita di vigneti divenuti famosi, fino alla capacità, ormai acquisita da tutti, di pronunciare la parola ‘bellezza’ (pur dandole un senso economico). I canonici regolari premostratensi sono stati il contrappasso del vino e del suo opulento edonismo, ma sono (anche) divenuti con il tempo un complemento (un completamento, un cerchio che si chiude), pur non essendo astemi. Ora vanno via, lasciando desolata – con quella che è stata definita, dal Corriere della Sera, una fuga -, “per una guerra di proprietà di alcuni locali”, tutta una comunità che in vario modo contava su di loro; e so che il dispiacere è forte.
Lascio però ai giornalisti il compito di offrirci le varie versioni di una verità che pare un Rashomon della val d’Orcia, ma senza Kurosawa alla regia. Mi limito a pensare che forse, paradossalmente, questa non sarà (solo) una fine, ma è (anche) l’inizio. Di qualcosa di nuovo, perché le cose cambiano.