Il ritorno a Brera di Cecilia Uematsu

RSCN9489Tutto arrotolato era il mio porta-collane: i colori appena si intravedevano, restando intatto il sospetto che fossero opera di un maestro. Srotolato, diventa il racconto di una città, di un luogo speciale, di un gruppo di maestri indimenticati, che hanno segnato un’epoca e che sono all’origine di un gusto speciale. Richard Sapper, Ornella Noorda, Norbert e Ornella Linke, Georges Coslin, Mario Cristiani, Ugo Mulas, Serge Libis, Enrica Agostinelli, Pino Tovaglia, Max Hubert … così alla rinfusa, come mi si affacciano al ricordo. Insieme ai tanti altri: indimenticabile Escolin (Marimekko), Giulio Argan e i suoi seminari di storia dell’arte, Bruno Munari come un elfo severo e sorridente … e tutt’intorno i personaggi di Milano che si risolleva dal buio della guerra e delle bombe; il Giamaica (Jamaica), Luca Scacchi Gracco, Bobo Piccoli, Alfa Castaldi, Mario Dondero, Gianni Ruggiero. E poi Pietrino Bianchi e poi la Cederna …

Tutti avvolti nel foulard dipinto da Cecilia Mora, con l’amica Agostinelli che illustrava il Barone Rampante, incantando Italo Calvino. Milano dove sei? Forse nelle prossime sere a Brera anch’io mi aggirerò tra i miei fantasmi, con un bicchiere in mano, alla ricerca di quel blu accostato a un seppia, con un righino ocra e una striscia arancio (su fondo bigio come la nebbia che galleggia sui ricordi.

E forse, in arrivo da Tokyo, mi ritroverò ancora faccia a faccia con Cecilia Mora Uematsu, le dita sporche di nero e il pennello in mano: incontrerò di nuovo la mia maestra del colore (dopo mia madre), le sue stoffe dipinte, gli orecchini enormi e gli occhi nocciola sgranati sul design giapponese … un fil di nebbia.

Lezioni di Giapponese

Il mio primo incontro con il Giappone risale ai tempi del liceo, anche se l’iconografia giapponese per me era riconoscibile sulla confezione di “Fleur de Rocaille”, il profumo di Rochas usato da mia madre quando ero bambina che annusavo di nascosto.

(Avevo già letto Mishima, al cinema avevo visto L’arpa birmana – Biruma no tategoto – piangendo lacrime amare: il Giappone era un mondo su cui l’America aveva gettato due bombe atomiche.) Il liceo, a Brera, era contiguo all’accademia di belle arti, già a quei tempi frequentata da stranieri attratti dalla fama dei maestri che vi insegnavano – Marino Marini, Pompeo Borra, Achille Funi, Guido Ballo -, e Brera, con il Jamaica e mamma Lina, Fiori Chiari, le sorelle Pirovini, le due strepitose cartolerie, la Scala, il Corriere, e le gallerie d’arte, era un polo magnetico della cultura internazionale. Hideo Hikeda era un giapponese del nord, beveva moltissimo vino (quel vinaccio che noi studenti bevevamo allora), era bellissimo, molto esotico e bravissimo fotografo: divenne ben presto il beniamino di noi pivelli milanesi, insieme alla Claudine che veniva dal Belgio, con le unghie laccate, il rossetto e un’aura di eleganza a noi sconosciuta.

Un Giappone molto più tradizionale entrò a casa dei miei genitori con Sanae Ando,  collega designer, nell’avveniristico ufficio sviluppo de la Rinascente dove un destino molto benevolo mi aveva offerto la prima occasione di lavoro in un ambiente che si ispirava alla ‘scuola di Ulm’. Per l’occasione, Sanae aveva indossato il kimono e viaggiato in tram (extracomunitaria ante litteram) nel gelido Natale milanese, accolta dai miei come una figlia, pensando alla sua lontananza da casa (conservo ancora alcuni dei suoi doni – piccoli capolavori dell’artigianato giapponese – che ci portò quel giorno).

Un’altra tappa del mio viaggio giapponese era stata più traumatica – imparando le tecniche per cadere – nelle prime lezioni di judo del maestro Takero, un campione che aveva aperto la prima palestra per l’insegnamento delle arti marziali in una Milano che si apriva a un cosmopolitismo senza scivolare nell’esotico. Per qualche anno mi sono procurata una serie di lussazioni che hanno segnato inesorabilmente le mie spalle, ma migliorato il mio umore interiore. Avevo già incominciato a usare Mitsuko, un profumo di Guerlain che nel ricordo si avvicinava molto a quello usato da mia madre, che nel frattempo era diventato introvabile. Un libro ereditato da Albe Steiner(repertorio delle simbologie giapponesi), la prima Pentax, le amatissime carte di riso stampate a mano, un ventaglio di carta rosso e oro, le kokeshi, il Giappone e la sua mostra, organizzata a la Rinascente: se guardo indietro nella mia vita c’è più Giappone che America.

Per questo, quando Hiro è sbarcato dal treno, mi sono ritrovata nel suo abbraccio e nelle sue risate. Come naturali erano i commenti sorti dalle situazioni un po’ paradossali, misurando i contrasti, nell’incontro tra occidente e oriente: visioni, modelli, interiorità, psiche, stili, colori. “Un modo diverso di pensare a dove andremo …”, commenta pensieroso.

Una lingua da guerrieri, il giapponese, con un fondo di crudezza coraggiosa, con inchini che ne sono parte integrante. Un Oriente lontano dalla Cina, un confronto DSCN2336da cui quest’ultima esce con un’immagine un po’ kitsch. Così Hirotaka, davanti all’insegna del “Bar Sayonara” mi dice, convinto: “è certamente di un cinese”, e invece – macché! – era un dopolavoro di Prato …

Guardare indietro per guardare avanti

Venticinque anni fa come oggi, più o meno a quest’ora, ero ospite a pranzo – colazione di lavoro, come si dice a Milano, per smitizzare l’espressione e metterla un po’ a dieta – dalla Bice in Borgospesso. Il mio anfitrione aveva lasciato le sue guardie del corpo fuori, in via Borgospesso e mi aveva portato un bel flacone di Eau de Cologne Imperiale di Guerlain in dono (un litro).

La scena me la ricordo come se la dovessi ricostruire in un improbabile diorama per il museo della Milano di Tangentopoli. Ma i giudici, che scavavano a nostra insaputa nella variegata merda metropolitana, ancora non si sognavano che la sostanza puzzolente che essi maneggiavano fosse come l’ailanto.

L’ailanto è un albero ormai diffuso in Europa, dalle caratteristiche infestanti (più lo tagli, più si riproduce, come la Medusa); è anche bello – proprio come il mondo laccato dalla corruzione di cui scrivono i quotidiani in articoli la cui obsolescenza ricorda le infinite forme di demenza che si suppone affliggano i vecchi. Invece affliggono l’intero paese.

Il mio anfitrione di quel giorno, oggi, è in galera, e confesso che mi dispiace un po’, ma pare abbia avuto qualche parte nella rappresentazione della multiforme corruzione italiana.

Quel giorno, invece, cogliendo il mio suggerimento molto lombardo, ordinò per entrambi risotto con l’osso buco e gremolada regolamentare: da bere – con mio scandalo autentico (peggio di una tangente, quella era addirittura una secante!) – Dom Perignon “millesimato”!!!

L’intento credo fosse sincero, però io avevo tenuto l’invito per me – non si sa mai –  e solo molti anni dopo ho cominciato a raccontarlo agli amici e agli amici degli amici (in accezione lombarda). L’intento era quello di dimostrarmi attenzione, quella che si merita una dalle cui mani passava – da parecchi anni – l’intero ‘expenditure’ della comunicazione di un grande gruppo. Passava, l’expenditure, e nemmeno un micro-corpuscolo ne restava nelle suddette mani: miracolo all’Italiana? No, a me – ma anche all’AD del gruppo in questione – sembrava normale, anche se oggi non lo sarebbe affatto.

Devo osservare che venticinque anni fa, nonostante l’avvento più che giustificato di Tangentopoli, poteva ancora succedere che qualcuno maneggiando l’equivalente di un paio di centinaia di milioni di euro non se ne appropriasse, né in toto né in parte. E che magari non ci pensasse nemmeno ad appropriarsene …

Ma era la somma che mi capitava di gestire, pubblicitariamente parlando, non la mia persona, a interessare il mio anfitrione, peraltro molto religioso. Nonostante io vestissi un elegante tailleur blu di sartoria (un inno alla sobrietà), con un paio di pendenti di corallo, lavorati da un artigiano di Gaeta e finiti – cinque anni dopo – nel bottino di un rapinatore di amabili signore. Ma il pranzo fu delizioso e ancora oggi, ripensandolo, mi sento quel delizioso ossobuco sciogliersi in bocca.

Mi è tornato in mente quel mio pranzetto di compleanno di venticinque anni fa, perché questi sono anniversari in cui si fa un po’ un bilancio e allora ci si guarda indietro – non per vedere chi ci sta dietro alle spalle, che pure sarebbe prudente, di questi tempi – per capire anche come andare avanti. Non tanto per trovare la forza, ma piuttosto per individuare una direzione in cui procedere …

E allora non posso non ricordare le parole guardinghe con cui mi venne proposto un cambiamento davvero radicale, nel mio lavoro e forse anche nella mia intera vita, a fronte di un assegno “su cui scrivi tu la cifra”. Dopo venticinque anni in cui ho vissuto una vita piuttosto divertente, di certo molto interessante, seppure con alcuni momenti addirittura drammatici, sono ancora qui a chiedermi se davvero ho fatto bene a dare una risposta un po’ ingenua (certamente non corrispondente al mio ruolo) che declinava l’autentica fortuna che mi stava rotolando nel piatto, quale ulteriore contorno alla magnifica cucina del rinomato ristorante … Strana cosa, i compleanni: strana e un po’ magica, talvolta.

Un incontro a Montalcino

DSCN2515Non solo vino, “quel vino”, mitico, spesso straordinario, talvolta sublime. Se scrivo di un incontro a Montalcino, l’associazione è immediata, invece l’incontro è quello fotografato qui sopra. Un incontro un po’ ‘giapponese’ – forse penso così, per via delle mie passioni (Hiruki, Banana, Mishima e le loro suggestioni di un modo diverso di guardare le ‘cose’)-. No, niente animismo, né ombre o magìa, forse solo un pizzico di oriente che si insinua nel mio occidentalissimo (e un po’ rigido) modo di pensare: un oriente necessario, per i vecchi, massimamente per i vecchi occidentali – abituati a reagire e ad agire con schemi obsoleti -; ma in realtà il mio pensiero, incontrando questo ramoscello portato sui miei passi dal vento gelido che soffia sul primo giorno dell’anno nuovo (spingendolo a forza, mi pare, sulla terra) è stato molto paesano. Un ricordo della recentissima povertà degli abitanti di questo angolo famoso della famosissima Toscana.

Il ricordo me lo suscita proprio questo fuscello da niente e di nessuno. “Eh no, se stava su una proprietà – per vasta che fosse  – raccoglierlo era rischioso, perché il proprietario, o uno dei suoi famigli, aveva da ridire: era suo”. Durante una delle innumerevoli camminate domenicali nella campagna, in compagnia di qualche camminatore locale piuttosto colto (e piuttosto riflessivo), incontrando pezzetti di legno, pigne, frutti selvatici, fichi maturi (quando è la stagione), asparagi selvatici, e tutte le piccole grandi scoperte che si fanno (e che si impara a vedere, andando a piedi), ho avuto questa rivelazione (per me stupefacente, ma poi acquisita e ben digerita).

Fino a qualche decennio fa – si parla del dopoguerra, abbondantemente dopo -, in campagna non circolava denaro, piuttosto ci si arrangiava; i bimbi e i ragazzetti, oltre a lavorare molto precocemente, quando girellavano, avevano sempre cura di tornarsene in casa con legnetti trovati,e altri piccoli beni, utili per accendere il fuoco (Gazprom e Putin non erano ancora stati inventati), o per insaporire un pasto. Ma guai se la cerca avveniva su proprietà privata: si rischiava, mi è parso di capire, anche qualche manata pesante …

Mi è già capitato di riflettere sul significato sociale, ma anche etico e spirituale, di questa realtà che in superficie ora è inintelligibile, ma che (re)esiste nel DNA di tante persone, cresciute dentro questi pensieri che talvolta hanno tarpato il meglio della loro intelligenza – che spesso fa capolino in quello che dicono e nel loro sguardo – e della loro sensibilità.

Mentre mi chinavo per afferrare il ramoscello, prima di pensare che non ho fuoco, in casa, ho cercato di immaginare come avrei fatto a portarmelo via senza farmi cogliere sul fatto dal proprietario del terreno su cui stavo camminando. Zen? No, empatia (o allenamento).

L’ultima volta al Derby Club

Ascoltando la radio, ogni volta che tra una notizia di politica e una cronaca culturale sono levitate le note di Renato Sellani sono tornata a sedermi in penombra al Derby, a Milano, in una sera come un’altra, quando il clima, la politica, gli affari e il mondo tutto si smaterializzavano, lasciando solo le immagini dense e fluide, di colori imprendibili, che Sellani ci raccontava.
Ogni volta che provo a visualizzare la ‘cifra’ di Milano, di “quella” Milano, rivedo il profilo di Sellani, seduto al pianoforte che racconta – senza però lasciarsi andare, senza uscire dal disegno della sua armonia -. Eppure volando e invitando noi al volo, sulla città che formicolava di idee e di genialità – aperta al mondo, per dare, per fare, per andare -.
Renato Sellani è stato il sound della mia città, ante Tangentopoli, ante Berlusconi atto secondo, ante ‘Ndrangheta, ante il dopo. Suonerà – lui diceva – insieme a Chopin; io spero insieme a Brahms, più adatto – a mio modo di sentire – al rimpianto per la classe che non è acqua, e purtroppo a volte, non è nemmeno vino.

La Triennale, ogni anno

DSCN9650Vivo in campagna, si sa, per la maggior parte del mio tempo; ogni volta che torno in città – soprattutto se si tratta della città da cui vengo – la vivo intensamente, poiché i miei occhi e i mei sensi hanno appreso altri paesaggi (quelli in cui desideravo vivere, da sempre) che però lasciano ampio spazio alle mie nostalgie e anche ad altre visioni.
Uno dei miei ricordi più vividi (e più lontani negli anni) riguarda il momento in cui ho capito, provando una sofferenza acutissima, che avrei potuto vivere solo una vita (forse due). Sarà per questo che mi piace Murakami Haruki, che nei suoi libri riesce a raccontare proprio questo sentimento.
Ciò che non potevo sapere, in quel momento così tanti anni fa, era che invece avrei potuto vivere vite diverse, se fossi stata capace di metterle in fila, una dietro l’altra, come i vagoncini di un treno-giocattolo, magari agganciati l’uno all’altro o forse no. Me ne sono accorta l’altro giorno ritornando alla Triennale (lo faccio ogni anno, è più facile vedere dove si è arrivati); ho pensato di visitare la mostra curata da Italo Lupi (è stato mio collega, tanti anni fa e mi ricordo sempre il suo naso che pesca un po’ in bocca …) che illustra il design italiano, prendendo le mosse dalla prima metà del ‘900 e di seguito mostrando molto bene autori e oggetti, della seconda metà del XX° secolo che mi sono familiari, perché ci ho vissuto accanto, li ho visti lavorare e ho visto nascere quei pezzi e potrei citare a memoria alcuni dei discorsi che si facevano a quel tempo. Quella è stata una vita intera, unica, con amori e tutto il resto; unica e distinta, iniziata quando sono uscita dall’Accademia e durata pochi intensissimi anni; poi è finita quando ho cominciato a lavorare in un’agenzia di pubblicità.

Insomma è impossibile raccontare tutto in un blog, anche se questo format mi dà l’impressione di parlare ad alta voce, di raccontare, con un bicchiere di vodka (o d’acqua, che è lo stesso) davanti.

Ma la Triennale si è sommata ad altri incontri, anche casalinghi, al riconoscimento di una “modalità” (si dirà così?) che sta facendo irruzione (oppure scivola dentro, chissà) nella nostra vita – di certo nella mia – una nuova medialità che modificherà, cambiando forse anche i modi di sentire e di vedere, di certo modificando le percezioni.

Nello stesso ‘girone’ c’è un bel po’ di paesaggi e di habitat natura (ancora e nonostante tutti i miopi in circolazione). Ed è come se questi due contesti (attenzione: non si tratta di contrapposizioni tra città/tecnologia e natura/paradiso perdente) fossero due vite che procedono in parallelo, portando alla luce storie che scorrono una accanto all’altra.

 

Viva il Maiale

Viva, viva il maiale: non quello che butta la carta e le cicche in terra – paragonato impropriamente al nobile e intelligente animale -; e nemmeno quelli che anche se c’è la raccolta differenziata – con dispendio di soldi ed energie pubblici – fanno finta di niente e continuano a buttare le vecchie scarpe nel cassonetto dell’umido …; ma nemmeno il riccone supermacchinato (e supergrasso) che siccome ha la targa straniera se ne frega dei limiti di velocità, tanto le multe non le paga e se proprio le dovrà pagare a lui gli fa un baffo. Ma non intendo nemmeno il maiale che si trova nella bottega del bravo Carlo Pieri – ma sotto forma di costolette e salsicce e salami e prosciutti – …

Intendo dire il maiale in quanto concetto (“del maiale non si butta niente”); perché sta tornando in voga, magari un po’ forzosamente, ma sapete com’è – una moda tira l’altra – … A Milano stanno rilanciando il concetto di “ripararazione”. Riparare, aggiustare, restaurare e magari pure rieditare, le cose vecchie – biciclette, mobili, giocattoli, vestiti (a proposito sto pensando di farmi risvoltare il mio bellissimo cappotto che da color prugna diventerà chocolatbleuclair – che è il colore del #tiriparoio -).

E allora ci sono i giapponesi che hanno inventato quel preziosissimo modo di ‘riparare’ con l’argento – kintsugi o kintsukuroi – qualsiasi ceramica o porcellana, ma c’è anche il riediting di mestieri vecchi come il ciabattino o il ‘ciclista’ inteso come il riparatore di biciclette; a Milano sono spuntate botteghe (eleganti!) in cui si rieditano i vecchi tailleurs o i cappotti e si stringono o allargano i vestiti. Ma con stile e garbo. Che sia la decrescita? Ma sarà poi felice? Questo è tutto da vedere e da immaginare (e da governare). In ogni caso: viva il maiale, animale prezioso, ma che da vivo è anche molto simpatico e intelligente.

Ti chiamavi Aquila 7

Ti confesso che non mi ricordo la tua faccia, ma la tua gentilezza e la tua sigla, quelle sì. Fai parte dei miei ricordi di lavoro, dei momenti più complicati, quando arrivava il momento di volare a Roma e c’erano i bambini – anzi, le ragazze – da accompagnare a scuola. Erano inverni (forse anche altre stagioni, ma io ho ricordi d’inverno) pieni di fumi e di pioggia, di vita complicata ma anche piena. Piena di lavoro, ma non solo; è un modo di stare a Milano che ora mi pare sia un po’ cambiato e tu certamente lo sapevi, te ne eri accorto; perché i taxisti si accorgono di un sacco di cose, hanno una memoria che assorbe, giorno dopo giorno, le facce le abitudini, i tic, dei loro clienti. Io ero una tua cliente abituale: c’eri tu e c’erano altre due sigle – sempre 8585, perché con i taxi ero abitudinaria e l’8585 non aveva mai bucato una corsa, una consegna, un affidamento. E io a voi affidavo abbastanza sovente i miei figli che dovevano andare a scuola, quando gli orari – miei e loro – non combaciavano. E sapevo che con i taxisti erano al sicuro… E se ci fosse stato qualche inghippo, qualcosa di irregolare, sarei stata subito avvertita. Un bel sollievo per una che lavora, che fa un lavoro non proprio tranquillo e che ha tre figli da crescere, per questo tu sei stato un aiuto prezioso e una sicurezza.

Perché i taxisti hanno l’occhio lungo e vedono anche quello di cui i loro passeggeri non si accorgono, generalmente. Invece tu questa volta, forse eri di corsa, ma non hai visto che cosa c’era dietro gli occhi di quello lì, o se hai visto non ci hai fatto caso, altrimenti non sarei qui a scriverti; a scrivere che ti penserò anche se sono lontana da Milano e dai suoi taxisti, qui in mezzo a questa campagna bella. Addio Aquila 7!

Amami Andrea!

Mentre noi, di rito ambrosiano, socchiudevamo gli occhi canticchiando mentalmente “amami Alfredo”, pensando al risottino all’onda e al maestro Gatti che di lì a poco sarebbe salito sul podio, nella Toscana più ligia ai detti e alle tradizioni, sposavano Andrea e Minnie, con corollario di amici e parenti, bimbi e canini – come in tutti i matrimoni veri. Il tempo tiepido è stato il primo regalo che il destino ha riservato agli sposi, il secondo – tutt’altro che secondo – è l’incredibile ricevimentopranzoconaperitivofashionincantina che l’alacre famiglia di Fiorella Vannoni alias Tenuta Croce di Mezzo, capitanata da Fiorella medesima, ha organizzato per i suddetti sposi, lasciando la sottoscritta sbalordita dalla misura, la bontà, i sorrisi, e il contagioso senso di futuro che il rito (per me semisconosciuto) ha profuso e infuso. Con gli occhi di padre Dominique a sorvegliare che le benedizioni raggiungessero il bersaglio. Amen!

DSCN8334DSCN8290DSCN8271DSCN8282DSCN8292DSCN8308DSCN8320DSCN8314DSCN8299DSCN8326DSCN8335DSCN8310DSCN8276

Pasta e Fagioli a Milano

DSCN8012

Lascio questo cielo mutevole e un po’ esibizionista, per quello di casa mia – più vasto e pallido e più abituato all’indifferenza degli sguardi -. Uno scenario per gente che era abituata all’understatement … modi di pensare e di essere un tempo venati da calvinismo, intrisi di voglia di non apparire. E’ una pasta e fagioli a suggellare la cena familiare, di famiglia larga – ma non allargata – con tre generazioni presenti, in una casa che è stata abitata soprattutto dai miei genitori e che trattiene, negli stipiti delle belle porte vecchie e nelle crepe del pavimento ‘seminato’ inizio novecento, ricordi di loro genitori e nonni, e di guerra, e poi del dopoguerra cittadino con poco cibo e ancora meno fantasia, di me bambina e poi fanciulla e poi ragazza un po’ ribelle.

La pasta e fagioli è assai saporita e viene da luoghi diversi, lontani e vicini. Montevideo, la repubblica Centroafricana, Genova e il negozio bio lì vicino. E’ fatta con semplicità e molta sicurezza, dalla nonna di mia nipote – l’altra nonna (“quella vera” dico sempre tra me e me) – una che mantiene il coraggio di vivere ben vivo e alto, che non ce l’ha mai avuta facile, ma con imperterrita eleganza.

C’è una bella atmosfera: la cena è breve e le emozioni sottaciute; le novità sono parecchie, la vita scorre e si sviluppa, come un ruscello che s’ingrossa e si adatta a sassi e foglie e erba. Mi risuonano in mente i versi di una poesia dedicata alle mie figlie, da un amico poeta che difficilmente tornerà a visitarci e a cui penso spesso.

Francesca y Margherita  /  Margherita y Francesca.  /  No seràn las homigas  /  negras de las acequias,  /  ni las blancas polillas,  /  ni el verde de los pinos.  /  Serà la mano firme, la mirada  /  alerta, vigilante, el corazon cuidando  /  la mano, la mirada  /  para volver a casa.  /  Y allì reunidos todos  /  hablar de los caprichos  /  del azar y còmo  /   someterlos por amor  /  al flujo de la vida.