A che serve cadere

DSCN9880Non ci credevo, non volevo crederci; mille volte, passando in quel viottolo avevo osservato che bisognava camminare stando ben accostati a monte, soprattutto d’estate, dopo la crescita tumultuosa di erbe, rampicanti e arbusti piccoli, che tutti intrecciati tra loro davano una falsa idea del sentiero percorribile.

Invece eccomi giù, di schiena, con la nuca affondata nel punto più basso, in un morbido ma ahimè cedevole cuscino erbaceo pervaso da spine e lappole pungenti, consapevole del salto ben più drammatico da cui il mondo vegetale mi stava riparando – sopra di me il cielo e i suoi abitanti, uno scorcio di case appena intraviste, il greppo da cui mi ero distrattamente scostata – con la consapevolezza di essere stata (per il momento) appena sfiorata da pochissime spine delle tantissime che immaginavo in attesa delle mie prossime mosse.

Ho provato a gridare due volte aiuto, ma più che altro per sentire il suono della mia voce; del resto non pensavo che l’invocazione sarebbe stata udita e, in caso affermativo, ascoltata. I più avrebbero pensato a qualcosa di casuale, e oltretutto l’età media degli abitanti del villaggio dove abito pro tempore li fa abbastanza sordi (cominciando dalla sottoscritta).

La posizione in sé non era scomoda, l’ora ancora fresca, il cielo limpido, i profumi di erbe e fiori molto buoni; ma uscirne sembrava poco possibile: solo un piede stava sul terreno solido ed era impossibile pensare di raggiungere qualche erba con radici e fusto robusti e aggrapparmici, impossibile dalla mia posizione – con la testa  più in basso in una specie di shirokemi incompleto -.

Se forzavo troppo per riuscire, in qualche modo, a slanciarmi in avanti e in su, era quasi certo che il mio peso moltiplicato dallo slancio avrebbe sfondato la rete di liane che mi teneva sospesa e sarei caduta giù  nello strapiombo, magari solo per qualche metro, ma passando attraverso una griglia di spine …

Dopo avere gridato aiuto – e riso di me stessa mentre gridavo – mi sono venute in mente le ginestre che abbondano sul mio cammino mattutino: unico arbusto a cui sin da piccina mi veniva suggerito di attaccarmi in caso di scivoloni o cadute; poi mi raccontavano la storia degli Angiò e dei Plantageneti. Così anche stamattina, nei minuti in cui non riuscivo a risolvere il modo per uscire da quella situazione precaria e spinosa, cercavo di ricordare come si chiamava quello che nel cadere da cavallo pare si sia salvato proprio grazie a una ginestra a cui era riuscito ad aggrapparsi. Peccato che le ginestre, lì non ci siano: solo rovi fioriti e profumati, intessuti ad altre erbe che li mimetizzano e hanno attenuato le punture delle loro spine.

Sapevo che proseguendo nella caduta le punture non sarebbero state così lievi: quelle spine mi sembravano le unghie di un felino … Tuttavia gridare non serviva, potevo solo sperare che qualcuno passasse di lì, cosa sempre più improbabile con il progredire del sole.

Mi è venuta in mente quella storiella del passerotto intirizzito e moribondo, salvato momentaneamente da una cacca di mucca che lo aveva riscaldato; una storiella lunga e articolata, la cui morale (non così scontata) dice che se sei nei guai è meglio non farlo sapere a nessuno. Del resto io anche provando a farlo sapere non c’ero riuscita …

Non potevo nemmeno capire se qualcosa era uscito dalle mie tasche – cellulare, chiavi di casa, macchina fotografica – ma ero contenta di essermi vestita, come spesso mi succede, più del necessario: la felpa che indossavo nonostante l’aria del mattino sia più tiepida del solito mi aveva protetto le braccia e la schiena da graffi e punture; non riuscivo a girare molto la testa, e quel che intravedevo accanto a me erano solo vilucchi rampicanti e spine.

Ho pensato che avevo tutto il tempo per provare dei piccolissimi movimenti, ho cominciato a saggiare qualche festuca, avvolgendomela intorno a una mano … scegliendone diverse, con radici diverse e fusti … mi è venuto in mente Edward De Bono e il suo pensiero laterale – ascoltato e imparato alle sue conferenze – quello che si impara a usare per trovare soluzioni alternative, quando quelle scontate non danno risultati.

Mi sono chiesta se ‘laterale’ poteva essere una soluzione e ho provato a saggiare con prudenza da che parte ruotare, piano, per tentare uno slancio verso il punto solido del sentiero. Ha funzionato, solo in parte, ma il rotolamento deve aver diluito il mio peso, un po’ come accade facendo judo.

Mi sono trovata a faccia in giù, sulla terra e con una mano che annaspava in cerca di un appiglio, possibilmente senza spine. Il caso ha voluto che lo abbia trovato … e che per un soffio il rotolamento in mezzo alle erbe abbia sortito un buon effetto. Ridevo, da sola, pensando al volo che avevo rischiato di fare, contenta che nessuno avesse sentito (o ascoltato) il mio grido d’aiuto.

 

Moretto

Senza allusioni. A un certo punto della mia vita mi sono ritrovata – spero con qualche merito, ma certo con buona fortuna – alla testa di una direzione importante, in un’impresa editoriale che viveva anni di grande sviluppo e di iniziative epocali.

A un certo punto, durante una fase aziendale delicata ebbi una promozione che implicava anche una riorganizzazione profonda della struttura che riferiva a me, con alcune promozioni di quadri e dirigenti – uomini e donne – che avrebbero avuto maggiori responsabilità e ruoli di spicco, non solo all’interno della stessa direzione, ma anche in azienda, proprio grazie alla tipologia della nostra attività che prevedeva alcune autonomie sinergiche e ben organizzate.

C’erano tre uomini che potevano ambire a uno dei ruoli più interessanti; erano tre quadri con qualità precise per i ruoli che ricoprivano, e con caratteristiche generali diverse tra loro. Un aspetto che mi interessava era anche quello dell’affidabilità e della loro trasparenza nei comportamenti, perché si aveva a che fare con un contesto pieno di insidie, anche politiche. Uno dei tre uomini – che chiamerò Pacchia – era molto brillante, aveva indiscusse capacità di ‘visione’, un’ottima cultura ma un curriculum mediocre, che lasciava un po’ perplessi riconoscendogli intelligenza e vivacità intellettuale; era una persona con un passato discontinuo che però mi piaceva nonostante si prendesse qualche volta delle autonomie non sempre opportune.

C’era tensione perché si sapeva che la decisione era imminente: io ero ancora incerta, perché costretta a scegliere dall’interno dell’organico esistente e sapevo che la promozione di uno dei tre sarebbe diventata anche un po’ un giudizio negativo nei confronti degli altri due uomini e non potevo poi permettermi ripercussioni negative sulla qualità del lavoro. Erano anni (gli anni ’80) in cui il sindacato era forte in azienda e tutte le decisioni manageriali venivano messe in discussione, passate al vaglio in modo strumentale e divenivano talvolta occasione di ostruzionismi o malintesi.

Un pomeriggio, nell’imminenza della scelta definitiva per quella promozione, mi chiese un appuntamento il Pacchia, che sapeva di avere un certo ascendente su di me e che non mancava di farmi notare – in modo un po’ ingenuo – la sua cultura ricca e variegata che sovrastava sulle altre. Aveva un atteggiamento non dico intimidatorio, ma era come se immaginasse sé stesso perennemente in groppa a un cavallo bianco.

Il Pacchia venne nel mio ufficio e sedette dall’altra parte della scrivania: con un largo sorriso e gli occhi fissi nei miei, allungò una busta bianca verso di me, che gli stavo di fronte abbarbicata alla scrivania, forse apparendo (più di quanto non fossi nella realtà) sulla difensiva. La busta bianca stava tra di noi e spiccava sul legno della pregiata scrivania Knoll – me la ricordo bene – trattenuta solo dall’indice del Pacchia che facendo mossa di spingerla ulteriormente verso di me disse all’incirca queste parole “se il posto di direttore creativo non è mio, qui ci sono le mie dimissioni”.

Ovviamente non ricordo precisissimamente le parole, ma ho bene in mente la brevità della frase e il tono educato e sobrio ma fermissimo, e poi lo sguardo. Ma ho soprattutto in mente la busta bianca e il pensiero che in quel momento mi attraversava la mente (“e se poi lì dentro c’è un foglio vuoto?”), mentre capivo che il mio essere donna – soprattutto in quei tempi – mi faceva debole agli occhi del Pacchia che giocava sulla sua superiorità, anche di genere.

Quindi allungai la mano e la misi sulla busta bianca, tirandola verso di me e sottraendola da sotto il dito del Pacchia, e dissi: “Accettate”. Una semplice paroletta, poi mi alzai e gli strinsi la mano, ringraziandolo per il lavoro svolto fino ad allora. Dopo non successe proprio niente di drammatico; passato qualche mese mi accorsi che a fronte del risparmio di uno stipendio da quadro, il lavoro andava avanti bene e con piena soddisfazione di tutti. 

Le notizie estive davano il Pacchia al mare, a vendere, in un baracchino molto chic di un luogo alla moda, insieme alla compagna del momento, delizie di stagione a caro prezzo. Senza illusioni.